La tecnologia dell’Occupazione è diventata una delle principali esportazioni di Israele

Il mio obiettivo in The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World (Il Laboratorio Palestinese: Come Israele Esporta la Tecnologia dell’Occupazione nel Mondo) è mostrare come il conflitto israelo-palestinese sia stato esportato a livello globale. Gli strumenti e le tecnologie che Israele utilizza per reprimere i palestinesi sono venduti a oltre 130 nazioni in tutto il mondo. La tecnologia di repressione e sorveglianza, dai programmi spia agli strumenti di riconoscimento facciale, viene “testata in battaglia” in Palestina e poi venduta ai Paesi di tutto il mondo, molti dei quali vogliono opprimere i propri indesiderati, da giornalisti e operatori per i diritti umani a dissidenti e critici. Ho scritto questo libro sia come indagine che come monito per ricordare alle masse che l’Occupazione Israeliana non sta solo brutalizzando i palestinesi, ma trova anche la sua strada in innumerevoli altri Paesi.

Fonte: English version
Di Antony Loewenstein – 23 maggio 2023

Uccidere o ferire palestinesi dovrebbe essere facile come ordinare una pizza. Questa era la logica alla base di un’applicazione progettata dai militari israeliani nel 2020 che consentiva a un comandante sul campo di inviare dettagli su un obiettivo su di un dispositivo elettronico in dotazione alle truppe che avrebbero poi rapidamente neutralizzato quel palestinese. Il Colonnello responsabile del progetto, Oren Matzliach, ha dichiarato al sito web Israel Defense (Difesa Israeliana) che ordinare la neutralizzazione dell’obiettivo sarebbe “come ordinare un libro su Amazon o una pizza in una pizzeria usando il proprio smartphone”.

Questo tipo di disumanizzazione è il risultato inevitabile di un’Occupazione senza fine. È anche un bene di esportazione. Ciò che attrae un numero crescente di regimi a livello globale è imparare come Israele riesce a farla franca con il Politicidio. Questo termine è stato adattato a Israele/Palestina dal defunto studioso e professore di sociologia israeliano Baruch Kimmerling, il quale nel 2003 ha sostenuto che la politica interna ed estera di Israele è “in gran parte orientata verso un obiettivo principale: il Politicidio del popolo palestinese. Per Politicidio intendo un processo che ha come fine ultimo la dissoluzione dell’esistenza del popolo palestinese come legittima entità sociale, politica ed economica. Questo processo può anche, ma non necessariamente, includere la sua parziale o completa rimozione dal territorio noto come Terra di Israele”.

Un raro momento di onestà politica israeliana è arrivato nell’ottobre 2021 quando il parlamentare israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso e alleato del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha detto ai membri arabi della Knesset: “Siete qui solo per errore, perché il Primo Ministro fondatore David Ben-Gurion non ha finito il lavoro, non vi ha cacciato nel ’48”. Era un riconoscimento che nel 1948 ebbe luogo la Pulizia Etnica del popolo palestinese, anche se pronunciato da uno dei politici israeliani più razzisti e omofobi.

Non è un nuovo punto di vista; in realtà, è ideologia di Stato dal 1948. Documenti declassificati dagli Archivi di Stato israeliani nel 2021 hanno rivelato che l’atteggiamento nei confronti dei palestinesi non è cambiato molto dagli anni ’40. È stata la politica ufficiale, almeno tra alcune delle più alte élite militari e politiche della nazione, espellere con la forza gli arabi nei Paesi vicini per l’intero periodo dell’esistenza dello Stato. Reuven Aloni, vicedirettore generale dell’Amministrazione delle Terre d’Israele, disse durante un incontro del 1965 che l’obiettivo ideale era lo “scambio di popolazione”. Era ottimista che: “Verrà un giorno, tra altri dieci, quindici o vent’anni, in cui ci sarà una situazione propizia, con una guerra o qualcosa di simile a una guerra, in cui l’effettiva soluzione sarà quella di trasferire il arabi. Penso che dovremmo pensare a questo come obiettivo finale”.

Yehoshua Verbin, comandante del governo militare che governò i cittadini arabi tra il 1948 e il 1966, ammise che nel 1948 ci fu una Pulizia Etnica. “Abbiamo espulso circa mezzo milione di arabi, abbiamo bruciato case, abbiamo saccheggiato la loro terra, dal loro punto di vista, non l’abbiamo restituito, abbiamo preso la terra”, ha detto. La “soluzione” offerta, allora come oggi, era stranamente simile alla tesi di Kimmerling; o far scomparire gli arabi, e se ciò non fosse possibile di discriminarli nella speranza che possano emigrare per scelta alla ricerca di una vita migliore altrove. Kimmerling avrebbe potuto aggiungere che il Politicidio è diventato uno strumento esportabile in tutto il mondo per nazioni e funzionari che volevano emulare il “successo” israeliano.

Nel 2002, lo storico militare israeliano Martin van Creveld ha spiegato alla televisione australiana quello che vedeva come il dilemma affrontato dallo Stato Ebraico:

“Loro (i soldati israeliani) sono persone molto coraggiose, sono idealisti, vogliono servire il loro Paese e vogliono mettersi alla prova. Il problema è che non ci si può mettere alla prova contro qualcuno che è molto più debole. Sono in una situazione senza uscita. Se sei forte e combatti i deboli: se uccidi il tuo avversario sei un criminale, se ti lasci uccidere da lui, sei un idiota. Ecco dunque un dilemma che altri hanno sofferto prima di noi e per il quale, a mio avviso, non c’è via d’uscita. Ora l’esercito israeliano non è stato affatto il peggiore di tutti. Non ha fatto quello che per esempio hanno fatto gli americani in Vietnam: non ha usato il napalm, non ha ucciso milioni di persone. Quindi tutto è relativo, ma per definizione, per tornare a quanto ho detto prima, se sei forte e combatti i deboli, allora qualsiasi cosa tu faccia è criminale”.

Van Creveld non aveva torto di fatto, ma ha sottovalutato quanto sia diventata attraente l’ideologia del dominio dopo più di sette decenni di Occupazione. L’industria della sicurezza interna di Israele ha effettivamente monetizzato i suoi strumenti e la sua strategia, mostrando la sua tattica direttamente sul campo, che tenere palestinesi e israeliani distanti l’uno dall’altro, fintanto che questi ultimi hanno dominato i primi, sia stata la soluzione a breve e medio termine. I separatisti, sosteneva Kimmerling, volevano “l’opposto della Pulizia Etnica, ma con un risultato pratico e psicologico simile. È radicato in un misto di emozioni intrecciate: sfiducia, paura e odio per gli arabi, uniti al desiderio di rimuovere Israele da il suo contesto culturale”.

Il separatismo è l’ideologia in ascesa nel contesto israeliano. Il famoso storico israeliano Benny Morris ha detto a Reuters nel 2020 che far scomparire i palestinesi era una soluzione ideale per gli ebrei israeliani. “Gli israeliani si sono allontanati dai palestinesi”, ha detto. “Vogliono avere a che fare con loro il meno possibile, vogliono il minor numero possibile di loro in giro e la barriera di separazione tra Israele e la Cisgiordania facilita questa situazione”.

Morris ha attribuito ciò alla campagna palestinese di attentati suicidi durante la Seconda Intifada tra il 2000 e il 2005 in cui più di 3.100 palestinesi e 1.038 israeliani sono stati uccisi, 6.000 palestinesi arrestati e 4.100 case palestinesi distrutte.

Un altro modo di vedere la separazione era un’idea promossa dal colono della Cisgiordania Micah Goodman, che secondo quanto riferito era il consigliere del Primo Ministro israeliano Naftali Bennett quando ha assunto il potere nel 2021. La visione di Goodman era “ridurre il conflitto”. Ha spiegato alla Radio Pubblica Nazionale che: “La maggior parte degli israeliani sente che se rimaniamo in Cisgiordania, non abbiamo futuro, e se lasciamo la Cisgiordania, non abbiamo futuro. La maggior parte degli israeliani è intrappolata in questa insoluzione”. Per risolvere questo enigma, poiché è improbabile che il “conflitto” con i palestinesi si risolva presto, Goodman ha affermato che Israele potrebbe “iniziare a ridurlo progressivamente riducendo l’Occupazione senza ridurre la sicurezza, il che significa ridurre la presa che Israele esercita sui palestinesi senza aumentare il rischio che i palestinesi possano essere una minaccia per gli israeliani”. Ciò che questo significava in pratica era mantenere lo status quo.

L’esempio più efficace di separatismo è l’accerchiamento di Gaza, che intrappola più di 2 milioni di palestinesi dietro alte recinzioni, sotto costante sorveglianza dei droni, sporadici attacchi di artiglieria e confini in gran parte chiusi imposti da Israele ed Egitto. Quando Israele ha completato la barriera di cemento dotata di tecnologie all’avanguardia lunga sessantacinque chilometri lungo l’intero confine con Gaza alla fine del 2021, al costo di 1,11 miliardi di dollari (1 miliardo di euro), si è svolta una cerimonia nel Sud di Israele per celebrare l’evento. Haaretz ha descritto il muro come “un complesso sistema ingegneristico e tecnologico: l’unico del suo genere al mondo” che ha richiesto l’assistenza dell’Europa per la costruzione.

Nel 2002, tre anni prima che il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ritirasse novemila coloni ebrei da Gaza, lo storico israeliano Van Creveld ebbe una visione predittiva: “L’unica soluzione è costruire un muro tra noi e l’altra parte, così alto che persino il gli uccelli non possono sorvolarlo, in modo da evitare qualsiasi tipo di attrito per molto, molto tempo in futuro. Potremmo formalmente risolvere il problema, almeno a Gaza, in quarantotto ore, attivandoci e costruendo un muro adeguato. E poi, naturalmente, se qualcuno cerca di scavalcare il muro, lo uccidiamo”.

Gaza è ora il laboratorio perfetto per l’ingegneria israeliana nel dominio. È l’ultimo sogno etnonazionalista, tenere i palestinesi imprigionati a tempo indeterminato. La barriera intorno alla Striscia di Gaza è stata costruita per la prima volta nel 1994 e da allora ha subito una serie di ammodernamenti (sebbene sia stata distrutta dai palestinesi nel 2001). Oggi la sua popolazione è stata posta in un esperimento forzato di controllo dove vengono testate le ultime tecnologie e tecniche. Tuttavia, ciò che sta accadendo a Gaza sta accadendo sempre più a livello globale. L’architetto palestinese Yara Sharif ha affermato che “la palestinesizzazione delle città sta avvenendo in tutto il mondo. Sta avvenendo attraverso la distruzione e la cancellazione, ma anche con il drammatico cambiamento climatico”.

Il bombardamento israeliano di Gaza del novembre 2012, chiamato Operazione Pilastro di Difesa, è stata una guerra di sette giorni che ha ucciso 174 palestinesi e 6 israeliani e ne ha feriti altre migliaia. Sebbene il bilancio delle vittime in quell’operazione sia stato relativamente basso, l’Operazione Piombo Fuso nel 2008 e all’inizio del 2009 ha visto la morte di 1.400 abitanti di Gaza. Quel conflitto ha visto una rivoluzione nel modo in cui l’IDF ha ritratto la guerra attraverso le sue molteplici piattaforme di social media. Preoccupato che l’opinione pubblica in alcune nazioni occidentali si stesse rivoltando contro le azioni militari israeliane, il cosiddetto instawar (guerra in diretta) era un’impresa coordinata per twittare dal vivo operazioni militari e infografiche, prodotte per annunciare con orgoglio l’uccisione di membri di Hamas o l’arresto di “terroristi” palestinesi. “Queste produzioni a volte davano la sensazione di un film d’azione in stile hollywoodiano.

La strategia israeliana sui social media mirava a coinvolgere sia i sostenitori nazionali che quelli globali delle sue missioni militari. In tal modo, e chiedendo ai sostenitori di pubblicare i propri tweet di supporto, post di Facebook o immagini di Instagram, l’IDF ha creato una missione collettiva che altre nazioni potrebbero facilmente imitare suscitando fervore nazionalista in Rete. Durante l’Operazione Pilastro di Difesa, l’IDF ha incoraggiato i sostenitori di Israele a condividere con orgoglio quando i “terroristi” venivano uccisi, ricordando allo stesso tempo a un pubblico globale che lo Stato Ebraico era una vittima. Era una forma di coscrizione di massa alla causa attraverso l’armamento dei social media.

Questa era una guerra spettacolarizzata e l’IDF stava spendendo molto per realizzarla. Il bilancio per i media dell’IDF ha consentito ad almeno 2.000 ufficiali e soldati di progettare, elaborare e diffondere la propaganda israeliana ufficiale, e quasi tutte le piattaforme di social media sono state inondate di contenuti dell’IDF.

Oggi, la pagina Instagram dell’IDF presenta regolarmente messaggi pro-gay e filo-femministi accanto alla sua iconografia militarista intransigente. Il 1° ottobre 2021, l’IDF ha pubblicato sulle sue piattaforme di social media una foto del suo quartier generale avvolto da una luce rosa con questo messaggio: “Per coloro che stanno combattendo, per coloro che sono morti e per coloro che sono sopravvissuti, questo #BreastCancerAwarenessMonth (# MeseDellaPrevenzioneDelTumoreA lSeno) il quartier generale dell’IDF è illuminato di rosa”. L’attivista palestinese americano Yousef Munayyer ha risposto su Twitter: “Un numero imprecisato di donne a Gaza soffre di cancro al seno, e regolarmente gli viene negato un trattamento adeguato e cure salvavita tempestive perché questo esercito opera un brutale assedio contro oltre 2 milioni di anime”. Su Instagram, tuttavia, la maggior parte dei commenti sotto il post ha elogiato l’IDF.

Questo tipo di strategia di guerra dell’informazione dell’IDF è ora regolarmente copiata dalle forze armate statunitensi. La CIA ha lanciato una campagna sui social media, Humans of CIA (Risorse Umane della CIA), nel 2021 che mirava a reclutare tra le sue fila da comunità più diverse. Sembrava profondamente ispirato dall’approccio mediatico dell’IDF. Una delle campagne più discusse (e derise), visto il ruolo della CIA nella destabilizzazione e nel rovesciamento dei governi dalla Seconda Guerra Mondiale, è stato il video di un agente dei servizi segreti ispanico che dichiarava: “Sono un millennial* cisgender*, a cui è stato diagnosticato un disturbo d’ansia generalizzato. Sono intersezionale, ma la mia esistenza non è una casella da spuntare. Ho lottato con la Sindrome dell’impostore (il terrore persistente di essere smascherati), ma a 36 anni mi rifiuto di interiorizzare idee patriarcali fuorvianti su ciò che una donna può o dovrebbe essere. (*Millennial: I nati negli anni ’80 – *Cisgender/Cisessuale: persone la cui identità di genere corrisponde al genere e al sesso biologico alla nascita)

La strategia dei social media israeliani è un sofisticato tentativo di associare le operazioni dello Stato Ebraico con i valori occidentali, o almeno quelle politiche che sostengono una risposta militarizzata al terrorismo (o resistenza, a seconda della prospettiva), sperando di coinvolgere un pubblico globale. “I social media sono una zona di guerra per noi qui in Israele”, ha detto il Tenente Colonnello (in pensione) Avital Leibovich, creatore dell’Unità Social Media dell’IDF e direttore del Comitato Ebraico Americano in Israele, durante l’Operazione Margine di Protezione del 2014. È stata una battaglia di sette settimane tra Israele e Hamas che ha ucciso più di 2.250 palestinesi, molti dei quali civili, tra cui 500 bambini, e 70 israeliani, la maggior parte dei quali erano soldati.

L’obiettivo non dichiarato della strategia informativa dell’IDF è usare come arma il trauma ebraico al servizio della perpetuazione dell’Occupazione. Attraverso innumerevoli post e meme, l’IDF ritiene che evidenziare i sacrifici compiuti da Israele nelle sue infinite battaglie con i palestinesi sia una tattica vincente. In questa logica, i palestinesi non hanno il diritto di essere arrabbiati per la loro situazione e il loro trauma è inesistente. La Resistenza all’Occupazione è quindi resa illegittima. Questa ideologia della messaggistica fa appello ad altre nazioni, la maggior parte delle quali non può eguagliare Israele in velocità e raffinatezza, nelle proprie guerre con ribelli o oppositori interni. La tattica è sempre la stessa: una risposta negativa a un tweet o a un post di Facebook innescherà semplicemente più post e tweet, con l’obiettivo di inondare Internet con così tante discussioni che i post precedenti vengono rapidamente dimenticati.

Uno studio completo del 2021 sulla campagna sui social media dell’Operazione Margine di Protezione di Marisa Tramontano, sociologa dell’Istituto di Giustizia Penale John Jay, ha scoperto che l’IDF ha utilizzato una moltitudine di strumenti visivi e scritti per giustificare le sue azioni a Gaza e in Cisgiordania. “Israele si afferma, in parte attraverso i suoi proclami non mediati sui social media, come parte della coalizione egemonica islamofoba che posiziona Israele come il fronte più orientale della guerra globale al terrorismo degli Stati Uniti”, ha scritto Tramontano.

Foto: Un incendio infuria all’alba a Khan Yunis a seguito di un attacco aereo israeliano nel Sud della Striscia di Gaza, il 12 maggio 2021. (Foto di Youssef Massoud/AFP via Getty Images)

Alla nascita della rivoluzione digitale c’era la speranza che la possibilità di filmare e diffondere foto e video degli abusi israeliani in Palestina potesse aiutare la causa palestinese. Non c’è dubbio che la consapevolezza globale dell’Occupazione sia aumentata esponenzialmente, e che questo sia stato in parte aiutato dalla visione cruda e inedita dei palestinesi che interagiscono con i coloni o con l’esercito israeliano. Eppure c’è anche una grande quantità di prove che lo Stato israeliano si sia impossessato di queste immagini per negare la realtà di ciò che i palestinesi dicono di vivere. Gli israeliani affermano che i palestinesi mentono sulle loro circostanze nonostante quello che stiamo vedendo tutti. Essere in grado di vedere le atrocità israeliane contro i palestinesi non funziona con persone che non vedono i palestinesi come esseri umani, un gruppo razziale che merita punizione e morte. Poiché la popolazione israeliana si è estremizzata, il disagio morale è raro.

I guerrieri israeliani dei social media sanno che collegare la missione di Israele alle lotte post-11 settembre di Washington è vitale per suscitare simpatia e sostegno. “La cosiddetta minaccia del terrorismo palestinese costituisce una componente chiave delle narrazioni del trauma israeliano, una minaccia quotidiana sovrapposta al trauma multigenerazionale dell’esilio e del Genocidio”, ha affermato Tramontano:

Più concretamente, le azioni di Israele sono presentate come morali e legali, e l’attuale situazione dello Stato è spiegata alla luce del tragico passato di Israele. Le immagini dell’incendio di New York collegano quindi direttamente le operazioni militari israeliane alla risposta militare americana al “trauma” dell’11 settembre. Al contrario, Hamas è considerato un nemico barbaro e irrazionale senza pretese legittime di traumi, proprio come le narrazioni su al Qaeda, l’ISIS e simili.

L’IDF ha introdotto nuove armi e le ha fatte sfilare davanti a diversi media della difesa durante la guerra di Gaza del 2014. La tecnologia è stata illustrata, sebbene pubblicizzata sarebbe un termine più accurato, nei media israeliani e internazionali, e includeva bombe, proiettili di carri armati e il drone Elbit Hermes. Poche settimane dopo la fine della guerra, l’annuale conferenza sui sistemi senza pilota israeliani Israel Unmanned Systems, un evento rivolto a potenziali mercati in Asia, Europa e Nord e Sud America ospitato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Tel Aviv, ha presentato alcune delle armi utilizzate nel conflitto di Gaza, compreso il drone Elbit.

Il successivo esperimento israeliano è stato testato in tempo reale durante la Grande Marcia del Ritorno, la protesta intrapresa dagli abitanti di Gaza lungo la recinzione con Israele. A partire dal marzo 2018, ha guadagnato un’enorme attenzione globale quando i palestinesi hanno chiesto pacificamente la fine dell’assedio di Gaza e il diritto di tornare alle terre rubate da Israele. Tra marzo 2018 e dicembre 2019, 223 palestinesi sono stati uccisi, la maggior parte dei quali erano civili, e 8.000 sono stati colpiti da cecchini, alcuni con ferite disabilitanti. L’IDF ha twittato (ma poi cancellato) il 31 marzo: “Ieri abbiamo visto 30.000 persone; siamo arrivati ​​preparati ed equipaggiati. Niente è stato lasciato al caso; tutto era accurato e misurato, e sappiamo dove ha colpito ogni proiettile”.

Israele era così fiducioso nelle sue azioni, senza timore di intromissioni della Corte Penale Internazionale o di alcuna sanzione interna, che il Generale di Brigata (Riservista) Zvika Fogel ha rilasciato un’intervista alla radio israeliana nell’aprile 2018. Fogel era un ex Capo di Stato Maggiore del Comando Sud israeliano, che includeva Gaza. Dopo che i cecchini israeliani hanno causato la morte e il ferimento di migliaia di palestinesi, compresi bambini, il conduttore radiofonico Ron Nesiel intervistando Fogel ha chiesto se l’IDF dovrebbe “ripensare al suo uso dei cecchini”. Fogel ha risposto che l’uso dei cecchini era appropriato: “Nel caso un bambino o chiunque altro si avvicini alla recinzione per nascondere un ordigno esplosivo o controllare se ci sono punti ciechi o per aprire un varco in modo che qualcuno possa infiltrarsi nel territorio dello Stato di Israele per ucciderci”.

“Allora la sua punizione è la morte?” chiese Neiel.

“Si, la sua punizione è la morte”, ha sostenuto il Generale. “Per quanto mi riguarda, se è possibile sparargli ad una gamba o ad un braccio per fermarlo meglio. Ma se non c’è questa possibilità, sì, scelgo di versare il loro sangue invece del nostro”.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente, scrittore, regista e co-fondatore di Declassified Australia. Ha scritto per The Guardian, The New York Times, The New York Review of Books e molte altre testate giornalistiche. Il suo nuovo libro, The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World (Il Laboratorio Palestinese: Come Israele Esporta la Tecnologia dell’Occupazione nel Mondo), è stato appena pubblicato da Verso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org