Il sistema carcerario israeliano non sconfiggerà la Resistenza palestinese

Dopo la morte di Khader Adnan, in un sistema carcerario coloniale che mira a spezzare il corpo, l’anima e la mente dei palestinesi, i prigionieri politici sono centrali nella lotta per la liberazione.

Fonte: English version

Di Samar Said – 17 maggio 2023
Mentre i palestinesi in Palestina e nella diaspora commemorano il 75° anno della loro Nakba del 1948, quando più di 750.000 palestinesi furono sottoposti a Pulizia Etnica, espropriati della loro Patria e resi profughi dalle forze sioniste, il sistema carcerario coloniale continua a controllare, spezzare e torturare corpi e anime palestinesi.

Walid Daqqa, uno dei prigionieri politici palestinesi incarcerato più a lungo, scrive in; In Searing of Consciousness: Or On Redefining Torture (Segnare la Coscienza: O Sulla Ridefinizione Della Tortura – 2010) che:

“Il corpo del prigioniero politico non è più il bersaglio. Ma ciò che viene preso di mira è la loro mente e la loro anima, quello che sta accadendo nelle prigioni israeliane non è solo la detenzione e l’isolamento dei prigionieri politici. Piuttosto, fa parte di un deliberato e ampio piano che mira a cambiare la coscienza nazionale palestinese”.

Daqqa, che rimane incarcerato nella prigione israeliana nonostante le sue gravi condizioni di salute a causa del cancro, sa perfettamente come è costruito il sistema carcerario per distruggere il prigioniero politico dall’interno.

La prigione non si limita a torturare il corpo, mira anche a spezzare l’anima, infondere la paura, reprimere il dissenso e annientare ogni speranza e visione di liberazione. In queste circostanze, Daqqa afferma che la lotta dei prigionieri politici è una questione politica, non umanitaria o basata sui diritti.

Il sistema carcerario, con tutti i suoi meccanismi di tortura, dovrebbe essere inteso come parte di un più ampio progetto coloniale di insediamento che i sionisti iniziarono all’inizio del 20° secolo, prima della Nakba, con l’obiettivo finale di sradicare la società palestinese.

Le forze coloniali, prima britanniche e poi israeliane, hanno assassinato e imprigionato generazioni di leader e rivoluzionari palestinesi per schiacciare la loro Resistenza collettiva, frammentare le reti politiche esistenti e demoralizzare le masse.

Ciò è meglio illustrato nella Grande Rivolta del 1936-1939, quando le masse palestinesi si mobilitarono contro le forze combinate dell’imperialismo britannico e del colonialismo sionista. Nonostante la loro militanza, le forze britanniche e sioniste hanno represso brutalmente questa lotta popolare, uccidendo, ferendo, imprigionando ed esiliando almeno il 10% della popolazione maschile nativa. Da quel momento in poi, il progetto coloniale sionista sapeva di aver bisogno di intensificare la sua guerra fisica e psicologica contro i nativi per sopravvivere.

L’intensificarsi della violenza coloniale di Israele si è vista nella sua immanità durante la Nakba. Tra il 1947 e il 1948, le forze sioniste distrussero deliberatamente 531 villaggi palestinesi, commisero più di 70 massacri ed espulsero circa un milione di uomini, donne e bambini.

Il regime carcerario israeliano in questo frangente storico è stato costruito sia fisicamente che legalmente per controllare la piccola popolazione palestinese rimasta all’interno dei suoi confini e per impedire alle centinaia di migliaia di palestinesi che erano stati espulsi di tornare nella loro Patria.

Dal 1967, Israele ha imprigionato circa un milione di palestinesi, tra cui donne, anziani e bambini. Non è un’esagerazione affermare che quasi tutte le famiglie palestinesi hanno sofferto a causa del sistema carcerario israeliano.

L’incarcerazione collettiva della società palestinese non riguarda la “sicurezza” come affermano le forze sioniste. È una deliberata pratica coloniale fondamentale per la continuazione del progetto sionista in Palestina con lo scopo di frammentare e distruggere la Resistenza, la psiche e lo spirito dei palestinesi.

Nel corso degli anni circa 237 palestinesi sono stati uccisi nelle prigioni sioniste a causa di torture, uccisioni intenzionali e negligenza medica (che molto probabilmente ucciderà Daqqa). Il più recente è l’assassinio del prigioniero politico Khader Adnan, lasciato morire nella sua cella dopo uno sciopero della fame durato 87 giorni.

Originario della città di Arrabeh, il quarantacinquenne era un resistente, un premuroso padre di nove figli, un amorevole marito per Randa e una figura ispiratrice per migliaia di palestinesi nella Palestina storica e oltre. Adnan si era laureato in matematica all’Università di Birzeit e faceva il panettiere.

Molti credono che Adnan, che Israele ha arrestato 12 volte nel corso della sua vita, abbia intrapreso sei scioperi della fame per protestare contro la detenzione amministrativa illegale di Israele, una pratica ereditata dal suo predecessore britannico che consente alle forze israeliane di imprigionare i palestinesi senza processo o accuse a tempo indeterminato. Altri credono che stesse protestando contro la tortura, l’isolamento, il divieto di visite familiari, le perquisizioni e altre politiche disumanizzanti a cui sono sottoposti i prigionieri palestinesi.

Ma tali spiegazioni oscurano il motivo centrale dietro la resistenza di Adnan e ciò che ha rappresentato per tutta la sua vita: la liberazione della Palestina e la libertà e l’unità del suo popolo. Adnan voleva che la Nakba finalmente finisse.

Adnan sapeva molto bene che il destino dei prigionieri politici palestinesi e dei palestinesi fuori era profondamente intrecciato. La sua resistenza in prigione mirava ad avere un impatto sulla realtà dei palestinesi, sia all’interno che all’esterno della prigione.

Il colonialismo israeliano ha posto i palestinesi in una grande prigione in cui i palestinesi vivono sotto diverse forme di violenza che dividono l’organismo collettivo palestinese e ne distruggono l’identità. La manifestazione più estrema di questa divisione si vede a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo con una popolazione di due milioni di esseri umani confinata in 365 chilometri quadrati.

Adnan capì che i palestinesi non potevano liberare la loro terra senza il coordinamento tra la Resistenza all’interno e all’esterno della prigione, sia nella Palestina storica che nella diaspora. Gli scioperi della fame sono stati utilizzati come catalizzatore per mobilitare manifestazioni all’esterno.

Adnan incarnava ciò che predicava e Israele lo ha ucciso per questo.

Come leader politico e rivoluzionario, Adnan influenzò profondamente i palestinesi di tutto il mondo che lo ricordano come una figura amorevole, virtuosa, istruita e incorruttibile. Fuori dal carcere, Adnan ha protestato, esortato le persone a difendere la condizione dei prigionieri politici e si è preso cura delle loro famiglie.

All’interno della prigione, ha organizzato i suoi compagni e condotto sei scioperi della fame. La morte di Adnan all’interno di una cella, nonostante i ripetuti appelli per il suo rilascio, non è stata una fatalità. Piuttosto, è una tattica collaudata usata dal regime israeliano per disumanizzare coloro che si rifiutano di arrendersi.

Nonostante il sostegno finanziario e militare internazionale alla violenza istituzionalizzata di Israele che permea tutti gli aspetti della vita dei palestinesi; la condanna di ogni atto di Resistenza palestinese (sempre spogliato della sua forza politica e rivoluzionaria); l’assassinio sistematico di leader, intellettuali, giornalisti e combattenti palestinesi; e la complicità dell’Autorità Palestinese e dei regimi arabi nella colonizzazione della Palestina, Israele non è riuscita a sedare la Resistenza palestinese e la coscienza nazionale.

Infatti, la sua crescente violenza coloniale nei confronti dei palestinesi rivela la fragilità del suo sistema.

I palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora continuano a combattere e resistere attraverso la scrittura, la lotta armata, le proteste e gli scioperi della fame. Tutti questi atti danno ai palestinesi coraggio e speranza: il coraggio per continuare a resistere e la speranza per un futuro di libertà.

La speranza si vede nel figlio di Khader Adnan, sollevato e portato a spalle dai palestinesi, che guida coraggiosamente la folla nelle proteste dopo l’assassinio del padre, e nelle parole penetranti di sua moglie Randa che ci esorta a continuare a lottare per la libertà, nonostante il suo profondo dolore e la sua tristezza.

Il coraggio ci viene trasmesso attraverso l’eredità e le parole di Khader Adnan: “Sarò sempre dalla parte dei prigionieri, accanto, dietro o davanti a loro. Dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania, ai Territori del ’48 e all’esilio, i palestinesi devono restare uniti”.

Samar Saeed è una specializzanda al Dipartimento di Storia all’Università di Georgetown.

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org