La psicologia del Genocidio israeliano a Gaza

Può Israele reinfondere la paura nell’animo del popolo palestinese? E perché tale paura è un prerequisito per la sopravvivenza di Israele?

Fonte: English version

Di Ramzy Baroud – 6 febbraio 2024

Immagine di copertina: Il fumo si alza sugli edifici in lontananza a Khan Younis, in seguito al bombardamento israeliano del 5 febbraio 2024 (File/AFP)

Sembrava strano, se non fuori contesto, quando il politico israeliano Moshe Feiglin ha affermato in un’intervista televisiva: “I musulmani non hanno più paura di noi”. Feiglin ha fatto questo commento il 25 ottobre, meno di tre settimane dopo l’Operazione palestinese Onda di Al-Aqsa e l’inizio della Guerra Genocida israeliana che seguì.

L’ex membro della Knesset (Parlamento), che nel 2012 sfidò il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu per la dirigenza del Partito Likud, ha proposto nella stessa intervista che, per reinfondere la paura dei musulmani, l’esercito israeliano avrebbe dovuto “ridurre Gaza in cenere immediatamente”.

Feiglin percepisce Gaza come qualcosa di molto più grande dei 365 chilometri quadrati di terra che ricopre. Capisce, giustamente, che la guerra non riguarda solo la potenza di fuoco ma anche le percezioni, e non solo quelle degli abitanti di Gaza, dei palestinesi e degli arabi, ma anche di tutti i musulmani.

Gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce Israele come uno Stato essenzialmente debole e vulnerabile, trasmettendo così agli arabi e ai musulmani, e, di fatto, al resto del mondo, l’idea che la potenza percepita dell'”esercito invincibile” di Israele non è altro che un’illusione.

Attualmente, il problema della percezione è la sfida più grande per Israele. Feiglin ha espresso questa dicotomia nel suo solito linguaggio estremista e di estrema destra, ma anche il più “liberale” dei leader israeliani condivide la sua ansia.

Quando il Presidente israeliano Isaac Herzog, ad esempio, ha dichiarato il 16 ottobre che non ci sono civili innocenti a Gaza, non stava solo preparando la sua società e gli alleati americani e occidentali di Israele per uno dei più grandi atti di vendetta militare mai visti nella storia, voleva anche instaurare la paura nei cuori dei presunti nemici di Israele.

In una dichiarazione più recente, la settimana scorsa, l’ex direttore dello Shin Bet Carmi Gillon ha affermato che i palestinesi non saranno in grado di effettuare un altro attacco simile a quello del 7 ottobre. I commenti di Gillon potrebbero facilmente essere scambiati per una valutazione militare razionale. Ma questo non in questo caso, semplicemente perché Israele ha fallito miseramente nel prevenire l’Operazione Onda di Al-Aqsa.

Gillon parlava di psicologia. Nella sua mente, la guerra a Gaza è sempre stata una guerra di vendetta; una guerra che mirava a estrarre dal pensiero collettivo dei palestinesi l’idea stessa di opporsi a Israele.

Per comprendere la relazione tra l’esistenza di Israele e il potere, o la percezione del potere, del suo esercito, è necessario esaminare il primo linguaggio politico del sionismo, l’ideologia fondante di Israele.

Il Partito Likud di Netanyahu è l’erede diretto dell’ideologia di destra, in realtà fascista, che è stata ampiamente articolata dal primo pensatore sionista Vladimir Jabotinsky. Sebbene la visione politica di Jabotinsky fosse profondamente nazionalistica, le sue idee alla fine si ramificarono, o almeno ispirarono, la scuola ideologica del sionismo religioso. A differenza dei sionisti più liberali di quell’epoca, Jabotinsky fu diretto riguardo alle intenzioni e agli obiettivi finali del sionismo in Palestina.

“Non può esserci alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi. Né ora, né in futuro”, scrisse in: “Il Muro di Ferro”, nel 1923, aggiungendo: “Se si desidera colonizzare una terra già popolata, si deve avere un esercito”.

Per Jabotinsky tutto si riduceva a questa massima: “Il sionismo è un’impresa colonizzatrice e quindi resiste o cade attraverso la questione della forza armata”. Da allora, Israele ha continuato a investire nella costruzione di “muri di ferro”, reali o immaginari.

Il muro di ferro di Jabotinsky era simbolico. La sua era una fortezza impenetrabile di potere militare, cementata attraverso la violenza e l’implacabile sottomissione della popolazione nativa, finalizzata alla sua espulsione.

Il fatto che i ministri israeliani e altri politici di spicco abbiano iniziato ad avanzare piani per la Pulizia Etnica di Gaza subito dopo il 7 ottobre indica che il sionismo non ha mai abbandonato quel progetto iniziale. Infatti, il progetto genocida in Israele è più vecchio dello Stato stesso.

Ma se Jabotinsky fosse ancora vivo, si vergognerebbe dei suoi discendenti. Hanno permesso che i loro interessi personali prevalessero sulla loro vigilanza nel tenere i palestinesi ingabbiati, confinati da un muro di ferro in continua espansione. Invece, il muro è stato sfondato, fisicamente, il 7 ottobre e psicologicamente da allora. Mentre il danno fisico può essere facilmente riparato, il danno psicologico è difficile da risolvere.

Il Genocidio in corso a Gaza è un disperato tentativo di Israele di aumentare i costi della Resistenza Palestinese, in modo che possa alla fine giungere alla conclusione che resistere è, effettivamente, inutile. È improbabile che funzioni.

Ma può Israele reinfondere la paura nell’animo del popolo palestinese? E perché tale paura è un prerequisito per la sopravvivenza di Israele?

“La pace sarà raggiunta solo quando la speranza degli arabi di stabilire uno Stato Arabo sulle rovine dello Stato Ebraico sarà infranta”, ha scritto la settimana scorsa sui social media il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich. Anche se gli “arabi” non chiedono la distruzione di nessuno, Smotrich ritiene che l’idea stessa di uno Stato Palestinese porterà automaticamente alla distruzione della fantasia sionista di purezza razziale.

Si noti come il politico israeliano non abbia parlato della questione politica arabo, ma piuttosto della “speranza” araba. È un modo diverso di dire che il problema è la percezione collettiva dei palestinesi e degli arabi secondo cui la giustizia in Palestina è possibile.

Ancora una volta, questa nozione non ha nulla a che fare con il 7 ottobre. Infatti, tre mesi prima della guerra, Netanyahu fu ancora più schietto nel descrivere la stessa idea quando affermò che le speranze palestinesi di creare uno Stato sovrano “devono essere dissuase”. Ciò è stato ora messo in atto a Gaza e in Cisgiordania.

Questa volta, Israele sta adottando una versione ancora più estrema della strategia del Muro di Ferro di Jabotinsky perché la sua classe dirigente crede veramente che, nelle parole di Netanyahu: “Il Paese è nel mezzo di una lotta per la sua esistenza”. Con “esistenza”, Netanyahu si riferisce alla capacità di Israele di mantenere il suo status razzista, suprematista, di espansione coloniale e di monopolio sulla violenza. Israele rivendica questa deterrenza. Molti Paesi ed esperti legali di tutto il mondo lo chiamano Genocidio.

In verità, anche questo Genocidio difficilmente cambierà la nuova percezione secondo cui i palestinesi hanno il tipo di resilienza che permetterà loro non solo di reagire, ma alla fine di vincere.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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