Il diritto inalienabile dei palestinesi a resistere

Abbiamo ricordato tutte le miserie, tutte le ingiustizie subite dalla nostra gente e le condizioni in cui viveva, la freddezza con cui l’opinione mondiale guarda alla nostra causa, e quindi abbiamo sentito che non avremmo permesso loro di schiacciarci. Difenderemo noi stessi e la nostra rivoluzione in ogni modo e con ogni mezzo. – George Habash (1926-2008)

Un combattente per la libertà impara a proprie spese che è l’oppressore che definisce la natura della lotta, e spesso all’oppresso non viene lasciata altra risorsa che usare metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore. – Nelson Mandela (1918-2013)

Fonte: english version

Di Louis Allday – 22 giugno 2021

Nel dicembre 1982, in seguito alla devastante invasione israeliana del Libano sei mesi prima, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite  approvò la risoluzione A/RES/37/43 relativa “all’importanza della realizzazione universale del diritto dei popoli all’autodeterminazione”. Approvò, senza riserve, “il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione, indipendenza nazionale, integrità territoriale, unità nazionale e sovranità senza interferenze esterne”, e riaffermò la legittimità della sua lotta per quei diritti “con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”. Condannò inoltre fermamente le “attività espansionistiche in Medio Oriente” di Israele e il “continuo bombardamento di civili palestinesi”, entrambi considerati “un serio ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese”. Nei quattro decenni successivi, la violenza di Israele contro il popolo palestinese e la colonizzazione della sua terra non cessò. Fino a oggi, in tutta la Palestina storica, dalla Striscia di Gaza a Sheikh Jarrah, i palestinesi sono ancora sotto la stessa occupazione, soggetti a un controllo soffocante praticamente su ogni aspetto della loro vita, e alla violenza sadica e irresponsabile dello Stato sionista.

Oltre alla sua approvazione da parte delle Nazioni Unite, il diritto dei palestinesi di resistere alla loro occupazione è garantito anche dal diritto internazionale. La Quarta Convenzione di Ginevra richiede che una potenza occupante protegga lo “status quo, i diritti umani e le prospettive di autodeterminazione” delle popolazioni occupate, e come ha spiegato Richard Falk, un esperto di diritto internazionale che in seguito è stato nominato Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, il rifiuto “dichiarato, sfacciato e palese” di Israele di accettare questo quadro di obblighi giuridici costituisce una negazione fondamentale del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e genera il loro diritto di resistenza legalmente protetto. L’occupazione israeliana del territorio palestinese e il suo flagrante disprezzo per il diritto internazionale attraverso la costruzione di insediamenti illegali e altre violazioni quotidiane sono continuate senza sosta da quando la valutazione di Falk è stata presentata, durante l’Intifada di al-Aqsa. Infatti, da allora l’occupazione si è ulteriormente rafforzata anche con la complicità della corrotta Autorità Palestinese.

Inoltre, indipendentemente da quanto stabilito dal diritto internazionale, i palestinesi hanno il diritto morale fondamentale di resistere alla loro colonizzazione e oppressione in corso attraverso la resistenza armata, e tale diritto deve essere riconosciuto e sostenuto. La sofferenza multigenerazionale dei palestinesi, forse nessuno più di quelli che vivono nella striscia di Gaza assediata e bombardata, è incessantemente crudele e ha una causa centrale: Israele e la perenne belligeranza, espansionismo e razzismo che è inerente alla sua ideologia di Stato, il sionismo. Inoltre, contrariamente alla narrativa dei media occidentali che, senza dubbio, ritrae Israele come attuatore di “rappresaglie”, sono le azioni dei palestinesi che sono fondamentalmente di natura reattiva, perché la violenza che Israele infligge loro è sia perpetua che strutturale, e quindi precede automaticamente ogni resistenza ad essa. “Con l’instaurazione di un rapporto di oppressione, la violenza è già iniziata”, ha detto Paolo Freire; “mai nella storia la violenza è stata intrapresa dagli oppressi”. In Palestina, come ha scritto di recente Ali Abunimah, “la causa principale di ogni violenza politica è la colonizzazione sionista”.

Dato che il diritto legale e morale dei palestinesi di perseguire la resistenza armata è chiaro, l’approvazione di questa posizione dovrebbe essere incontrovertibile e comune tra i sostenitori della loro causa. Eppure, in Occidente, una tale posizione viene espressa raramente, anche da coloro che proclamano a gran voce la loro solidarietà con la Palestina. Al contrario, gli atti di resistenza armata palestinese, come il lancio di razzi da Gaza, sono condannati da questi presunti sostenitori come parte del problema, liquidati con condiscendenza come “futili” e “controproducenti”, o addirittura etichettati come “crimini di guerra e atrocità impensabili”,  che si dice siano paragonabili alle normali punizioni collettive, torture, incarcerazioni, bombardamenti e omicidi di palestinesi perpetrati da Israele. Questa forma di solidarietà, come ha sostenuto Bikrum Gill, si basa essenzialmente sulla reiscrizione dei palestinesi come esseri intrinsecamente non sovrani che possono essere riconosciuti solo come oggetti dipendenti privi di potere su cui agire, sia dalla violenza coloniale israeliana, sia dai protettori imperiali occidentali.

Agiarsi nella comodità e nella sicurezza dell’Occidente e condannare gli atti di resistenza armata che i palestinesi scelgono di compiere, sempre con grande rischio per le loro vite, è una posizione profondamente opportunista. Va detto chiaramente: non è compito di coloro che scelgono di essere solidali con i palestinesi a distanza per poi cercare di dettare come dovrebbero condurre la lotta anticoloniale che, come credeva Frantz Fanon, è necessaria per mantenere la loro umanità e dignità, e infine per raggiungere la loro liberazione. Coloro che non sono segregati da una brutale occupazione militare o in fuga dalla pulizia etnica non hanno il diritto di giudicare il modo in cui scelgono di affrontare i loro colonizzatori. Infatti, esprimere solidarietà alla causa palestinese è in definitiva privo di significato se tale sostegno si dissolve nel momento in cui i palestinesi resistono alla loro oppressione con qualcosa di più delle pietre e non possono più essere descritti come vittime coraggiose, fotogeniche, ma in definitiva impotenti. “Il mondo si aspetta che ci offriamo in sacrificio educatamente, volenterosi e senza opporci, per essere assassinati, senza sollevare una sola obiezione?”, ha chiesto retoricamente di recente Yahya al-Sinwar, leader di Hamas a Gaza. “Questo non è possibile. No, abbiamo deciso di difendere il nostro popolo con tutta la forza che ci è stata data”.

Questo fenomeno parla di ciò che Jones Manoel chiama il “culto per la sconfitta” della sinistra occidentale che la predispone a situazioni “di oppressione, sofferenza e martirio”, in contrasto con atti di resistenza e rivoluzione riusciti. Manoel continua:

Le persone restano estasiate guardando quelle immagini, che non credo siano straordinarie, di un bambino o un adolescente palestinese che usa una fionda per lanciare un sasso contro un carro armato. Guardate, questo è un chiaro esempio di eroismo ma è anche un simbolo di barbarie. Questo è un popolo che non ha la capacità di difendersi di fronte a una potenza coloniale imperialista armata fino ai denti. Non hanno eguali capacità di resistenza, ma questo non viene idealizzato.

Di conseguenza, ampie fasce della sinistra occidentale esprimono solidarietà alla causa palestinese in modo generalizzato e astratto, esagerando l’importanza del proprio ruolo e allo stesso tempo rifiutando gli stessi gruppi che attualmente combattono, e muoiono, per essa. Troppo spesso coloro che si sono rifiutati di arrendersi e hanno resistito fermamente a caro prezzo, sono condannati da persone che, allo stesso tempo, si dichiarano solidali con la causa. Allo stesso modo, è comune per queste stesse persone ignorare o demonizzare quelle forze esterne che aiutano materialmente la resistenza palestinese più di ogni altra, in particolare l’Iran. Se si riconosce questo sostegno, il che è raro, i gruppi palestinesi che la accettano sono tipicamente definiti sprovvisti di capacità critica, come semplici “imbecilli” o “pedine”, per essersi lasciati usare cinicamente dagli atti egoistici degli altri, un sentimento che contraddice direttamente le dichiarazioni dei leader palestinesi.

Una critica specifica nei confronti di Hamas, che viene spesso utilizzata in questo contesto, è la natura “indiscriminata” dei suoi lanci missilistici da Gaza, azioni che sia Human Rights Watch che Amnesty Intentional etichettano regolarmente come “crimini di guerra”.

Come osservato da Perugini e Gordon, la falsa equivalenza su cui si basa questa classificazione “dice essenzialmente che l’uso di missili fatti in casa, non c’è molto altro a disposizione delle persone che vivono sotto assedio permanente, è un crimine di guerra”.

In altre parole, i gruppi armati palestinesi vengono criminalizzati per la loro inferiorità tecnologica. Dopo l’ultimo ciclo di combattimenti nel maggio 2021, al-Sinwar ha affermato chiaramente che, a differenza di Israele, “che possiede un fornito arsenale di armi, attrezzature e aerei all’avanguardia” e “bombarda i nostri figli e le nostre donne, indiscriminatamente”, se Hamas avesse avuto “le capacità per lanciare missili di precisione per mirare a obiettivi militari, non avremmo usato i razzi che abbiamo usato. Siamo costretti a difendere la nostra gente con quello che abbiamo, e questo è quello di cui disponiamo”

Questo fallimento nel sostenere la legittima lotta armata fa parte di un problema più ampio con l’inquadratura utilizzata da molti sostenitori della causa palestinese in Occidente, che oscura la sua fondamentale natura e come deve essere risolta.

La Palestina non è semplicemente una questione di diritti umani, o anche solo una questione di apartheid, ma piuttosto una lotta anticoloniale per la liberazione nazionale condotta da una resistenza indigena contro le forze di una colonia di invasori sostenuta dall’imperialismo occidentale.

Decolonizzazione è una parola ormai usata frequentemente in Occidente in senso astratto o in relazione a programmi di studio, istituzioni e arte pubblica, ma raramente più in relazione a ciò che realmente conta di più: la terra. Ed è proprio questo il punto cruciale della questione: la terra di Palestina deve essere decolonizzata, i suoi colonizzatori sionisti deposti, le loro strutture e barriere razziste, sia fisiche che politiche, smantellate e tutti i rifugiati palestinesi devono avere il diritto al ritorno.

Va notato che, sottolineando l’importanza di sostenere il diritto dei palestinesi di condurre la lotta armata per perseguire la propria libertà non significa che i loro sostenitori in Occidente debbano incautamente invocare la violenza o esaltarla e celebrarla inutilmente. Né significa che gli sforzi non violenti come il Movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) siano irrilevanti o non importanti. Piuttosto, il BDS dovrebbe essere considerato parte integrante di un ampio spettro di attività di resistenza, di cui la lotta armata è una componente integrale.

Samah Idriss, membro fondatore della Campagna per il Boicottaggio dei Sostenitori di Israele in Libano, ha dichiarato:

“Ogni forma di resistenza, civile e armata, sono complementari e non dovrebbero essere viste come reciprocamente esclusive.”

Oppure, come ha sottolineato Khaled Barakat:

“Israele e i suoi alleati non hanno mai accettato alcuna forma di resistenza palestinese, e le campagne di boicottaggio e l’organizzazione popolare non sono alternative alla resistenza armata ma tattiche di lotta interdipendenti”.

L’analisi di Nelson Mandela è rilevante in questo contesto, quando scrisse che “la resistenza passiva non-violenta è efficace finché la tua opposizione aderisce alle tue stesse regole”, ma se la protesta pacifica viene accolta con violenza, la sua efficacia è alla fine”.

Per Mandela

“la non violenza non era un principio morale ma una strategia”, poiché “non c’è bontà morale nell’usare un’arma inefficace”.

Chiarendo la logica alla base della decisione dell’African National Congress di adottare la resistenza armata, Mandela ha spiegato che non aveva più alcuna via alternativa disponibile:

“Più e più volte, abbiamo usato tutte le armi non violente nel nostro arsenale, discorsi, deputazioni, minacce, marce, scioperi, allontanamenti, carcerazione volontaria, tutto invano, perché qualunque cosa facessimo è stata accolta con il pugno di ferro”.

Questo punto di vista si riflette nelle parole di al-Sinwar, che riferendosi alle proteste della Grande Marcia del Ritorno nel 2018-19, durante le quali i cecchini israeliani hanno ucciso centinaia di manifestanti di Gaza e ne hanno gravemente feriti altre migliaia, ha detto:

“Abbiamo provato la resistenza pacifica e la resistenza popolare”, ma piuttosto che agire per fermare i massacri di Israele, “il mondo è rimasto a guardare mentre la macchina da guerra sionista uccideva i nostri giovani”.

Il riferimento di Mandela all’efficacia è cruciale. Nonostante ciò che molti sostenitori occidentali sembrano voler insinuare, sebbene abbia un costo enorme, la resistenza armata palestinese a Gaza non è “inutile” ed è cresciuta enormemente in efficacia e capacità dissuasiva.

Ciò era già evidente dopo il fallimento di Israele nel vincere la guerra a Gaza del 2014 ed è stato sottolineato dal recente successo della resistenza nel maggio 2021, durante il quale ha lanciato un numero senza precedenti di missili che ora possono raggiungere la Palestina storica.

Nonostante il devastante bombardamento aereo di Gaza, Israele non è stato in grado di fermare il lancio di questi missili e, dopo le perdite subite nel 2014, è ora troppo timoroso di lanciare un’altra invasione di terra della striscia, soprattutto perché la resistenza è ora equipaggiata con un numero maggiore di missili Kornet precedentemente utilizzati con tale effetto letale contro i carri armati israeliani nel sud del Libano.

Il cessate il fuoco dichiarato il 21 maggio è stato ampiamente visto in Israele come una sconfitta ed è stato celebrato dai palestinesi in tutta la Palestina storica come una vittoria. L’equilibrio militare è cambiato, e sebbene Israele sia ancora molto più potente sotto ogni punto di vista convenzionale, la resistenza è in una posizione più forte ora di quanto non sia stata per anni. Ha costruito sui successi di Hezbollah contro Israele nel 2000 e nel 2006 e con il supporto, la formazione e l’ulteriore aiuto del gruppo libanese e di altri nell’Asse della Resistenza, ha portato le sue capacità a un livello superiore.

Questo cambiamento si riflette nel fatto che dal 2014 le vendite di armi israeliane sono stagnanti e le sue aggressioni contro Gaza non portano più a un aumento immediato del prezzo delle azioni delle sue compagnie di armi che usano Gaza come campo di prova e palcoscenico per le sue ultime tecnologie.

Shir Hever ha notato che dopo i fallimenti di Israele a Gaza a partire dal 2014, i clienti delle sue compagnie di armamenti hanno iniziato a chiedersi: “Qual è lo scopo di tutta questa tecnologia? Se non è possibile pacificare i palestinesi con questi missili, perché dovremmo comprarli?”

Oltre al suo impatto pratico, la lotta armata ha un significativo valore di propaganda. La realtà è che la Palestina non avrebbe dominato i titoli delle notizie di tutto il mondo nel maggio 2021 nel modo in cui lo ha fatto se non fosse stato per la resistenza armata a Gaza che, contrariamente all’attenzione singolare dei media occidentali su Hamas, è composta da un fronte unito di vari fazioni tra cui la Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il Fronte Popolare Marxista-Leninista per la Liberazione della Palestina (FPLP). Il FPLP è un esempio calzante a questo proposito, poiché furono le loro azioni durante la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, in particolare una serie di dirottamenti aerei (in cui i passeggeri furono rilasciati illesi), che infuse la causa palestinese nella coscienza di milioni di persone di persone per la prima volta e ha segnato un punto di svolta fondamentale nella sensibilizzazione sulla situazione dei palestinesi a livello globale. Infatti, lo scrittore e portavoce del FPLP palestinese, Ghassan Kanafani, credeva che la lotta armata fosse la “migliore forma di propaganda” e che, nonostante il “gigantesco sistema di propaganda degli Stati Uniti”, è attraverso persone che praticano la lotta armata per liberarsi che le cose alla fine  vengono decise.

Nel 1970, dopo che il regime giordano appoggiato dall’Occidente aveva bombardato i campi profughi palestinesi nel paese, il FPLP, sotto la guida del compagno (e reclutatore) di Kanafani George Habash, prese in ostaggio un gruppo di cittadini statunitensi, della Germania Ovest e della Gran Bretagna. (principali sostenitori di Israele) in due hotel ad Amman. In cambio del loro rilascio in sicurezza, il FPLP ha chiesto che “tutti i bombardamenti sui campi cessassero e che tutte le richieste del Movimento di Resistenza Palestinese fossero soddisfatte”. Poco prima che gli ostaggi fossero finalmente rilasciati, Habash si rivolse loro scusandosi e disse:

Sento che è mio dovere spiegarvi perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto. Naturalmente, da un punto di vista liberale, mi dispiace per quello che è successo e di avervi causato disagi negli ultimi 2 o 3 giorni. Ma a parte questo, spero che capirete, o almeno cercherete di capire, perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto.

Forse sarà difficile per voi capire il nostro punto di vista. Le persone che vivono circostanze diverse pensano su linee diverse. Non possono pensare allo stesso modo, e noi, il popolo palestinese, e le condizioni in cui viviamo da moltissimi anni, tutto questo ha modellato il nostro modo di pensare. Non possiamo farne a meno. Si può capire il nostro modo di pensare, quando si conosce un fatto molto semplice. Noi palestinesi negli ultimi 22 anni abbiamo vissuto in campi e tende. Siamo stati cacciati dal nostro paese, dalle nostre case e dalle nostre terre, cacciati come pecore e lasciati qui nei campi profughi in condizioni estremamente disumane.

Per 22 anni il nostro popolo ha atteso per ristabilire i propri diritti, ma non è successo nulla. Dopo 22 anni di ingiustizia, disumanità, vivendo in campi senza che nessuno si prendesse cura di noi, sentiamo di avere il pieno diritto di proteggere la nostra rivoluzione. Abbiamo tutto il diritto di proteggere la nostra rivoluzione.

Non ci svegliamo la mattina per bere una tazza di latte con Nescafè per poi passare mezz’ora davanti allo specchio pensando di volare in Svizzera o di passare un mese in quel paese o nell’altro. Viviamo tutti i giorni nei campi. Non possiamo essere calmi come voi. Non possiamo pensare come pensate voi. Abbiamo vissuto in questa condizione, non per un giorno, non per 2 giorni, non per 3 giorni. Non per una settimana, non per 2 settimane, non per 3 settimane. Non per un anno, non per 2 anni, ma per 22 anni. Se qualcuno di voi viene in questi campi e rimane per una o due settimane, ne sarà colpito.

Dovete scusare il mio inglese. Dal lato personale, lasciatemi dire, mi scuso con voi. Mi dispiace per i 3 o 4 giorni di disagio. Ma da un punto di vista rivoluzionario, sentiamo, e continueremo a sentire, di avere il pieno diritto di fare ciò che abbiamo fatto.

 

Le parole di Habash devono essere ascoltate con attenzione. L’urgenza che sottolinea il suo messaggio è ancora più attuale mezzo secolo dopo, perché i palestinesi, rifiutando costantemente il vittimismo passivo, hanno vissuto nelle condizioni miserabili che Habash descrive per 73 lunghi anni, non 22.

La rivoluzione, osservò una volta Mao Tse-tung, “non è una cena, né scrivere un saggio, o dipingere un quadro, o fare un ricamo; non può essere così raffinata, così piacevole e delicata”.

Lo stesso vale per la decolonizzazione, in cui, sebbene le lotte passate siano state multiformi, qualche modalità di  resistenza armata era quasi invariabilmente una componente integrante della lotta.

La Palestina non fa eccezione. Oltre all’approvazione del BDS e di altre campagne della società civile, il diritto inalienabile dei palestinesi di perseguire la lotta armata deve essere sostenuto da coloro che scelgono di essere solidali con loro e con la loro giusta causa.

 

Louis Allday è uno scrittore e storico impegnato nel Department of History, School of History, Religions & Philosophies nella SOAS University of London. È l’editore fondatore di Liberated Texts

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org