Il primo giorno di libertà dei prigionieri palestinesi rilasciati.

Con l’annunciato prolungamento di due giorni della tregua, molte famiglie nutrono ancora la speranza di vedere liberati i propri cari, anche se l’attesa è insopportabile.

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OLJ / Alice Frossard – 27 novembre 2023

Immagine di copertina: Il prigioniero palestinese Khalil Zama’ bacia sua madre dopo essere stato rilasciato da una prigione israeliana in seguito all’accordo tra lo Stato ebraico e Hamas, 26 novembre 2023. Hazem Bader/AFP

Sabato sera, a casa Dwayyat, è stato servito il caffè, ordinati i pasticcini e la famiglia si è preparata ad accogliere Shrouq, prigioniera da otto anni. La polizia israeliana aveva vietato i festeggiamenti per tutti i palestinesi di Gerusalemme: festeggiamenti proibiti e limitati alle sole cerchie familiari ristrette, con i giornalisti che non potevano presenziare. Verso mezzanotte e mezza, la giovane palestinese di 26 anni è stata accolta come un’eroina. Urla di gioia, scene infinite di abbracci e lacrime, soprattutto quelle di sua madre, Samira. Due giorni dopo il suo rilascio, la casa della famiglia è ancora piena.

“Non riesco ancora a credere di essere qui, con la mia famiglia, seduta accanto a mia madre, con mio fratello e dopo aver potuto abbracciare mio padre, dice Shrouq Dwayyat, commossa. Mi sento come se stessi sognando.» Cosa ha fatto nel suo primo giorno di libertà? “È più come ‘cosa non ho fatto ‘”, ride. Ho visto tanta gente, ho conosciuto i miei cugini che non conoscevo, ho visto i miei amici…” La madre  la interrompe. “Ha pranzato con noi, cenato con noi. Tutte quelle azioni di vita quotidiana di cui siamo stati privati ​​in tutti questi anni. » A 59 anni, Samira guarda sua figlia con tenerezza e le tiene costantemente la mano, come per assicurarsi che sia davvero al suo fianco. Bacia la terra, ringrazia Dio per il suo ritorno. “Il giorno prima della liberazione è stato crudele, la giornata sembrava infinita”, sospira. Avevo davvero paura che con tutto questo ritardo nell’accordo, la nostra Shrouq non sarebbe tornata a casa. Davvero, quelle ore di attesa sono state quasi peggiori degli otto anni trascorsi senza di lei. E’ stato psicologicamente insostenibile.»

Le condizioni dei prigionieri

Sua figlia era stata condannata a sedici anni di prigione e ne ha già scontati otto. Nel 2015, mentre Shrouq Dwayyat stava camminando nella Città Vecchia di Gerusalemme, fu aggredita da un colono israeliano, che  cercò di toglierle l’hijab. Lei si era dibattuta, il colono aveva estratto una pistola e aveva sparato quattro volte e ferito gravemente la giovane 18enne. Fu accusata da Israele di aver tentato di pugnalare il colono.. Oggi Shrouq non vuole più parlare di questa storia, precisando di averla “già raccontata migliaia di volte”. Vuole raccontare la condizione delle donne in carcere, che dal 7 ottobre è gravemente peggiorata. “La nostra vita quotidiana è cambiata drasticamente. Le guardie entravano costantemente nelle nostre celle, ci picchiavano e ci lanciavano candelotti lacrimogeni. La repressione era al culmine da settimane, poi  sono arrivati questi nuovi ordini: ridurre il cibo, aumentare il numero di prigionieri per cella. Non avevamo più diritto alla radio, alla televisione, alle visite, eravamo tagliate fuori dal mondo e trattate come se non fossimo esseri umani. »Libera, pensa soprattutto a chi resta. “Soprattutto quelli che hanno avuto condanne lunghe. Sono usciti tutti quelli che erano sulla lista, tranne Shatella Abou Ayadeh, una cittadina palestinese di Israele condannata a 16 anni, come me. Quello che sta attraversando non è facile.»

Da venerdì, nella Cisgiordania occupata scene di giubilo, fuochi d’artificio e petardi accompagnano ogni sera, nei pressi del carcere di Ofer, all’uscita del villaggio di Beitunia, le liberazioni dei prigionieri, all’insegna dei colori di Hamas e al suono di slogan in favore di Mohammad Deif, il leader delle Brigate al-Qassam, braccio armato del partito. “Grazie Dio, grazie alla resistenza per averci permesso di essere liberi. Eravamo così isolati. Uscivamo solo per fare la doccia”, ha detto commossa Hanan Barghouti venerdì sera, davanti a un pubblico di telecamere. Questa detenuta di 59 anni si trovava in detenzione amministrativa, mentre quattro dei suoi figli sono ancora in prigione. “È sempre la stessa cosa: è una punizione collettiva”, sospira. Suo marito guarda la folla, stupito. “Per noi palestinesi, anche se questi rilasci sembrano insignificanti, si tratta di una causa nazionale”, insiste Mariam, residente a Ramallah. È nostra responsabilità essere qui per accoglierli. Ovviamente la nostra gioia resta limitata: c’è Gaza, ci sono tutti questi massacri.  I bambini uccisi non verranno mai rimpiazzati, così come non lo saranno queste case distrutte. E questi rilasci sono insignificanti rispetto al numero dei prigionieri. Ma ci danno speranza, perché questo è solo l’inizio, e un giorno tutti i prigionieri verranno liberati.»

Altri nomi in sospeso

Per altre famiglie di detenuti l’attesa infinita a volte si trasforma in tortura psicologica. A Gerusalemme, nel quartiere di Sheikh Jarrah, Jad Hammad sussulta ad ogni squillo del telefono: sua figlia Nofouz, 16 anni, la più giovane dei detenuti palestinesi, non è tornata a casa. Arrestata l’8 settembre 2021 mentre era a scuola, è stata condannata – due anni dopo – a 12 anni di carcere, accusata di aver tentato di uccidere un colono israeliano, cosa che suo padre nega categoricamente. “Mia figlia non ha fatto nulla di tutto ciò. La corte ha solo un video di qualcuno che corre. Conosci la situazione nel quartiere? Abbiamo sempre problemi con i coloni, sono armati e da anni si prendono le nostre case una ad una e vogliono cacciarci”, ha detto, indicando la casa di fronte, con la stella di David illuminata sulla facciata.

“Ho avuto tanta speranza quando ho visto il suo nome sulla prima lista, ancora di più quando sabato mattina ho ricevuto una telefonata per dirmi che mia figlia sarebbe stata rilasciata e che sarei stato convocato al Moscobiyeh (il centro di detenzione centrale per i palestinesi di Gerusalemme, dove i prigionieri vengono trasferiti prima di essere rilasciati, ndr). » Lì gli hanno chiesto la carta d’identità e il cellulare e lo hanno fatto aspettare tutto il giorno, insieme agli altri parenti dei detenuti che avrebbero dovuto essere rilasciati quello stesso giorno. “Verso mezzanotte gli israeliani mi hanno restituito i documenti e mi hanno lasciato andare. Senza dirmi niente di mia figlia. Ero scioccato, ansioso, spaventato e non riuscivo a dormire. Da allora passo il tempo guardando la televisione, leggendo ogni articolo, chiamando gli avvocati per sapere dove potrebbe essere e cosa potrebbe succedere.»

Dopo aver descritto l’interminabile giornata di attesa, questo padre di 47 anni si zittisce. “Mi sono appena ricordato che la sera abbiamo visto un’ambulanza a Moscobiyeh “, dice. Jad Hammad allora prende il telefono, chiama immediatamente l’ospedale e dà il numero di identità di sua figlia. “Vedi dove stiamo andando? Sono un padre. Non riesco nemmeno a spiegare come mi sento. Voglio solo tenerla tra le mie braccia.» La sua voce trema, gli vengono le lacrime agli occhi, si scusa ed esce dalla stanza. Sua sorella, la zia di Nofouz, prende un fazzoletto, anche lei è sul punto di piangere. “Se almeno sapessimo dove si trova, saremmo rassicurati. Sai, in questi momenti il ​​tuo cervello immagina tutti gli scenari, soprattutto i peggiori. Forse l’hanno picchiata, forse è stata violentata, forse è stata rimessa in prigione… È orribile e non lo augurerei a nessuno» Questo lunedì la famiglia Hammad aspetta solo una cosa: vedere il nome di Nofouz nell’elenco dei rilasciati.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org