Sul lutto

Lo stesso mondo che perpetra il Genocidio chiede ai palestinesi di dimostrare che i loro figli sono davvero fatti a pezzi sotto i bombardamenti, e non terroristi in un tunnel. In mezzo a tutte queste prove, non c’è tempo per piangere.

Fonte: English version

Di Zubayr Alikhan – 12 febbraio 2024

Immagine di copertina: Una donna palestinese piange mentre tiene in braccio il corpo di un bambino ucciso dagli attacchi aerei israeliani a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza. (ABED RAHIM KHATIB/DPA VIA ZUMA PRESS APAIMAGES)

Mentre scrivo, la colonia sionista sta bombardando a tappeto Rafah. Stanno bombardando tende, case e moschee: 1,4 milioni di palestinesi sfollati senza nessun posto dove andare. Finora sono stati assassinati oltre 60 palestinesi (cercate di capire cosa significa per noi dover dire “finora”), per lo più bambini. Le madri tremano e si contraggono, tenendo tra le braccia i loro figli senza vita. “Oh madre mia, oh mio pensiero, mio ​​cuore”, urla una donna vestita di nero, completamente coperta, con hijab e niqab mentre piange sul corpo di suo figlio. Sì, suo figlio. Sua madre”. Il suo nome è Mahmoud. Questa madre, come la maggior parte dei genitori palestinesi, chiama suo figlio “madre” con un amore travolgente. È un’espressione affettuosa senza equivalenti, e dopo 128 giorni di Genocidio, questo abisso nel linguaggio non è senza ragione: la dice lunga.

Le madri palestinesi amano così tanto i loro figli che è come se i loro ruoli fossero invertiti: nella cultura islamica e araba, nessuno è più amato di una madre. Quindi, quando le madri palestinesi chiamano i loro figli “madre”, significa che il loro amore non ha eguali. Sacrificherebbero tutto per loro. Con una parola, la madre palestinese in lutto si rivolge a suo figlio e dice: “Tu sei mia madre. Senza di te, io smetto di esistere”.

Qui, probabilmente ci si aspetta che io faccia un punto, costruisca un argomento o tragga significato da queste scene di sofferenza. Devo scrutare le lacrime di una madre come se fossero una sfera di cristallo, leggere i suoi palmi scarni, rimettere insieme i resti sparsi di suo figlio, per illuminarvi, liberare la vostra mente, alleviare i vostri fardelli, aprire i vostri occhi e scuotervi. Il mondo chiede a un padre di mettere da parte l’anima della sua anima e di parlare. Chiedere a una madre in preda allo strazio di fermarsi un momento e condurre un’intervista: “Qual è il vostro messaggio al mondo?” Tra bombe, interviste, funerali e Genocidio, non c’è tempo per piangere.

Quei palestinesi all’estero, in esilio, nella diaspora, sono soggetti alle stesse sofferenze. Incapaci di contattare le loro famiglie, insicuri del loro destino, internamente paralizzati e angosciati, sono più preoccupati degli altri. Recentemente ho parlato con un amico che ha famiglia a Gaza e gli ho chiesto come stanno le cose. “Non posso contattarli”, ha detto. “Trascorro ogni giorno e ogni notte aspettando un segno. Se ricevo un messaggio significa che stanno bene. Altrimenti non so se sono vivi”. Tuttavia, deve andare al lavoro ogni giorno, sorridere ai clienti e fingere che tutto vada bene. Indossa una collana in argento con la forma della Palestina per sensibilizzare l’opinione pubblica. Di fronte a un mondo impegnato a guardare finale del campionato di Football  e a bere latte ghiacciato, non ignaro ma apatico, inumano e negazionista, soffermandosi solo a maledire e condannare, c’è così tanto da fare.

Lo stesso mondo che perpetra il Genocidio chiede ai palestinesi di dimostrare che i loro figli sono davvero fatti a pezzi sotto i bombardamenti, e non terroristi in un tunnel. Infila le dita nelle gole dei palestinesi per vedere se vomitano cibo per animali, sangue o proiettili. Profana cimiteri, ruba organi e chiede una certificazione di morte. Purifica le terre palestinesi, saccheggia i manufatti, rade al suolo i villaggi, sradica gli ulivi e nega l’esistenza dei nativi. Vive nelle case palestinesi, si adagia sui mobili palestinesi, e chiede prove della presenza palestinese, prove del loro scempio. Nelle parole di Ghassan Kanafani: “Ti rubano il pane. Poi ti danno una briciola, e ti chiedono di ringraziarli per la loro generosità. Oh la loro sfacciataggine!” In mezzo a tutte queste prove, non c’è tempo per piangere.

Video e immagini di palestinesi che tengono i corpi pallidi dei bambini davanti alle telecamere sono diventati la normalità. La prima volta abbiamo pianto, la volta successiva abbiamo versato una sola lacrima, poi abbiamo stretto gli occhi. Ora, i nostri occhi sono lucidi mentre scorriamo, verso cose più insolite. Non consideriamo, nemmeno per un momento, cosa significhi per un genitore mostrare i corpi dei propri figli alle telecamere, sui vostri schermi. Non abbiamo mai considerato che potrebbero odiarsi per questo, e odiarvi ancor di più per averli disumanizzati a tal punto, da non volere più vedere una telecamera, ma sentirsi disperati e abbandonati, senza scelta. Quando una madre tiene in braccio la sua neonata assassinato e grida: “Qual era il peccato di questa bambina? È questa la vostra lista di obiettivi?” è stata costretta a impegnarsi e combattere la loro narrativa, per dimostrare la sua innocenza e la criminalità del suo assassino, anche con il sangue di sua figlia. Con sua figlia condannata alla nascita e uccisa pochi istanti dopo, non le è concesso tempo per piangere.

Costretti a impegnarci nella difesa dei diritti, siamo violentemente desensibilizzati. Pertanto, pochi giorni dopo che le loro famiglie sono state massacrate, i palestinesi vengono attentamente vagliati, selezionati, portati sui notiziari e obbligati a condannare, a condannare se stessi, ovviamente. L’assassinio di famiglie palestinesi viene ignorato per chiedere: “Ma lei condanna Hamas?”, o: “Cosa ci facevate lì? Perché non avete evacuato? Quella parola, Genocidio, è molto forte. Avete avuto la possibilità di parlare. Israele dice che sta prendendo di mira solo Hamas”. E così siamo costretti a presentare statistiche, come se farle, ridurre le persone a numeri, non fosse abbastanza crudele.

Peggio ancora, siamo costretti a usare queste anime numerate, le nostre famiglie sepolte da qualche parte al loro interno, come citazioni in frasi progettate per dimostrare un punto: “100 morti, 1000 uccisi, 35.000 uccisi, non si vede che è un Genocidio?” Sui social media, ogni notizia, il bilancio aggiornato delle vittime e le immagini fanno da sfondo a una didascalia. I martiri diventano prove nei proclami, il loro numero contestato il valore delle loro vite sminuito, a migliaia di chilometri di distanza.

Ogni 7 minuti a Gaza viene ucciso un bambino. Ma questi bambini non sono una statistica per vincere una discussione. Nei nostri mondi di difesa, dibattito e appello, abbiamo perso il contatto con le realtà sul campo. Rimaniamo impegnati nella teoria, contestando narrazioni e terminologie, assecondando e lasciandoci assecondare, mentre le terre palestinesi vengono rubate, le città rase al suolo e le famiglie massacrate.

Dobbiamo arrivare a renderci conto che noi, agiati nelle comodità delle nostre case e protestando sulle strade asfaltate, siamo irrilevanti. Le nostre parole, le menti che cambiamo e i cuori che conquistiamo, non fermano la caduta delle bombe né liberano le terre. Il nostro lavoro è potente quanto la nostra empatia: deve essere onnicomprensivo. Dobbiamo guardare alla Palestina e vedere le nostre, non le “loro”, madri, padri, figlie e figli. Dobbiamo diventare tutti palestinesi e agire di conseguenza. La Palestina, la sua terra e il suo popolo sono supremi, il nostro ruolo è semplicemente quello di amplificarli e rappresentarli in modo autentico, imperturbabili e imperterriti.

Mentre leggete questo scritto, un bambino palestinese è stato assassinato a Gaza. Quel bambino deve essere pianto, come se fosse vostra madre.

Zubayr Alikhan è uno scrittore e attivista il cui obiettivo principale è la liberazione e la decolonizzazione delle popolazioni native nel mondo. Scrive su questioni che mettono in risalto il terrorismo coloniale dei coloni e sostengono la Resistenza autoctona.

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

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