“Foragers”: documentare pratiche di colonialismo di insediamento

Il colonialismo di insediamento impone nuove dinamiche di rapporti anche tra natura e cibo che da sempre definiscono confini etnici.

Pina Fioretti – Febbraio 2024

Immagine di copertina: Un’immagine dal video “Foraging” (2022) di Jumana Manna, mostra i palestinesi che raccolgono l’akkoub selvatico, una verdura che si dice abbia il sapore del carciofo, e lo za’atar, un’erba. (Credit Jumana Manna)

Qualche giorno fa ho avuto l’opportunità di presentare il documentario di Jumana Ma’anna “Foragers” (in arabo “Al yad al khdra’a”) sulla vicenda del divieto di raccogliere piante selvatiche in alcune zone della Palestina occupata nel 1948, oggi Israele. La serata era stata organizzata dal collettivo gastronomico Tocia di Venezia nell’ambito del programma “Supper Clash – Zuppe di lotta” articolato in due giornate durante le quali è stato presentato anche il bel libro di Silvia De Marco “Ricette di confine, Il cibo raccontato dalla Palestina occupata”

Nata nel 1987 A Princeton, Jumana Ma’anna ha vissuto a Gerusalemme, si è laureata in Belle Arti presso l’Accademia Nazionale di Belle Arti di Oslo e ha conseguito un Master in Estetica e Politica presso il California Institute of the Arts. Ha partecipato a varie mostre e festival e nel 2016 ha presentato alla Berlinale “A Magical Substance Flows Into Me”, un documentario centrato su una ricerca entomusicologica per ripercorrere le radici dell’archivio di musica tradizionale palestinese precedente al 1948.

Il suo documentario “Foragers” del 2022 di cui è regista e produttrice, ha il merito di descrivere e denunciare le pratiche di razzismo e apartheid condotte dalle autorità israeliane attraverso il divieto di raccogliere le erbe selvatiche e commestibili in alcune zone palestinesi occupate nel 1948 e inglobate nello stato di Israele. Si tratta dello za’atar, il timo, e ‘akkoub, una specie di cardo, che rappresentano ingredienti importanti nella tradizione gastronomica palestinese. Le riprese hanno interessato zone specifiche della Galilea (Al Jalil, in arabo) e non solo, con una storia ben definita. Vediamole più da vicino perché conoscere il contesto geografico e storico ci renderà più semplice cogliere la portata di questo documentario.

La regista si sofferma sulla bellezza della natura di questi luoghi, sul lago di Tiberiade, sulle alture del Golan, sulle colline della Galilea e i suoi villaggi, alcuni definitivamente cancellati, e su quelli che circondavano Gerusalemme. Nei titoli di coda leggiamo nomi come Shu’afat, Suba, Qadita e altri.

Shu’afat a circa 5 km da Gerusalemme sorge sull’ antico villaggio cananeo di “Tell al Ful” ed era già abitato due secoli a.C. Citato come villaggio palestinese in molti testi storici, è interessante ricordare che gli abitanti palestinesi di Shu’afat hanno sempre portato avanti una determinata lotta di resistenza. Nel 1921 i Turchi abbandonarono nel villaggio munizioni e armamenti in seguito alla sconfitta subita durante la prima guerra mondiale. I palestinesi di Shu’afat utilizzarono quelle armi per combattere prima contro gli inglesi, che intanto si erano insediati in Palestina attraverso il mandato delle Nazioni Unite, e successivamente contro i sionisti. Nel 1967 il villaggio è stato occupato da Israele e oggi la sua area costituisce l’unico campo profughi interno a Gerusalemme. Nel 2022, le autorità di occupazione hanno presentato un piano per trasformare alcune aree di Shu’afat in discarica.

Suba si trovava a 10 km a ovest di Gerusalemme, sulla strada che conduce a Giaffa. I crociati vi costruirono il castello di Belmont di cui restano ancora tracce delle mura perimetrali. Nel 1948 il villaggio palestinese fu distrutto e gli abitanti espulsi. Oggi sulle sue rovine sorge l’insediamento ebraico di Tzova.

Akbara è un villaggio che originariamente faceva parte del distretto di Safad che comprendeva circa 90 villaggi. Nel maggio 1948 fu attaccato dalle forze sioniste che puntavano a conquistare Safad.

Qadita, il nome forse deriva dal siriaco “qadishya” che significa “santo”, si trovava nel distretto della città di Safad. Era un villaggio di contadini dediti alla coltivazione di fichi, melograni e frutteti; praticavano anche l’apicoltura. Fu occupato nel 1948 e del villaggio restano solo poche tombe del cimitero musulmano.

‘Arraba, villaggio occupato il 15 maggio del 1948, si trova nella bassa Galilea ed ha un alto tasso di istruzione. Un villaggio con una forte tradizione di resistenza.  Nel 1976 nel villaggio di ‘Arraba si tenne la prima manifestazione della Giornata della Terra durante la quale fu ucciso il giovane Khair Yassin. La manifestazione era stata indetta in risposta alla decisione dell’autorità occupante israeliana di confiscare ulteriori ettari di terra palestinese tra la Galilea e il Negev. La sera prima, il 29 marzo, Israele aveva imposto il coprifuoco nei villaggi di Arraba, Sakhnin, Deir Hanna minacciando di aprire il fuoco su chi avesse violato il le restrizioni. All’indomani si registrarono manifestazioni anche in Cisgiordania e Gaza, mentre tra ‘Arraba e Sakhnin furono uccisi sei giovani palestinesi tra i 15 e i 23 anni. Da quell’anno il 30 marzo, i palestinesi celebrano La Giornata della Terra.

In un’area caratterizzata da questa storia di resistenza si snoda il racconto di “Foragers”, la vicenda dei raccoglitori di timo e ‘akkoub che praticano senza dubbio una forma di resistenza e che grazie a questo documentario ci è dato conoscere.

C’è un aneddoto che collega l’akkoub con la letteratura palestinese, più precisamente con la poesia della resistenza di Fadwa Toqan. La grande poetessa nacque nel 1917 a Nablus da una colta famiglia della media borghesia palestinese. Non si conosce la sua esatta data di nascita, sua madre le aveva raccontato che era nata nel periodo in cui si raccoglie e si cucina ‘akkoub, cioè tra la fine di febbraio e l’inizio di aprile, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.

A questa pianta ha dedicato addirittura una poesia il poeta nablusi Walid Mohammad Al Kilani,

Akkoub e timo sono piante che nascono spontanee nella zona della Galilea, qui nel 1977 Israele ha imposto il divieto di raccogliere queste piante. Come ha spiegato il ricercatore palestinese Rabi’i Aghbaria nel suo articolo “Perché Israele teme il timo e ‘akkoub?” apparso su Al Awda News Network (alawda-pal.net):

“I tentativi di eliminare l’uomo cancellando la sua identità, impossessandosi della sua terra, spostandolo con la forza, cambiando il suo stile di vita, sono considerati una pietra angolare nella storia dei movimenti coloniali di insediamento. Il sionismo, in quanto movimento coloniale di insediamento, ha sempre cercato di imporre il controllo sulla vita palestinese in tutte le sue forme, con l’obiettivo di cancellarla e rimuoverla. Ha anche cercato di sfruttare la natura a proprio vantaggio e di farla sembrare più europea”

Dunque il colonialismo di insediamento impone nuove dinamiche di rapporti anche tra natura e cibo che da sempre definiscono confini etnici.

Nel suo documentario Jumana Ma’anna, ci fa seguire la pratica della raccolta affidandola a Aziza e Adel ( (nella vita sono i suoi genitori) e ad altri personaggi, alcuni dei quali interpretano loro stessi.  Essi diventano testimoni delle leggi proibitive e punitive dei tribunali amministrativi israeliani nei confronti dei palestinesi facendo crollare così il mito di Israele democratico con i suoi cittadini “arabien”.  La regista si spinge anche oltre fino a smascherare il furto dell’identità e delle tradizioni contadine e gastronomiche palestinesi da parte israeliana per scopi di lucro, poiché se da un lato Israele vieta la raccolta spontanea di queste verdure, dall’altro ha impiantato il business delle serre in cui vengono coltivate da braccianti palestinesi. Questo si evince da materiale di archivio formato da spezzoni di documentari della televisione israeliana che la regista inserisce trasformandoli così in prove evidenti del progetto di colonialismo di insediamento.

Le autorità israeliane, nel confiscare il raccolto e punire i palestinesi, si appellano a leggi di divieto e alle indicazioni della Società per la Protezione della Natura in Israele. Si tratta di un’organizzazione israeliana, fondata nel 1953 che sulla carta si legge essere “senza scopo di lucro, che lavora per preservare piante, animali e ambienti naturali che rappresentano la biodiversità”.

Oggi questa organizzazione promuove percorsi di ecoturismo che rappresentano un’operazione di greenwashing, una strategia del sionismo di insediamento consolidatasi ben prima della creazione dello stato di Israele.

Il greenwashing sionista risale almeno al 1901 quando, durante il V Congresso sionista a Basilea, fu fondato il KEREN KAYEMETH LEISRAEL (KKL), la più antica organizzazione ecologica del mondo nata per “far fiorire il deserto”, cioè per “rinverdire la terra senza popolo” di cui parlavano i sionisti riferendosi alla Palestina. Si trattava di un’organizzazione che raccoglieva fondi per piantare alberi nelle “terra senza popolo”.

Infatti, sulle rovine e le ceneri di villaggi palestinesi cancellati dalla Nakba del 1948 sono state piantate circa 86 foreste.  Con questa organizzazione collaborano realtà ambientaliste anche italiane e nel 2015 all’EXPO di Milano il KKL veniva presentato come “realtà sionista dedita allo sviluppo sostenibile capace di realizzare progetti per la pace e per la coabitazione con i propri vicini”. Una retorica smentita dalla storia di colonialismo e occupazione di terra e risorse anche idriche palestinesi e dal divieto di cui si parla in questo articolo. Una retorica su cui però insiste quell’ambientalismo neoliberale che è causa di ecoingiustizie e che fa bella mostra di sé in tante situazioni come EXPO e conferenze ambientaliste in Italia e nel mondo.

Jumana Ma’ana trasferisce nella regia di questo documentario anche le sue competenze di artista visiva creando una dimensione sensoriale in cui il pubblico entra in contatto con la natura e non solo con i personaggi. Lo spettatore è immerso nei paesaggi quasi a toccare la terra dei sentieri, le acque del lago Tiberiade, l’atmosfera fatta di suoni e voci mentre segue i pochi dialoghi con attenzione in cui si citano alcune erbe selvatiche e il modo in cui vengono cucinate: al khubbaza, la malva; al ‘elt, la cicoria selvatica; al-louf, sorta di spinaci a foglia molto grande. Nonostante la discriminazione, le punizioni fatte di arresti e multe, il tentativo di allontanare i palestinesi dalla loro terra, questo film ci mostra momenti di serenità e bellezza che sottolineano ancora di più il livello di ingiustizia e sfruttamento imposto da Israele.

Il rapporto con la terra è totale e non si dissolve nemmeno sull’immagine delle rovine della casa dei propri nonni con cui la regista chiude il suo documentario.