UNICEF: 600.000 bambini palestinesi a Rafah non possono “evacuare” in sicurezza

“La realtà per i bambini che vivono lì è scioccante, onestamente”, ha detto un funzionario che recentemente è tornato da Gaza. “La gente vive in condizioni davvero squallide”.

Fonte: English version

Di Jeremy Scahill – 8 maggio 2024

Immagine di copertina: Bambini seduti su un camion mentre i palestinesi con i loro averi imballati continuano a partire dai quartieri orientali della città a causa degli attacchi israeliani in corso a Rafah, Gaza, l’8 maggio 2024. (Foto di Ali Jadallah /Anadolu tramite Getty Images)

Inviando i suoi carri armati questa settimana a Rafah, nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano si è mosso rapidamente per prendere il controllo del lato palestinese del valico di frontiera con l’Egitto. Il presidio ha reciso l’unico corridoio che collega i palestinesi di Gaza alla terra non controllata da Israele. In un atto volutamente simbolico, un carro armato israeliano ha demolito il monumento “I love Gaza” (“Amo Gaza”) che accoglieva i visitatori mentre attraversavano il territorio dall’Egitto.

L’attacco, e l’imminente invasione su vasta scala di Rafah minacciata da Israele nonostante le forti obiezioni della Casa Bianca, lascia i civili palestinesi a sopportare il peso dell’implacabile assalto. Israele ha rapidamente chiuso il valico di frontiera di Rafah. La chiusura lascia praticamente chiusi i rubinetti degli aiuti a Gaza.

I residenti di Gaza sono ancora una volta costretti a partecipare a un doppio gioco in cui devono affrettarsi per comprendere le mappe create dagli israeliani, indicando in quale area devono spostarsi per scampare a morte certa. Le immagini trasmesse sui social media dal portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano hanno dato istruzioni ai civili di Rafah di tornare verso il centro di Gaza, a Khan Younis, un territorio lasciato in rovina dopo i continui attacchi aerei e terrestri israeliani.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, UNICEF, chiede al governo israeliano e ai suoi sostenitori di cessare il fuoco e invertire la rotta sui piani per un’invasione su vasta scala di Rafah.

“Ci sono 600.000 bambini che cercano rifugio a Rafah e molti di loro sono già stati sfollati più volte”, ha detto Tess Ingram addetta delle comunicazioni dell’UNICEF, recentemente tornata da Gaza. “Sono esausti, traumatizzati, malati, affamati e la loro capacità di evacuare in sicurezza è limitata”.

“L’area verso la quale viene loro ordinato di evacuare non è sicura. Non è sicura perché non ci sono servizi per soddisfare i loro bisogni primari, acqua, servizi igienici, ripari”, ha detto in un’intervista. “Ma non è sicura anche perché sappiamo che quella zona è stata oggetto di bombardamenti nonostante fosse una cosiddetta zona sicura. Quindi siamo davvero preoccupati per l’impatto di un’offensiva di terra su una delle aree più densamente popolate del mondo”.

Prima dell’inizio della guerra di terra bruciata di Israele contro Gaza, Rafah era una città di circa 250.000 abitanti. A causa della fuga dei palestinesi dagli attacchi israeliani, la popolazione è attualmente stimata a 1,4 milioni.

“La realtà per i bambini che vivono lì è scioccante, onestamente. Le persone vivono in condizioni davvero squallide”, ha detto Ingram. “È uno spazio incredibilmente affollato. Ovunque tu vada, sei quasi spalla a spalla con un’altra persona. I rifugi improvvisati si espandono dagli edifici lungo il marciapiede fino alla strada. Le persone vivono ovunque possano trovare spazio, sotto teloni o coperte. E questo si espande a perdita d’occhio”.

Ingram ha detto che l’UNICEF non è riuscita a portare rifornimenti o carburante a Gaza da domenica 5 maggio.

“Stiamo davvero raschiando il fondo del barile ora con il carburante che abbiamo lasciato a Gaza. Non siamo stati più in grado di entrare”, ha detto. “E quel carburante è la linfa vitale delle operazioni umanitarie a Gaza. E senza di esso, sistemi importanti come gli impianti di desalinizzazione, gli ospedali, la consegna di cibo e i camion, cesseranno tutti di esistere”.

Il Portavoce del Dipartimento di Stato Matt Miller ha confermato le affermazioni di Ingram, affermando in una conferenza stampa mercoledì pomeriggio che nessuna fornitura di carburante era entrata né dal valico di Rafah né da Karem Shalom, nonostante le sollecitazioni degli Stati Uniti. Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno detto a Israele che, prendendo il controllo del valico, ora hanno la responsabilità di aprirlo rapidamente. Anche se i camion degli aiuti ricominciassero ad entrare a Gaza, ha aggiunto, gli aiuti non potranno essere distribuiti senza carburante.

Israele non farà marcia indietro

L’inizio delle terribili condizioni è arrivato mentre le forze israeliane continuavano a bombardare Rafah e a spostare forze nei dintorni, conquistando strategicamente territori come il valico di frontiera e ammassando truppe in preparazione per un’invasione totale.

Negli ultimi sette mesi di attacchi incessanti contro la popolazione civile della Striscia, durante i quali sono stati uccisi più di 35.000 palestinesi, funzionari e portavoce israeliani hanno detto al mondo che Israele non ha intenzione di Occupare Gaza. La presa di Rafah ci ricorda con forza che questa era e rimane una bugia.

Anche senza i suoi carri armati posizionati al valico, Israele esercita l’autorità suprema su ciò che attraversa il territorio assediato; Israele ha già avviato ispezioni di sicurezza da parte egiziana, che hanno ritardato la consegna degli aiuti dallo scorso anno. La presenza di carri armati sul lato di Gaza serve solo a formalizzare pubblicamente questa realtà.

L’amministrazione Biden ha passato settimane a diffondere nei media la narrazione secondo cui Rafah rappresenta una linea rossa per l’amministrazione. Eppure, quando il Presidente Joe Biden ha parlato con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu prima dell’Operazione, un alto funzionario israeliano ha detto: “Biden non ha obiettato durante la presa del valico di Rafah”.

La Casa Bianca ha espresso alcune lievi preoccupazioni circa la presa del confine una volta arrivati ​​i carri armati, ma il Portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’Ammiraglio John Kirby, ha difeso la mossa israeliana, dicendo che l’amministrazione ha ricevuto assicurazioni dagli israeliani che non sarebbe stata “una grande operazione di terra”.

Mentre gli Stati Uniti hanno simbolicamente ritardato una spedizione di armi, i funzionari americani hanno chiarito che intendono continuare ad armare Israele. Israele ha minimizzato l’importanza del ritardo nella consegna delle armi e ha affermato che gli storici alleati stanno risolvendo la questione a porte chiuse.

Alcune delle tensioni celate sono emerse pubblicamente questa settimana, quando il funzionario del Likud Tali Gottlieb, membro della Knesset (Parlamento), si è scagliato contro gli Stati Uniti, minacciando un’intensificazione dei Crimini di Guerra in risposta al ritardo delle armi. “Gli Stati Uniti minacciano di non fornirci missili precisi. È così?” disse. “Bene, ho notizie per gli Stati Uniti. Abbiamo missili imprecisi. Li useremo. Faremo crollare solo una decina di edifici. Dieci edifici. Questo è quello che faremo”.

Interpellato sulla minaccia di Gottlieb, il Portavoce del Dipartimento di Stato ha denunciato: “Questi commenti sono assolutamente deplorevoli e i membri più anziani del governo israeliano dovrebbero astenersi dal farli”, ha detto Miller.

Mercoledì Biden è andato oltre, dicendo a Erin Burnett della CNN che se Israele invadesse Rafah, gli Stati Uniti taglierebbero le forniture di proiettili di artiglieria, bombe e altre armi offensive.

Il governo israeliano ha offerto una serie di giustificazioni per l’incursione di Rafah: sconfiggere quattro battaglioni di Hamas, chiudere le rotte del contrabbando, fare pressione su Hamas affinché firmi un accordo per il rilascio degli ostaggi israeliani. Le famiglie degli ostaggi israeliani, da parte loro, hanno organizzato grandi manifestazioni chiedendo a Netanyahu di firmare immediatamente un accordo per liberare i prigionieri.

Un simile accordo era sul tavolo quando Israele ha preso il valico di frontiera, ma i funzionari israeliani hanno raddoppiato la loro promessa di conquistare Rafah con o senza un accordo.

L’UNICEF stima che le persone a Rafah dispongano di circa 3 litri a testa di acqua potabile al giorno e debbano usarla per bere, cucinare, pulire e lavarsi. L’agenzia afferma che per le popolazioni in emergenza si raccomanda un minimo di 15 litri a persona al giorno. Attualmente è presente un bagno ogni 850 persone. La dissenteria è dilagante, le donne e le ragazze non hanno un accesso costante ai prodotti sanitari e i pannolini per i bambini scarseggiano.

“Le persone non possono aspettare ore per usare il bagno o non si sentono sicure nel farlo. E così devono ricorrere ad altri metodi, come la defecazione all’aperto”, ha detto Ingram, funzionaria dell’UNICEF. “Quando si cammina per Rafah, spesso si vede e si sente l’odore e ci si deve muovere tra le perdite di acque reflue perché i sistemi igienico-sanitari non funzionano correttamente e le persone non hanno altre opzioni”.

Se Israele espandesse le sue operazioni a Rafah, provocando un esodo di massa di persone, le aree verso cui sarebbero costretti a fuggire non avrebbero nemmeno le infrastrutture fragili e inadeguate.

“È difficile immaginare che una situazione già così grave possa peggiorare, ma può peggiorare per queste persone se sono costrette a evacuare in un’area non sicura, priva dei servizi di base di cui hanno bisogno per sopravvivere. E a Rafah mancano già entrambe queste cose”, ha detto Ingram.

“Quando parliamo di bambini vulnerabili che sono sopravvissuti a sette mesi di guerra e che portano le cicatrici di quella guerra, sia fisicamente che psicologicamente, la loro capacità di trasferirsi in questo tipo di aree e sopravvivere lì viene compromessa perché sono esausti e traumatizzati, e hanno bisogno di maggiore supporto, non di meno”.

Jeremy Scahill è corrispondente veterano e redattore generale presso The Intercept. È uno dei tre redattori fondatori. È un giornalista investigativo, corrispondente di guerra e autore dei best-seller internazionali “Guerre Sporche: Il Mondo è Un Campo di Battaglia” e “Blackwater: L’ascesa del Mercenario più Potente del Mondo”. È stato corrispondente dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Somalia, dallo Yemen, dalla Nigeria, dall’ex Jugoslavia e da altre parti del mondo. Scahill è stato corrispondente per la sicurezza nazionale per The Nation e Democracy Now!. Il lavoro di Scahill ha dato il via a diverse indagini del Congresso e ha vinto alcuni dei più alti riconoscimenti del giornalismo. Ha ricevuto due volte il prestigioso Premio George Polk, nel 1998 per i servizi giornalistici esteri e nel 2008 per “Blackwater”. Scahill è un produttore e scrittore del pluripremiato “Guerre Sporche”, che è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2013 ed è stato nominato all’Oscar.

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org