Kamala Harris, il capitalismo intersezionale e l’amicizia con Israele

In questi giorni, a reti unificate, si sta santificando la vittoria dei democratici Biden e Kamala Harris per “partito preso”: non hanno ancora fatto nulla, ma già hanno tutti i meriti.

Lorenzo Poli – Invictapalestina.org – 10 novembre 2020

Immagine di copertina: Kamala Harris (AP Photo/Carolyn Kaste()

In questi giorni, a reti unificate, si sta santificando la vittoria dei democratici Biden e Kamala Harris per “partito preso”: non hanno ancora fatto nulla, ma già hanno tutti i meriti.

Il mainstream infatti  non parla di quello che Kamala Harris o Joe Biden hanno fatto o supportato, ma imbastiscono discorsi basati sulla sola mozione emotiva: Harris come prima donna americana di origini indio-giamaicane vicepresidente degli USA; Harris che chiama affettuosamente Joe Biden per dargli la notizia della vittoria; Harris che balla dalla felicità per aver sconfitto un razzista come Trump, o lo stesso Biden rappresentato come “serio e decente” rispetto all’oggettivamente impresentabile Trump.

Non solo, la retorica sulla santificazione dei nuovi eletti si basa su una sottile strumentalizzazione dei temi legati ai diritti civili e su una tendenza molto glamour dei diritti Lgbt. Sui social ormai il duo democratico è diventato quasi un’icona gay dopo la notizia che uno dei grandi elettori di Biden è transgender e che Karine Jean-Pierre, coordinatrice dello staff di Harris, è lesbica.

Sappiamo benissimo che le strutture di oppressione culturale, come il patriarcato, per anni hanno impedito alle donne e a chi aveva un orientamento sessuale diverso di ambire a ruoli che solo maschi bianchi cisgender potevano ricoprire. Oggi però, come ci insegna la filosofa femminista Nancy Fraser, il neoliberismo progressista, con tutte le contraddizioni, l’ipocrisia del caso e la sistematizzazione di nuovi modelli, cerca di superare le differenze per attirare consenso con narrazioni tossiche sulle “quote rosa”, prevedendo accesso ai ruoli di potere a tutti i generi, senza però mai mettere in discussione strutturalmente quegli stessi ruoli e le differenze di classe.

 Ormai sappiamo che se le lotte non sono intersezionali e mancano di una prospettiva di classe, non sono lotte volte allo stravolgimento dello “status quo”.

Oltre al pinkwashing, che ha presentato mediaticamente Harris  all’opinione pubblica occidentale come un’icona gay,  tacendo le sue politiche transfobiche quando era procuratrice in California, c’è un fenomeno molto più interessante che la riguarda, insieme ad altri del suo entourage.

Si chiama intersectional capitalism, capitalismo intersezionale, ovvero “il processo sistemico di demoralizzazione e disumanizzazione dei corpi razzializzati e di genere per il loro sfruttamento per coprire le logiche di mercato e di oppressione”* . Si prende una persona di colore, Lgbtq+, disabile o qualsiasi altra identità che vive una subalternità e la si colloca in ruoli di potere affinchè non cambi assolutamente nulla. Al contempo però la sua l’identità funge da scudo per continuare a perpetrare lo stesso identico sistema, soltanto con una sfumatura “rosa” o “arcobaleno” o “nera” che lo rende più digeribile, giustificabile e legittimo.

L’identità di queste persone assume una connotazione più forte a livello mediatico rispetto a sfruttamento capitalista, interventi NATO, imperialismo, blocchi economici, sistemi d’apartheid (definizione di intersectional imperialism) e la loro stessa pratica politica nei confronti dei diritti umani, qualunque essa sia, che continueranno a promuovere. Questa può diventare (è già diventata) una potente arma di distrazione di massa e di silenziamento della lotta.

In molti hanno gioito sui social per la vicepresidente USA donna e di colore, ma l’identità da sola non basta a sconfiggere le discriminazioni e le disuguaglianze sociali, soprattutto se rimane al servizio del sistema razzista e capitalista. Credo che nessun attivista anticapitalista per i diritti umani e nessuno che si dichiari “comunista” o “socialista” possa ritenere Kamala Harris una compagna con cui condividere il proprio percorso politico e non sarà sicuramente il fatto di essere la prima donna di colore vicepresidente a darci il contentino.

D’altronde è ormai da anni che i neri rivestono posti di prima fila nell’establishment USA, non in quanto vittime, ma in quanto parti integranti dello stesso sistema, che sfrutta il tema delle identità corrivamente per sé. Ricordiamo il nero Colin Powell, criminale Segretario di Stato di Bush J. che portò all’ONU le false prove delle armi chimiche di Saddam Hussein con una fiala d’antrace per legittimare la guerra in Iraq; o la nera Condoleezza Rice, Segretaria di Stato sempre sotto Bush; o il Presidente nero Obama che fu tra i più forti repressori dei manifestanti di Occupy Wall Street.

Dopo che nel 2008 Obama venne equiparato al movimento anti-apartheid di Mandela in Sudafrica,  aggiudicandosi un Premio Nobel per la Pace ad honorem  con il quale avrebbe inaugurato una lunga serie di guerre imperialiste, la sua presidenza ci aveva insegnato a guardare alla sostanza e non alla forma dei fatti e, soprattutto, non all’origine delle persone. Ci aveva insegnato a non giudicare dal colore della pelle, ma dalle azioni perché dietro alle apparenze si nasconde frequentemente lo stesso establishment delle lobby di potere, spesso più bianche che mai.

In questo scenario, la vicepresidenza di Kamala Harris è forse è ancora più grave, perché é un contentino che la nuova amministrazione vuole dare a Black Lives Matter, di entità politica completamente diversa. Una lotta, quella antirazzista, che se non declinata in una prospettiva di classe, piace solo agli alti salotti dei socialite nei quali vanno molto in voga slogan ipocriti come “siamo tutti uguali, abbasso al razzismo”.

Non a caso Harris, fin dal suo insediamento come senatrice nel 2017, è nota per le sue chiare posizioni filo-israeliane e per il suo appoggio all’apartheid contro i palestinesi. Il sionismo è espressione di una visione del mondo e purtroppo, come ha scritto Roberto Prinzi i questi giorni, anche a sinistra viene visto con troppa leggerezza, come se fosse un’opinione tra le altre e mai per quello che è veramente.

Essere pro-Israele, soprattutto negli Usa, significa essere legati ad influenti gruppi di potere. Conta poco che poi si gridi che il “razzismo è una brutta storia” o che si parli di diritti civili. Kamala Harris è dichiaratamente contraria a qualsiasi limitazione agli aiuti militari e finanziari USA a favore di Israele e ha rassicurato diverse volte Netanyahu e il suo alleato centrista, il ministro della difesa, Benny Gantz.

Harris ha partecipato per due volte alla conferenza annuale dell’AIPAC, la principale lobby filoisraeliana in USA (esattamente come il suo presidente Joe Biden), circostanze  in cui  ha dichiarato che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per la sicurezza di Israele e il diritto di Israele all’autodifese e definendo  l’AIPAC “casa della democrazia e della giustizia”.  La stessa ha preso posizione contro il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e ha dichiarato di aver partecipato, in giovane età, alle raccolte fondi del Keren Kayemeth, una antica organizzazione ecologica ebraica fondata nel 1901, oltre ad aver sostenuto e incentivato  la piantumazione di alberi negli insediamenti illegali nei TPO.

Sposata con un potente ebreo sionista di Brooklyn, ha apertamente appoggiato la mozione contro la risoluzione 2334 dell’ONU in cui si condannava Israele per la costruzione illegale di insediamenti in Cisgiordania. Mozione che sostenne in quanto “necessaria per combattere i pregiudizi anti-israeliani”.

Il 19 giugno 2019, durante una sua intervista al New York Times, alla domanda : “Crede che Israele soddisfi gli standard internazionali in materia di diritti umani? Kamala rispose : “Penso che Israele si dedichi ad essere una democrazia ed è uno dei nostri più stretti amici in quella regione (…) Nel complesso, sì”.

Come sempre, negli USA si è insediato un governo filoisraeliano che nega apertamente la violazione sistematica del diritto internazionale e dei diritti umani del popolo palestinese, rinsaldando ulteriormente l’alleanza che ha permesso la violenta colonizzazione della Palestina e la perpetrazione di crimini contro l’umanità.

Un fattore che  preoccupa è che queste figure liberal proiettano sull’immaginario collettivo un cambiamento che non potrà mai realizzarsi, alimentando al contempo confusione politica.

Ma fino a che punto possono alimentare l’illusione?

* Susila Gurusami “Intersectional capitalism and the calculations of human life”

 

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