I movimenti di protesta che nel 2018 hanno vinto in Israele-Palestina.

La storia dell’anno di +972 per il 2018 è quella dei movimenti di protesta che sono riusciti a ribaltare i pronostici costringendo dei governi a rivedere e persino a cambiare le loro politiche. La storia dei rifugiati africani che hanno bloccato la loro deportazione da Israele e quella degli abitanti di Gaza che usano le proteste popolari per assicurarsi che il mondo non si dimentichi di loro.

Michael Schaeffer Omer-Man – 31 Dicembre 2018

Foto di copertina: Oltre 20.000 richiedenti asilo e Israeliani, protestano contro il piano di Israele di espellere i richiedenti asilo africani – sud di Tel Aviv, il 25 febbraio 2018. (Oren Ziv / Activestills.org)

Nell’ultimo anno l’ascesa globale di governi nazionalisti e di destra non è stata particolarmente positiva per i movimenti progressisti. Ma due movimenti di base, rispettivamente in Israele e in Palestina, sono riusciti a respingere politiche oppressive e, almeno temporaneamente, a raggiungere vere vittorie sul terreno. Queste storie non sono solo impressionanti e inattese, ma ricordano anche che il lavoro sul campo di organizzatori e di attivisti costituisce una reale opportunità nell’affrontare governi, eserciti e interessi economici immensamente potenti.

La prima vittoria è avvenuta in Israele, ma come la maggior parte delle storie di questi giorni, si è svolta nelle città, nei Parlamenti e negli angoli delle strade di tutto il mondo.

Israele ha silenziosamente cercato di deportare i rifugiati africani già dai primi anni in cui arrivarono nel Paese. Inizialmente, questi sforzi consistevano principalmente nel rifiutare di esaminare le richieste di asilo degli aspiranti rifugiati, in primo luogo di quelli che fuggivano dal Sudan e dall’Eritrea.

Poiché Israele non poteva deportarli direttamente nei loro Paesi d’origine, utilizzava la politica di rendere le loro vite miserabili, sperando che ciò li avrebbe spinti a partire volontariamente e a cercare rifugio altrove. Spesso a chiunque fosse disposto a partire  volontariamente venivano offerte poche migliaia di dollari. Come destinazione, erano proposte l’Uganda e il Ruanda . Ma i richiedenti asilo dovettero accettare di andarsene, anche se il loro consenso era stato estorto.

Tutto ciò è cambiato all’inizio di quest’anno, quando i funzionari israeliani annunciarono di aver stretto un accordo con due Paesi africani non nominati che avrebbero accettato di accogliere i rifugiati, anche se deportati contro la loro volontà. Fu un punto di svolta. Non ci volle molto perché una coalizione di attivisti e organizzazioni per i diritti dei rifugiati, a volte guidati dagli stessi richiedenti asilo, iniziasse a organizzarsi. Considerate le poche probabilità di riuscire a convincere il governo israeliano a cambiare la sua politica di lunga data di cacciare i rifugiati africani, gli attivisti definirono un obiettivo che dava loro migliori probabilità di successo.

C’era una ragione per cui gli accordi di Israele con l’Uganda e il Ruanda – o “il primo Paese terzo e il secondo paese terzo”, come riferito da funzionari israeliani – erano tenuti segreti, e gli attivisti lo capivano. Svolgere un ruolo diretto nella deportazione forzata dei rifugiati avrebbe reso questi governi molto impopolari, sia al loro interno  sia agli occhi della comunità internazionale.

Così la coalizione di organizzazioni di base, richiedenti asilo e attivisti cominciò a lavorare. Organizzarono  massicce proteste sia in Israele, anche  davanti dell’ambasciata ugandese, sia davanti alle missioni diplomatiche ugandesi e ruandesi nelle città di tutto il mondo. Attivisti e legislatori progressisti svolsero inchieste sui due Paesi africani per cercare di confutare i racconti del governo israeliano su come i richiedenti asilo lì deportati fossero trattati. In Israele furono  approntati casi giudiziari. La pressione iniziò a funzionare: sia il Ruanda che l’Uganda pubblicarono dichiarazioni che negavano di aver accettato di accogliere i profughi deportati da Israele. L’Alta Corte di Israele, che aveva dato la sua approvazione al piano di espulsione presentato a Camere chiuse, apparve turbata dalla negazione ed emise  un’ordinanza. Nel giro di poche settimane, Israele cancellò ufficialmente il piano di espulsione.

Richiedenti asilo, in maggioranza dal Sudan e dall’Eritrea, aspettano fuori dal Ministero degli Interni per presentare le loro richieste di asilo- Sud  di Tel Aviv, il 15 gennaio 2018. (Oren Ziv / Activestills.org)

La storia avrebbe potuto finire lì e sarebbe stata considerata come un successo sbalorditivo. Un gruppo di rifugiati e di attivisti e un piccolo numero di associazioni per i diritti  erano riusciti a far cancellare quella che sembrava una deportazione di massa incombente e le devastanti conseguenze che avrebbe comportato per i rifugiati. Ma la storia non si fermò lì.

Gli attivisti e la loro campagna, spingendo i governi ruandese e ugandese a rinnegare  il loro ruolo nella deportazione, costrinsero il governo israeliano a riconciliarsi con il fatto che la sua politica necessitasse di un ripensamento. Ed è quello che fece. Il 2 aprile, il primo ministro israeliano e il ministro degli interni annunciarono un piano diverso: l’ONU avrebbe aiutato a ricollocare decine di migliaia di richiedenti asilo nei Paesi occidentali e, in qualche modo incredibilmente, Israele avrebbe, almeno in parte, integrato decine di migliaia di richiedenti asilo in tutto il Paese.

Quel piano  fu affondato poche ore dopo a causa delle pressioni esercitate dalla base elettorale di destra e dai politici di estrema destra. Eppure,  il fatto che i richiedenti asilo siano tornati da dove avevano iniziato non dovrebbe sminuire la vittoria che i rifugiati e i loro alleati (inclusa una rivoluzionaria coalizione con residenti israeliani del sud di Tel Aviv) hanno ottenuto quest’anno nel fermare una deportazione di massa che avrebbe messo a rischio la vita di decine di migliaia di persone. E’ stata  una vittoria di persone normali, alcune delle quali membri più deboli della società, che si sono unite per cambiare il corso della storia, almeno temporaneamente e con successo.

* * *

La seconda vittoria si è avuta a Gaza ed è una storia molto diversa da quella di rifugiati che smuovono  forze apparentemente immobili. È la storia di un gruppo di attivisti che ha cercato di sfidare l’assedio che negli ultimi dieci anni ha soffocato l’economia di Gaza e tolto speranza alla linfa vitale del futuro di Gaza: la sua gioventù. È la storia di persone normali che dicono ai loro leader politici che il loro modo di fare le cose non va più bene e che le divisioni politiche e il ciclo infinito di violenze non sono per loro più accettabili. È stato un tentativo di attraversare un “confine” vecchio di 71 anni e d’inviare un messaggio umanitario, o forse un appello, alle persone qualunque dall’altra parte.

La Grande Marcia del Ritorno è nata da un’idea di un paio di attivisti che pensano che utilizzare barriere per tenere le persone imprigionate in un disperato stato di povertà e di oppressione non abbia senso. ” Su Facebook mi chiedevo cosa sarebbe successo se un uomo avesse agito come un uccello e avesse oltrepassato quella barriera”, ha poi ricordato Ahmed Abu Artema, uno dei principali organizzatori della Grande Marcia . “Perché i soldati israeliani dovrebbero sparargli addosso come se stesse commettendo un crimine?” Una serie di post su Facebook che ponevano domande simili portò alla formazione di un comitato di Palestinesi relativamente giovani e provenienti da tutto lo schieramento politico di Gaza, che iniziò a pianificare una serie di azioni nonviolente per sfidare il paradigma stabilito dal confronto israelo-palestinese.

Bambini palestinesi vicino all’accampamento della Great Return March, non lontano dalla recinzione Israele-Gaza, vicino al quartiere di Shujaiya, Gaza City, 10 aprile 2018. (Mohammed Zaanoun/Activestills.org)

Amos Gilad, l’ex  responsabile della politica del Ministero della Difesa israeliano, una volta disse che l’esercito israeliano “non è molto bravo nel fare Ghandi”. Anche un esercito come quello israeliano, esperto nel controllo della popolazione civile, non sa come comportarsi davanti a decine di migliaia di persone che marciano in modo pacifico verso un posto di blocco o un confine o che attuano qualsiasi forma di disobbedienza civile prolungata. La dichiarazione di Gilad e più una testimonianza del potere della nonviolenza  che un’accusa all’esercito israeliano. In effetti per un esercito non esiste un modo per  rivolgere le sue armi contro un movimento nonviolento senza perdere le sue basi morali.

Ma non è questo il motivo per cui la Grande Marcia del Ritorno di Gaza è stata una vittoria. Gli organizzatori e i manifestanti non hanno cercato di sconfiggere le truppe israeliane e il loro obiettivo non era quello di rivendicare delle basi morali. Hanno vinto perché hanno sfidato la spirale discendente della guerra e della povertà  nella quale i loro stessi governi, sia Fatah che Hamas, il governo israeliano e persino l’Egitto, li ha  confinati per un decennio. Stavano sfidando direttamente la strategia di resistenza violenta di Hamas, che non  è riuscita a mettere fine all’assedio o  a migliorare la vita del popolo di Gaza. Stavano chiedendo che il mondo – e la gente in Israele –  guardasse con  sguardi nuovi al disastro umanitario che è Gaza e che per una volta guardasse i Gazawi negli occhi e li vedesse come rifugiati.

Dire solo che ha funzionato sarebbe un po’ troppo semplice, e definirlo un successo sarebbe irrispettoso per le 180 persone che sono state uccise e le migliaia di altre persone che sono state mutilate a  vita. Vorrebbe dire ignorare i milioni che vivono ancora sotto assedio. Ma se guardiamo alla Grande Marcia del Ritorno attraverso gli occhi di un attivista, allora è stata una grande vittoria.

Migliaia di Palestinesi marciano verso la barriera di Gaza-Israele durante una manifestazione della Marcia del Ritorno di marzo, a est di Gaza City, 14 maggio 2018. (Mohammad Zaanoun)

La prima vittoria della  Grande Marcia del Ritorno è stata convincere i partiti politici e i gruppi armati di Gaza, in particolare Hamas, non particolarmente noto per la sua tolleranza nei confronti delle organizzazioni di base,  a dare ad essa una possibilità. In realtà,  la cosa è stata ancora più sbalorditiva: non solo Hamas  ha prestato il suo pieno supporto logistico agli organizzatori della Grande Marcia di Ritorno, ma non ha sparato alcun missile su Israele durante le marce. Dal 18 febbraio al 29 maggio, per tutta la durata della Marcia del Ritorno, i gruppi palestinesi non hanno sparato un singolo razzo o mortaio in Israele.

È stata questa mancanza di violenza da parte degli organizzatori – e gli organizzatori ammettono prontamente che non tutte le centinaia di migliaia di partecipanti hanno condiviso il loro ethos nonviolento – che ha attirato l’attenzione del mondo. Naturalmente, le marce non avrebbero fatto notizia in tutto il mondo se Israele non avesse risposto con un massacro, uccidendo così tanti manifestanti, tra cui medici, giornalisti e disabili. Ma il messaggio nonviolento e la disperazione di un numero apparentemente infinito di persone disposte a rischiare di essere uccise solo per essere visti e ascoltati, hanno costretto il mondo a guardare.

Ovviamente l’attenzione del mondo non è sufficiente, ma la pressione che ha obbligato Israele ad allentare in modo seppur lieve l’assedio – soprattutto aumentando la fornitura di elettricità e permettendo al Qatar di pagare i dipendenti pubblici a Gaza, alcuni per la prima volta in anni – e la decisione dell’Egitto di aprire il valico di frontiera di Rafah, ha fatto la differenza. Le conferenze dei donatori e il sollievo in realtà minimo  non saranno mai sufficienti, ma in questo caso i risultati hanno rappresentato un’inversione di rotta rispetto a quella che sembrava essere la tendenza precedente, in cui la sofferenza di Gaza era completamente dimenticata.

Palestinesi scappano dai gas lacrimogeni durante L”Grande Marcia del Ritorno” alla barriera  di Gaza-Israele, a est della città di Gaza, il 10 agosto 2018. (Mohammed Zaanoun / Activestills.org)

Oltre a spingere Hamas a dare un’opportunità alla nonviolenza, i due mesi di marce di massa hanno anche fatto rivedere  a Israele la sua politica nei confronti di Gaza e prendere sul serio alcune iniziative politiche che di solito avrebbe immediatamente scartato. La pressione internazionale sugli omicidi sfrenati di manifestanti ha sicuramente giocato un ruolo, ma forse più significativo è stato il messaggio inviato dalle proteste: il popolo di Gaza vuole vivere, l’assedio non ha raggiunto il suo obiettivo di fomentare il cambio di regime a Gaza e le sofferenze e la devastazione che infligge stanno raggiungendo il limite. Il risultato è stato  che per la prima volta in assoluto, Israele si  è impegnato in negoziati per il cessate il fuoco con Hamas quando nessun missile o razzo volava avanti e indietro.

I mesi seguenti non  sono stati così semplici. Quando la Grande Marcia del Ritorno si è conclusa ufficialmente il 15 maggio, Hamas ha mantenuto attive le proteste, e il potere di un movimento di massa nonviolento è stato sostituito da alcune centinaia di giovani che lanciavano pietre, aquiloni incendiari e palloncini di compleanno attraverso il confine con cadenza settimanale, a volte quotidianamente. Ci è voluta una quasi guerra  tra le due parti per raggiungere un qualsiasi tipo di cessate il fuoco, un risultato  ben lontano da quello che si sperava all’inizio dell’anno. Oggi, un numero crescente di giovani di Gaza vuole semplicemente andarsene e trovare una vita migliore.

Eppure le proteste hanno cambiato le cose, e in più modi di quanto non lo abbiano fatto il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici e l’elettricità di cui Gaza ha disperatamente bisogno. “Persino  Hamas ha capito il  nostro risultato, e il potere di una resistenza popolare disarmata”, ha detto a +972 Hasan al-Kurd, uno degli organizzatori della Marcia, poco dopo la più letale giornata di proteste a fine maggio. “Il fatto è che non sono stati trascinati in guerra da Israele. Ora il mondo intero parla di Gaza e dell’assedio. Persino l’Egitto ha finalmente aperto il valico di Rafah. Improvvisamente i giovani disperati hanno trovato una ragione per vivere “.

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Vale anche la pena ricordare la vittoria raggiunta dal movimento di base a Khan al-Ahmar e dintorni e il ruolo che esso ha svolto in Israele evitando, almeno temporaneamente, la distruzione e lo spostamento forzato del piccolo villaggio palestinese. L’attivismo sul campo, sia nel villaggio che nel resto del mondo, ha senza dubbio giocato un ruolo significativo nel rafforzare la pressione internazionale – soprattutto del Tribunale Penale Internazionale – che alla fine ha fatto riconsiderare al governo israeliano la sua politica. Il che non è un’impresa da poco.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”- Invictapalestina.org

Fonte: ttps://972mag.com/israeli-palestinian-grassroots-movements-won-2018/139493/?fbclid=IwAR0ME7iS8rcxZbKpCKuwj6ie-argtl2qo7FO2VWOQQYK72TR2xqbE34iIcA

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