Il Complesso Militare-Industriale, in stile Israeliano. Una nuova docuserie televisiva espone l’importanza di “Iron Dome”

Una nuova serie televisiva documentaristica prodotta in Israele racconta la storia del sistema missilistico Iron Dome, ma come scrive Kathryn Shihadah, tralascia i dettagli cruciali su come l’arma viene utilizzata e su chi l’ha finanziata.

Fonte – English version

Di Kathryn Shihadah – 5 novembre 2020


Una nuova docuserie prodotta in Israele racconta lo sviluppo e l’uso del  costosissimo sistema di difesa missilistica Iron Dome finanziato dagli Stati Uniti. Il sistema difensivo, un’estensione del complesso militare-industriale americano, è progettato per intercettare i rudimentali razzi lanciati da Gaza e incarna appieno l’approccio di Israele alla resistenza palestinese: negazione e sproporzionalità.

Questi fattori giocano anche un ruolo nell’industria della difesa israeliana nel suo insieme, un’impresa che trae profitto dalle sofferenze dei palestinesi che sono costretti a vivere sotto il controllo del colonialismo moderno e dell’occupazione da parte del sistema razzista istituzionalizzato di Israele. I palestinesi si oppongono alla loro oppressione sistemica in uno scenario da Davide contro Golia, resistendo al loro occupante con razzi rudimentali; mentre Israele, che vanta uno dei più grandi eserciti al mondo, utilizza le armi più moderne e sofisticate del pianeta per terrorizzare le sue vittime.

Israele si unisce e compete con il dominio statunitense dell’industria globale delle armi. La serie della durata di tre ore intitolata “Iron Dome” è stata presentata in anteprima mondiale il mese scorso in ebraico su Izzy, una piattaforma che si definisce “il nuovo modo di scoprire Israele”.

Negazione dei fatti

La serie mostra gli abitanti israeliani della città di Sderot, vicino al confine di Gaza, mentre ripensano agli eventi degli ultimi vent’anni o giù di lì e discutono dei loro due principali nemici: i razzi e un governo israeliano che per molto tempo non sembrava preoccuparsene.

Il primo razzo caduto è stato lanciato da Gaza nel 2001 e il primo missile mortale nel 2004. Nel 2007, nove israeliani erano stati uccisi e uno ferito a Sderot, e il governo israeliano, alla fine, ha sostenuto lo sviluppo di un sistema di difesa missilistica: L’Iron Dome.

Israele ha attaccato brutalmente Gaza nell’inverno del 2008-2009 nella speranza di porre fine al lancio dei razzi che a quel punto avevano ucciso 12 israeliani. L’attacco, dove furono impiegate le più moderne armi israeliane dell’epoca, uccise 1.400 palestinesi, oltre 450 dei quali donne e bambini, e nove israeliani.

La serie “Iron Dome” non fa riferimento a queste statistiche, né divulga la fonte della collera e del risentimento palestinese: essere confinati illegalmente a Gaza e sotto occupazione dal 1967. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, con una densa popolazione di quasi due milioni di persone senza possibilità di andarsene. Israele mantiene il controllo completo del suo confine e nemmeno le forniture umanitarie, gli osservatori delle ONG e i giornalisti possono entrare.

Questo brutale blocco israeliano è in atto dal 2007, limitando gravemente l’accesso degli abitanti di Gaza a cibo, acqua, medicinali e altri prodotti di prima necessità e procurando all’enclave il soprannome di “prigione a cielo aperto più grande del mondo” e la designazione di “invivibile”. I suoi due milioni di abitanti sono alle prese con la malnutrizione, una grave carenza di acqua potabile, elettricità e nessuna aspettativa. I tassi di suicidio sono aumentati a un ritmo allarmante.

Gli israeliani intervistati nella serie sembrano inconsapevoli di queste realtà, e in effetti, i cittadini ebrei israeliani, nel complesso, sono all’oscuro della realtà dell’occupazione poiché il governo israeliano confina i palestinesi dietro il muro, rendendoli invisibili.

La docuserie “Iron Dome” è una continuazione di questa invisibilità e, per estensione, anche dell’invisibilità delle persone oppresse sotto il giogo del complesso militare-industriale statunitense.

La dottrina Dahiya

La dottrina israeliana Dahiya: “l’uso sproporzionato della forza”, come dimostrato nell’incursione del 2008, e di nuovo nel 2012 e 2014, è stata parte integrante della strategia di guerra del paese sin dalla sua nascita.

La Dahiya ha provocato la morte di migliaia di civili innocenti, così come la distruzione di scuole, ospedali, edifici delle Nazioni Unite, infrastrutture vitali e interi quartieri.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato e criticato la pratica illegale per anni, tra cui il Relatore speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Richard Falk, che ha definito questa strategia in corso nientemeno che “terrorismo di stato”.

Sia Israele che gli Stati Uniti hanno resistito con fermezza, con il sostegno del Congresso, ai tentativi Internazionali di ritenerli responsabili di crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale (ICC) e Donald Trump ha minacciato di tagliare gli aiuti ai paesi che si oppongono all’impunità americana e israeliana.

La sproporzionalità israeliana è evidente non solo in tempo di guerra, ma anche in tempi di relativa calma. Il ritornello “Hamas è un’organizzazione terroristica” è solo un esempio.

Israele usa l’etichetta “terrorista” per incolpare Hamas degli attacchi aerei israeliani (che sono diventati così frequenti che la maggior parte dei media raramente ne parla più), e come giustificazione per il suo rifiuto di consentire a componenti e materiali di entrare a Gaza per la riparazione di infrastrutture ed edifici.

La caratterizzazione ignora le forze politiche e sociali del gruppo, nega le legittime rivendicazioni alla resistenza contro l’oppressione e giustifica i numerosi abusi gratuiti dei diritti umani da parte di Israele.

A installazione quasi ultimata di “Iron Dome”. il sindaco di Sderot ha dichiarato:

“L’Iron Dome è un deterrente. Per risolvere il problema con Gaza, abbiamo bisogno di una politica. O usare tutte la nostra potenza in un’operazione militare e sradicare il problema, o lottare per la pace con tutte le nostre forze”.

Israele ha scelto il primo.

Ma Israele ha cose più importanti di cui occuparsi dei “soli” i territori palestinesi. La sua industria della difesa, di cui Iron Dome è la punta dell’iceberg, ha ramificazioni globali.

Finanziamenti a fondo perduto

Gli americani attenti all’economia dovrebbero sapere che Israele non sta solo spendendo i dollari delle loro tasse per armarsi (circa 10 milioni di dollari al giorno, fine settimana e festività inclusi), ma li sta anche segretamente derubando, costando agli Stati Uniti in proventi e posti di lavoro.

La procedura operativa standard richiede che i finanziamenti statunitensi per gli armamenti concessi a Israele vengano spesi negli Stati Uniti, ma il Congresso ha elaborato regole speciali che consentono a Israele di spendere circa un quarto dei nostri aiuti militari all’interno del proprio paese. Dei 3,8 miliardi di dollari l’anno che dovrebbero rientrare nella nostra economia sotto forma di acquisti di armi, ritornano solo circa 2,6 miliardi di dollari, un importo che contribuisce ancora generosamente sia al complesso militare-industriale statunitense che alla sua controparte israeliana.

Dal 1948, gli Stati Uniti hanno elargito a Israele 6,9 ​​miliardi di dollari per vari sistemi di difesa missilistica, oltre a più di 100 miliardi di dollari in altri aiuti militari e 34 miliardi di dollari in aiuti economici (in dollari dell’epoca, non adeguati all’inflazione).

Gioco sporco

Israele ha sottratto i clienti all’industria della difesa statunitense, soprattutto da quando Trump ha procurato a Israele alcuni nuovi alleati arabi che ora potrebbero preferire fare acquisti a livello locale.

Non solo Israele sta pregiudicando le vendite di armi statunitensi, ma non sempre rispetta le regole. Nel 2018, Israele ha modificato e cercato di rivendere sistemi d’arma di fabbricazione americana in Croazia, senza il permesso degli Stati Uniti.

Quella vendita è stata annullata, ma il Ministero della Difesa israeliano e l’industria della difesa operano in segreto, rivelando raramente chi sono i loro clienti. Secondo quanto riferito, hanno clienti in Canada e in diversi paesi europei, così come in Africa e America Latina.

Ma Israele sta tranquillamente gabbando il suo alleato più generoso in un altro modo ancora.

Dal 2010, gli Stati Uniti hanno investito 5,5 miliardi di dollari di denaro dei contribuenti nel progetto Iron Dome. Come riportato da sito di Breaking Defense, nel 2019 il Congresso “ha effettivamente costretto un riluttante esercito statunitense” ad acquistare due batterie Iron Domes al costo di 373 milioni di dollari. Dopo aver eseguito l’ordine, tuttavia, Israele ha rifiutato di condividere importanti software proprietari, limitando fortemente l’utilità del sistema per gli americani. (Ironicamente, nel 2016, gli Stati Uniti erano disposti a rivelare i codici sorgente dell’F-35 a Israele e a nessun altro paese.)

Per chi è più interessato alla pace e alla giustizia che all’economia, c’è molto di più da obiettare. Israele trae profitto non solo a spese dell’america, ma anche (e ancor di più) a spese dei palestinesi, oltre a esportare l’oppressione in tutto il mondo.

“Eccessivo”

Mentre i palestinesi sono stati essenzialmente disarmati dal 1993, l’esercito israeliano ha costruito un enorme arsenale di armi da usare contro di loro, grazie in gran parte agli aiuti statunitensi. La resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana consiste quasi interamente in razzi artigianali e palloni incendiari provenienti da Gaza e occasionali attacchi individuali con coltelli da parte di qualche residente frustrato della Cisgiordania.

Il narratore della docuserie “Iron Dome” descrive i razzi di Gaza come “fatti di tubi di metallo rubati del diametro di una lattina di Coca-Cola, solo un pezzo di metallo volante” imbottito di fertilizzante che i palestinesi di Gaza asciugano al sole sui tetti delle loro abitazioni.

Mentre costruire un razzo può costare al massimo 100 dollari (i palloncini incendiari molto meno), un missile anti-missile ha un prezzo di 50.000 dollari e la batteria di lancio di circa 50 milioni di dollari. (Un nuovo prodotto, il Light Blade, è stato sviluppato appositamente per abbattere i palloncini.)

Il documentario mostra gli israeliani che corrono a ripararsi nei rifugi antiaerei quando viene rilevato un razzo in arrivo, ma omette filmati di palestinesi che non hanno un posto dove nascondersi durante un attacco aereo Israeliano.

Complesso Militare-Industriale, in stile Israeliano

I miliardi in ricerca e sviluppo e le spese per la produzione e il funzionamento di attrezzature militari come Iron Dome hanno senso solo nel contesto delle vendite globali di armi.

Il settore della difesa israeliano sviluppa armi tecnologicamente avanzate, spyware e attrezzature per la difesa missilistica, e ne produce circa cinque volte più del necessario. Solo nel 2019 le esportazioni israeliane hanno totalizzato oltre 7 miliardi di dollari, rendendolo uno dei maggiori esportatori di difesa al mondo.

Come un prototipo, le capacità dell’Iron Dome vengono mostrate ai potenziali clienti ogni volta che un razzo lanciato da Gaza viene intercettato da un missile anti-missile da 50.000 dollari.

Un appaltatore della difesa israeliano ha confermato che in seguito agli attacchi militari a Gaza, la sua industria ha visto un grande aumento del numero di clienti stranieri. “Normalmente adottiamo una strategia di marketing aggressiva all’estero, ma le operazioni dell’esercito favoriscono sicuramente il nostro lavoro”. Il legame tra l’esercito e l’industria delle armi non potrebbe essere più esplicito.

L’acquirente tipo

Poiché i razzi lanciati da Gaza sono raramente letali, alcuni esperti usano parole come: “guerra asimmetrica” ​​e “repressione delle proteste”, per descrivere la linea di prodotti israeliani.

L’economista Shir Hever sottolinea che la domanda di armi israeliane è “la più alta tra i governi che devono affrontare grandi divari e disordini sociali”.

“Infatti”, dice Hever, “la Striscia di Gaza diventa più di un laboratorio per esplosivi israeliani. È un laboratorio per un esperimento sociale in cui un’intera popolazione è imprigionata e isolata, controllata da terra, mare e aria e sostenuta con l’assistenza degli aiuti internazionali (per i quali Israele non deve pagare)”.

Nadera Shalhoub-Kevorkian, che ha studiato l’uso di armi militari israeliane nei quartieri palestinesi, aggiunge: “Le aree palestinesi sono laboratori dove vengono testati prodotti e servizi di società di sicurezza sponsorizzate dallo stato” e poi resi disponibili per il mercato del commercio globale delle armi.

La Grande Marcia del Ritorno, la protesta settimanale durata 20 mesi a Gaza tra il 2018 e il 2019 che ha attirato decine di migliaia di partecipanti, è stata, per Israele, un’altra “opportunità per sviluppare nuovi mezzi per reprimere le manifestazioni”, per sviluppare ancora più soluzioni high-tech a problemi low-tech.

Programmi televisivi come “Iron Dome” servono a perpetuare miti e offuscare verità. Nel frattempo, Israele crea nuove forme di oppressione, testandole sui palestinesi ed esportandole in paesi che hanno la possibilità e la volontà di opprimere la popolazione.

Kathryn Shihadah scrive per MintPress News e If Americans Knew. Documenta regolarmente l’ingiustizia e la demonizzazione che i palestinesi affrontano per mano di Israele con la complicità degli Stati Uniti, in particolare la comunità cristiana. Kathryn vive in Medio Oriente da dieci anni e ha viaggiato molto. Scrive su PalestineHome.org.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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