Cantare nell’ultima colonia europea in Medio Oriente.

Perché Israele fa parte del concorso musicale Eurovision?

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Mariam Barghouti –  21 marzo 2019

Foto di copertina: I presentatori Assi Azar e Lucy Ayoub mostrano la mappa d’Israele durante il sorteggio  della località per la semi-finale dell’Eurovisione –  Museo d’Arte di Tel Aviv, Israele, il 28 gennaio 2019 [Corinna Kern / Reuters]

A meno di due mesi dal lancio del contest della canzone Eurovision a Tel Aviv, le polemiche  riguardanti il Paese ospitante sono destinate ad aumentare. Per Israele l’evento è una grande opportunità per “lavare con l’arte” i suoi crimini contro la popolazione palestinese e gli attivisti pro-Palestinesi sono determinati a sfidarlo con un boicottaggio.

Celebrità come Roger Waters e Wolf Alice hanno già chiesto a media e ad artisti di rifiutarsi di partecipare, mentre il movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) ha intensificato la sua campagna contro l’evento.

La provocatoria decisione di tenere la serata inaugurale dell’Eurovisione il 14 maggio è particolarmente insopportabile per i Palestinesi, poiché cade il giorno in cui Israele commemora la sua dichiarazione di indipendenza del 1948. Il giorno seguente, mentre i cantanti europei gareggeranno a Tel Aviv, la Palestina segnerà il 71 ° anniversario di quella che chiama al-Nakba, la catastrofe, ricordando le vittime della campagna israeliana di pulizia etnica.

Ma al di là dell’ovvia questione di Israele che usa l’ennesimo evento culturale per cancellare la sua sanguinosa reputazione, il prossimo evento dell’Eurovisione è anche un’opportunità per riflettere su come Israele sia realmente europea.

La domanda che pochi Europei sembrano chiedersi è perché un Paese situato in Medio Oriente (lontano dai confini naturali e immaginari dell’Europa) partecipi dal 1973 a una competizione  fondata sulla visione di un’Europa culturalmente unificante. Questo è un Paese che, definendosi come uno “Stato ebraico” costruito sulla “terra promessa” oltre che “unica democrazia in Medio Oriente”, ha affermato di avere origine e radici saldamente radicate in Medio Oriente.

Perché allora gli artisti israeliani cantano in Eurovision? Perché le squadre di calcio israeliane giocano nei campionati UEFA e competono con le squadre europee per le qualificazioni alla Coppa del Mondo FIFA? Perché i medici israeliani sono membri del Forum europeo delle associazioni mediche, che è attualmente guidato da un funzionario israeliano?

La risposta è semplice: perché Israele è stata fondata come colonia europea da dei coloni europei, e tale continua ad essere.

Una colonia europea in Palestina.

Israele è una delle ultime colonie europee rimaste, insieme a luoghi come la Guiana francese, la Nuova Caledonia, le Bermuda e le Isole Cayman. Riuscì a sopravvivere all’ondata di decolonizzazione nel 20 ° secolo elaborando attentamente il mito fondante dell’eccezionalismo e usando la premessa ideologica sionista secondo cui gli Ebrei devono tornare alla “terra promessa” e che possono essere “al sicuro” solo in uno stato di soli Ebrei .

Nonostante abbiano utilizzato  una lettura sionista delle scritture giudaiche per affermare che la Palestina era “originariamente” ebraica e la legittima “patria” di tutti gli Ebrei e rivendicando quindi la continuità territoriale storica con lo Stato ebraico pre-cristiano, i padri fondatori di Israele (tutti Ebrei europei e soprattutto ashkenaziti) ) intrapresero  una campagna sistematica per europeizzare gli spazi che stavano colonizzando.

Iniziarono a costruire il nuovo Stato sulla base della stessa premessa che i colonialisti europei hanno usato per secoli – ovvero che stavano intraprendendo una missione di civilizzazione. E mentre gli imperi europei si sbriciolavano, Israele prosperò, consolidando il suo mito di fondazione come “isola di stabilità” in una regione turbolenta.

I colonialisti sionisti  adottarono prontamente il punto di vista che i progetti coloniali europei avevano sviluppato nei confronti delle popolazioni native. Poco dopo la pubblicazione della dichiarazione Balfour del 1917, il leader sionista Chaim Weizmann, per esempio, scrisse in una lettera a Lord Balfour che gli Arabi, “superficialmente intelligenti e svegli” e “traditori” per natura, non sarebbero stati in grado di stabilire il proprio Stato in Palestina “perché il fellah (contadino) è almeno quattro secoli indietro rispetto ai tempi, e l’effendi (membro della classe urbana) … è disonesto, ignorante, avido e poco patriottico quanto inefficiente”.

Come gli Europei, anche i colonialisti israeliani intrapresero una combinazione di pulizia etnica e di sottomissione per “liberare” la terra che stavano colonizzando dalla popolazione nativa “inferiore”.

Ma i costruttori dello Stato israeliano  dovettero affrontare una grande sfida ideologica con la popolazione ebraica del Medio Oriente, che fu incoraggiata a migrare in massa in Palestina e utilizzata come manodopera a basso costo per costruire insediamenti sionisti. Ciò che i colonizzatori europei ritenevano particolarmente “inquietante” degli Ebrei Mizrahi era il loro “carattere arabo”.

Come il primo premier israeliano, Golda Meir, dichiarò: “Ogni Ebreo leale deve parlare yiddish, perché chi non conosce lo yiddish non è Ebreo”.

Cioè, l’unica vera identità ebraica era quella che l’élite ashkenazita aveva portato dall’Europa; l’ebraicità dei Mizrahim (o dei Sefarditi) era “impura”. Per questo motivo, vennero ritenuti suscettibili di “influenza araba” e la loro lealtà contestata. Bisognava agire rapidamente per controllare questa “sospetta” comunità ebraica che presto divenne metà della popolazione israeliana.

Nel 1951, durante un dibattito alla Knesset sull’educazione, il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, fu piuttosto esplicito: “Un Ebreo yemenita è prima di tutto un Ebreo, e vogliamo trasformarlo, il più possibile e il più rapidamente possibile, da uno Yemenita a un Ebreo “.

In un’altra occasione, affermò anche: “Non vogliamo che gli Israeliani diventino arabi,  ma spetta a noi lottare contro lo spirito del Levante, che corrompe gli individui e le società”.

Quindi, l’élite israeliana Ashkenazi intraprese un ambizioso progetto di “civilizzazione” – vale a dire “europeizzazione” – dei loro fratelli orientali attraverso la rieducazione, il lavaggio ideologico del cervello e rapimenti su larga scala di bambini.

Il risultato di questa “campagna di civilizzazione” è la continua e sistematica discriminazione contro gli Ebrei Mizrahi – che occupano ancora il fondo della società israeliana e – per estensione, contro chiunque non sia Ebreo e bianco.

La gerarchia razziale di Israele rispecchia molto quella stabilita in Europa, Stati Uniti e Canada: l’élite bianca e la classe media in alto e il resto in basso.

Il senso di colpa europeo e l’antisemitismo.

I movimenti di decolonizzazione che nacquero in Asia, Africa e Medio Oriente costrinsero l’Europa a smantellare gradualmente le sue operazioni coloniali. Israele, tuttavia, fu risparmiato da questo processo. Col tempo, parte dell’élite intellettuale europea iniziò a parlare di “post-colonialismo”, nonostante il fatto che nelle sue immediate vicinanze fosse rimasta una grande colonia europea.

In effetti, fino ad oggi, i governi europei rifiutano di riconoscere Israele come uno dei loro progetti coloniali.

Ironia della sorte, il senso di colpa  per l’Olocausto spinse i governi europei a sostenere il progetto sionista di inviare coloni ebrei a colonizzare la Palestina, nonostante il fatto che la necessità che gli Ebrei dovessero  lasciare l’Europa per un’altra patria a causa della loro ebraicità, fosse intrinsecamente antisemita.

Il sostegno incondizionato alla continua colonizzazione israeliana della Palestina e alla persecuzione della sua popolazione nativa è stato spesso giustificato (soprattutto da Paesi come la Germania e l’Austria) come l’espiazione dei crimini passati.

Ma in Occidente l’antisemitismo non è una cosa del passato. È spaventosamente vivo e vegeto e fa parte del fallimento occidentale nell’affrontare, nella sua società e nella sua cultura, le questioni del razzismo, della supremazia bianca e del colonialismo.

In questo senso, i governi europei che appoggiano Israele nel suo uso persistente delle pratiche coloniali europee del XX secolo contro la popolazione nativa palestinese, testimoniano il fatto che non hanno mai attuato una vera e propria resa dei conti con il loro passato criminale coloniale e che non hanno mai completamente respinto le idee che hanno permesso il colonialismo e l’antisemitismo.

Ecco perché le élite europee non considerano un problema l’esibizione di  artisti europei in Israele, né che i consumatori europei godano di beni prodotti negli insediamenti israeliani illegali, né che  i governi europei acquistino tecnologia di sorveglianza israeliana mentre i Palestinesi vengono giornalmente oppressi, espulsi dalle loro case e terreni, mutilati e massacrati.

Qualsiasi radicale cambiamento della loro posizione può avvenire solo parallelamente al pieno riconoscimento dei crimini coloniali e alla loro espiazione, al risarcimento per le popolazioni colpite, alla decolonizzazione e alla “derazzializzazione” delle strutture di potere e alla condanna della supremazia bianca. Solo allora gli Europei (e per estensione gli Americani)  potranno ammettere che Israele è una loro creazione coloniale e confessare la vergogna storica della sua fondazione e della sua crescita.

Solo allora l’Occidente sarà in grado di ritenere Israele responsabile dei suoi crimini.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestino- americana con base a Ramallah.

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

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