Mentre Israele compie 75 anni, ricordo cosa ho dovuto sacrificare per diventare una “buona israeliana”

Per essere accettata in Israele, ho dovuto negare la mia identità iraniana.

Fonte: English version

Di Orly Noy – 25 aprile 2023

Immagine di copertina: Una bandiera israeliana sventola a un posto di blocco al confine israeliano-egiziano il 10 febbraio 2011 in Israele. Foto di Uriel Sinai/Getty Images

Ricordo chiaramente la prima volta che mi trovai davanti alle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, fuori dalla Porta di Giaffa. A una bambina di 9 anni che solo una settimana prima era immigrata con i suoi genitori in Israele, sembrava che le immagini che avevo visto prima, su cartoline inviate da parenti in Israele alla nostra casa in Iran, avessero improvvisamente preso vita. Ero dentro una fiaba. Potevo quasi vedere aureole luminose sopra le teste dei soldati e degli agenti di polizia.

Chi avrebbe potuto immaginare allora che tre decenni dopo avrei manifestato regolarmente contro la presenza degli stessi soldati e agenti di polizia, nello stesso posto. Che avrei protestato contro i privilegi che avevo ricevuto, come ebrea, anche prima di mettere piede in questa terra, diritti non concessi ai palestinesi che vivevano qui da generazioni. Che avrei protestato contro l’inganno colonialista di uno Stato “ebraico e democratico”, che lega insieme il destino dei palestinesi e dei Mizrahi.

Il mio primo giorno nella mia nuova scuola, ho dovuto cambiare il mio nome, Mozhgan, in qualcosa di ebraico. Questa era la “svolta” israeliana, il primo di molti modi in cui sarei stata costretta a liberarmi delle componenti della mia identità per diventare una “buona israeliana”, che, all’epoca, era la mia principale missione di vita.

Ci siamo stabiliti nel quartiere French Hill di Gerusalemme, un insediamento creato su un terreno annesso da Israele dopo il 1967, adiacente al quartiere palestinese di Isawiya. Nessun muro di cemento separava questi due quartieri, ma un abisso si ergeva comunque tra di loro. I bambini di Isawiya non facevano parte del mio mondo. Non credo nemmeno che sapessimo della loro esistenza, e di certo non sapevamo nulla del loro terribile tenore di vita, dell’affollamento, della povertà o del regime che dominava ogni aspetto della loro vita.

Nonostante vivessi in una città con una popolazione mista, ebbi le mie prime conversazioni con i palestinesi solo quando ero studente all’Università Ebraica. Fu allora che apparvero le prime crepe nella narrativa sionista che i miei genitori adottarono quando arrivammo in Israele, una narrazione applicata retroattivamente al nostro tempo in Iran dopo la nostra immigrazione. Fu solo dopo il nostro arrivo in Israele che i miei genitori iniziarono a dire che erano sempre stati ardenti sionisti, che il loro piano era sempre stato quello di trasferirsi in Israele quando io e mio fratello avessimo finito la scuola, un piano di cui non avevamo mai sentito parlare durante la nostra infanzia. Non ho dubbi che se non fosse stato per la rivoluzione islamica del 1979, non se ne sarebbero mai andati.

È stato sempre all’Università che ho ascoltato per la prima volta la narrazione Mizrahi. Ho seguito un corso del professor Sami Shalom Chetrit, intitolato: “Politica Mizrahi in Israele”, che è diventato rapidamente una nuova lente attraverso la quale ho potuto improvvisamente vedere perché noi Mizrahi eravamo in fondo alla scala socioeconomica, esclusi dai più importanti circoli di influenza. Che non era una coincidenza, ma piuttosto una decisione politica.

All’Università, la mia esposizione sia alla lotta palestinese che alla lotta Mizrahi ha cambiato radicalmente il modo in cui comprendevo la realtà di Israele. Mi ha permesso di esprimere a parole che quello che avevo fino ad allora non era altro che un sentimento inarticolato: che c’è una contraddizione intrinseca tra l’identità israeliana e quella mediorientale, e che per essere accettata come un “vero” israeliano, avrei dovuto rinnegare la mia identità iraniana, vergognarmene. Nel corso del tempo ho imparato quanto questa sia un’esperienza formativa per la comunità Mizrahi.

L’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak una volta descrisse Israele come “una villa nella giungla”. Questa attenta espressione rivela molto sulla percezione di sé di Israele, sull’ostilità con cui guarda l’ampia distesa che lo circonda. Sul suo profondo rifiuto ad accettare la verità della sua collocazione geopolitica, anche dopo 75 anni.

Chi si affaccia alla finestra di questa villa e vede solo “la giungla” è destinato a vivere nel terrore. Chi guarda fuori con paura e disgusto prova paura e disgusto per la natura selvaggia e per i barbari che vivono “là fuori”. Questo coglie esattamente il modo in cui i sionisti israeliano guardano la gente del Medio Oriente, ebrei e arabi allo stesso modo. Quando le proprie esperienze formative sono di paura e disgusto, si costruiscono muri più alti possibili, sia fisici che mentali, intorno alla propria villa.

A noi, ebrei Mizrahi di Israele, era consentito l’ingresso nella villa perché possedevamo una chiave magica per le sue porte, vale a dire perché eravamo ebrei. Ma dal momento in cui siamo arrivati, quello stesso disprezzo, esplicito o implicito, ci ha ricordato costantemente che dovevamo dimostrare di essere degni di essere lì. Che non eravamo come quei “selvaggi della giungla”. Non riesco a contare il numero di volte in cui mi è stato chiesto se la casa in cui vivevamo a Teheran fosse fatta di argilla o se avessi mai visto un ascensore in Iran, domande che immaginavano Teheran come un villaggio impoverito. In realtà, la Teheran della fine degli anni ’70 era una città molto più movimentata e moderna di qualsiasi cosa Israele offrisse all’epoca. Questa era più che semplice ignoranza. Era una profonda arroganza.

Ai Mizrahi fu offerto un patto crudele: abbandonare ogni ricordo della nostra provenienza, negare la nostra lingua, memoria storica e cultura, e in cambio avremmo avuto l’opportunità di lottare per migliorare la nostra sorte nella villa, ma solo tra il seminterrato e la cucina. Il fatto che per 75 anni non abbiamo mai avuto un Primo Ministro Mizrahi, che i Mizrahi soffrano ancora oggi di sottorappresentanza nei centri di potere come la Corte Suprema, che popoliamo la periferia sociale e geografica, tutto questo non è una coincidenza. È il risultato di volute espressioni di gerarchia e di potere.

Nel corso degli anni, l’istitutivo israeliano, dai tempi del Mapai (il partito originario che oggi è diventato il Partito Laburista) fino ad oggi, ha fatto tutto il possibile per mettere Mizrahi e palestinesi l’uno contro l’altro, sia sistemando gli immigrati nelle case dei palestinesi che erano fuggiti dalla Nakba, o per farci litigare per le briciole in fondo alla scala socioeconomica, o incoraggiando l’odio dei Mizrahi verso gli arabi come un modo per dimostrare che non eravamo come loro. Ma in verità la nostra oppressione ha la stessa fonte: vale a dire, la visione sionista-orientalista del Medio Oriente e della sua gente. I palestinesi soffrono infinitamente di più di questa visione del mondo, ma i nostri interessi nel liberarci da questa oppressione coincidono.

Per questo sono attiva da anni in Balad, il partito nazional democratico palestinese e per questo traduco la letteratura persiana in ebraico: un atto di resistenza politica volto a combattere la cancellazione della nostra cultura madre mediorientale.

La vita in una villa immaginaria è pietosa, isolante e violenta. La profonda svolta di cui Israele ha bisogno non può avvenire all’interno delle sue mura. Piuttosto, dobbiamo prima abbattere i muri della villa ed erigere al loro posto un nuovo edificio fatto di pietre di provenienza locale, aperto a tutti, che poggi su fondamenta di uguaglianza, giustizia, cittadinanza e vera democrazia, e non sulla paura, la supremazia e l’isolamento.

Il nostro futuro dipende da questo, nel modo più letterale possibile. Dopo tanti anni di isolamento, l’ossigeno nella villa si sta esaurendo.

Orly Noy è una redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem (A Immagine di), il Centro d’Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati, e attivista del partito politico nazional democratico palestinese Balad. I suoi scritti hanno a che fare con i temi che hanno a che fare con la sua identità di Mizrahi (ebrea orientale), persona di sinistra, donna, migrante temporanea che vive come un’immigrata perenne, e il costante dialogo fra questi temi.

Traduzione di Beniamino Rocchewtto  – Invictapalestina.org