Perché il femminismo? Perché ora?

Riflessioni sulla dichiarazione di intenti “La Palestina è una questione femminista”

Fonte: english version

Loubna Qutami -3 maggio 2021

Il 15 marzo 2021, in occasione del Mese internazionale delle donne, il Collettivo femminista palestinese (PFC) con sede negli Stati Uniti ha lanciato un manifesto dichiarando che “la Palestina è una questione femminista”. Nei giorni che seguirono, migliaia di organizzazioni e individui si sono iscritti da Stati Uniti, Palestina, Kenya, Sud Africa, Scozia, Regno Unito, Cile, Australia e in tutto il mondo. I firmatari includono figure femministe degne di nota come Cherrie Moraga, Mariame Kaba, Judith Butler e Chandra Mohanty (tra molte altre); oltre 200 organizzazioni con sede negli Stati Uniti tra cui la National Women’s Studies Association (NWSA), la Black Women Radicals, la Grassroots Global Justice Alliance (GGJA); organizzazioni femministe, queer, studentesche e giovanili, antirazziste, di giustizia sociale e religiose; organizzazioni femministe in Palestina e in tutta la regione araba, compreso Tal3at.

La vasta adesione globale al manifesto ha dimostrato una volontà popolare nel sostenere la Palestina come questione femminista attraverso sei azioni concrete.

Tuttavia, quando il manifesto è stato condiviso in vari social media, sono emerse critiche che apparentemente hanno trascurato la sua visione femminista saldamente fondata sull’analisi decoloniale e impegnata in una lotta congiunta. Alcuni critici hanno sostenuto che la Palestina sia una lotta per i “diritti umani” piuttosto che femminista, mentre altri hanno sostenuto che il femminismo è un costrutto occidentale incompatibile con le strutture e le tradizioni spirituali, politiche e culturali palestinesi. Alcuni hanno espresso esitazione o rifiuto totale di riconoscere la Palestina come una questione femminista, sostenendo che il femminismo è stato uno strumento di intervento imperialista nelle terre e nelle comunità di SWANA (Sud Est asiatico e Nord Africa)*. Tali critiche hanno dimostrato come definizioni ristrette del femminismo – vale a dire il femminismo coloniale occidentale – rimangono dominanti nella coscienza popolare, piuttosto che le elaborazioni autodeterminate del femminismo offerte dal pensiero e dalla prassi femminista palestinese, araba, nera, indigena e del terzo mondo.

Un’attenta lettura dei principi presentati nel manifesto rivela che il Collettivo Femminista Palestinese ha una profonda consapevolezza delle tensioni e delle ansie che circondano la questione del “femminismo” tra i circuiti degli attivisti palestinesi. Tuttavia, il manifesto propone che il femminismo – come definito e praticato dai popoli oppressi – possa anche essere una struttura e un percorso rilevanti per la realizzazione della liberazione palestinese, e pone l’urgenza di considerare nel presente la Palestina come questione femminista . Di seguito sono riportati 5 principi chiave che appaiono nel manifesto, utili per capire perché il femminismo e perché ora.

Il colonialismo sionista come progetto di violenza di genere e sessuale
Le forme dominanti di femminismo occidentale o coloniale enfatizzano l’acquisizione di diritti individuali piuttosto che la libertà collettiva, e sono queste forme di femminismo che lo stato sionista mobilita. In tali condizioni, le donne palestinesi sono relegate a soggetti bisognosi di essere salvati dalla violenza patriarcale delle proprie famiglie e della società. La violenza strutturale del progetto coloniale è elusa. Si presume invece che i salvatori provengano dalle cosiddette democrazie liberali dell’Occidente amanti della libertà e dei diritti, mentre coloro che hanno bisogno di essere salvati provengono dall’antimoderno, non illuminato e inquietante “Oriente” immaginato razzialmente.

Decostruire questi sistemi binari coloniali non è affatto una novità: i resoconti orientalisti delle soggettività delle donne arabe, palestinesi e musulmane sono stati a lungo contestati e smascherati come stratagemmi coloniali da pensatori, studiosi e movimenti femministi del Terzo Mondo. Ad esempio nel 2011 una delegazione di indigeni e donne di colore in Palestina rilasciò una dichiarazione in cui affermava: “In quanto femministe, deploriamo la pratica israeliana del ‘pink-washing’, l’uso da parte dello stato di un apparente sostegno all’uguaglianza di genere e sessuale per nascondere l’occupazione. ”

Eppure, nonostante la longevità di queste espressioni di femminismo anti-sionista, i vecchi tropi che presentano le donne palestinesi come vittime perpetue bisognose di essere salvate da uomini pericolosi riappaiono nel lessico delle campagne di pubbliche relazioni sioniste proprio per legittimare Israele come democrazia liberale femminista e queer.. Tali sforzi si traducono in molti vantaggi per il sionismo, uno dei più pericolosi è l’oscuramento del colonialismo sionista come un progetto di violenza sessuale e di genere.

In quanto tale, il manifesto illustra chiaramente come l’espropriazione, l’occupazione e il controllo dei corpi palestinesi da parte dei coloni sionisti siano radicati nelle logiche e nelle strutture del “militarismo maschilista”.

Il manifesto recita:

La violenza sionista continua a dominare la vita dei palestinesi in modo profondo. In tutto il Paese, Israele demolisce le case palestinesi, sottopone i prigionieri palestinesi ad abusi e torture sessuali e fisiche sistematiche e controlla i corpi , la sessualità, i diritti riproduttivi e la vita familiare dei palestinesi.

Di fronte ai continui atti di cancellazione e annientamento dei coloni, le capacità riproduttive delle donne palestinesi sono state oggetto di controllo biopolitico, sorveglianza e attacco sin dall’inizio del sionismo. Resoconti storici hanno rivelato come le campagne di violenza sessuale eseguite dalle milizie sioniste, come quelle usate durante gli eventi culminati nel massacro dei palestinesi a Deir Yassin nel 1948, siano state determinanti per cacciare i palestinesi dalle loro case. Più recentemente, decine di donne palestinesi, a cui è stato impedito di accedere a cure mediche adeguate, sono state costrette a partorire ai posti di blocco, a testimonianza dei modi eclatanti in cui la vita palestinese è limitata dai vincoli di mobilità dell’occupazione. La follia omicida indiscriminata del progetto sionista ha anche impedito ai palestinesi di preservare la vita: tale è stato il caso dell’infermiera di 21 anni Razan al-Najjar, assassinata dalle forze israeliane mentre si prendeva cura dei feriti durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018 nella Striscia di Gaza.

 Una struttura e un percorso femminista palestinese non rafforzano il modo in cui i sionisti utilizzano i diritti delle donne e i diritti queer come arma contro i palestinesi, ma invece li ribaltano, facendo luce sulle violenze sistemiche di genere e sessuali che nel colonialismo sionista sono sempre state centrali.

Moltissimi palestinesi hanno anche testimoniato sull’uso dello stupro e della tortura sessuale nelle celle delle prigioni sioniste e di come durante gli interrogatori l’apparato di sorveglianza sionista manipoli le vite intime dei palestinesi: la minaccia che, in caso di rifiuto di obbedire o di collaborare con le forze di intelligence sioniste, le proprie vite intime o sessuali vengano rese pubbliche. è una tattica comune usata per ottenere false confessioni.

Tali esempi indicano come il colonialismo sionista dei coloni debba essere inteso come un progetto di violenza sessuale e di genere e perché per una Palestina libera la visione femminista sia centrale nello sfidare in modo completo il governo politico, economico, razziale e sociale del sionismo sulla vita e sulla terra palestinese . Di conseguenza, una struttura e un percorso femminista palestinese non rientrano nel modo in cui i sionisti utilizzano i diritti delle donne e i diritti queer come arma contro i palestinesi, ma invece li ribaltano, facendo luce sulle sistemiche violenze sessuali e di genere che nel colonialismo sionista sono sempre state centrali .

Rifiutare la cancellazione e dimostrare la rappresentanza femminista palestinese

Lanciato da un collettivo di donne e femministe palestinesi e arabe intergenerazionali negli Stati Uniti, il manifesto sfida il clima di repressione anti-palestinese presente oggi negli Stati Uniti . Considerando le decine di campagne sioniste condotte negli Stati Uniti che hanno lavorato senza fine per sopprimere la libertà di parola sulla Palestina, mettere a tacere il dissenso e criminalizzare i palestinesi e i loro sostenitori, il manifesto rappresenta un diretto atto di rifiuto delle femministe palestinesi e arabe dall’essere vittime di bullismo, essere ridotte al silenzio e sparire. Dimostra inoltre una profonda consapevolezza dei modi in cui tali campagne di repressione siano coerenti, pur operando al di fuori della patria storica, con le logiche e le strutture colonialiste dei coloni sionisti che agiscono per annientare l’esistenza palestinese. Ad esempio, i punti di azione numero due e tre invitano le comunità globali a “sostenere i diritti dei palestinesi alla libertà di parola e all’organizzazione politica “; e “Rifiutare la fusione di antisionismo con antisemitismo, in particolare l’applicazione legale della definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA)”. Entrambe le azioni mirano a garantire il diritto dei palestinesi e dei loro c sostenitori di creare, preservare e diffondere liberamente senza ritorsioni narrazioni, discorsi e aspirazioni palestinesi.

Inoltre, il manifesto è un potente rifiuto dei discorsi liberali che continuano a cancellare e criminalizzare le visioni femministe palestinesi:

I femminismi liberali e sionisti fanno affidamento sui discorsi orientalisti per mettere a tacere e minare le aspirazioni collettive delle donne palestinesi e di chi le sostiene, contribuendo a una repressione politica che criminalizza la libertà di parola sulla Palestina e sulla liberazione palestinese.

Pertanto, le idee presenti nel manifesto portano alla luce femminismi occidentali strettamente definiti e lasciano spazio alle femministe palestinesi e ai loro sostenitori per rivendicare il femminismo come qualcosa di profondamente loro. Tali sentimenti violano i dettami dei coloni-colonialisti che lavorano attivamente per cancellare la Palestina dalle mappe del mondo, cancellare le narrazioni palestinesi dai documenti storici e distruggere gli archivi palestinesi. L’ethos collettivo che il manifesto incarna ripristina la perseveranza delle espressioni di identità palestinesi in esilio e le aspirazioni alla libertà, in particolare delle donne. In quanto tale, il manifesto presenta una dimostrazione della tenace energia che guida una rivendica collettiva contro la scomparsa per e da parte delle femministe palestinesi e arabe e di chi le sostiene.

Affermare la connessione storica e transnazionale

Sebbene il Collettivo Femminista Palestinese sia una formazione relativamente nuova, il manifesto sostiene che tali visioni sono costruite “sulla storia delle donne palestinesi e di chi le sostiene, che hanno lavorato per porre fine a molteplici forme di oppressione”. I riferimenti del manifesto a citazioni rendono omaggio ai movimenti, alle autrici e alle studiose storiche delle donne palestinesi che hanno gettato le basi per le nuove azioni del pensiero e della prassi femminista palestinese nel presente. Il manifesto trae anche ispirazione diretta dai movimenti femministi palestinesi contemporanei presenti in Palestina e in altre aree geografiche in cui i palestinesi vivono attualmente, citando il lavoro di gruppi come Tal3at, un movimento femminista che in Palestina combatte la crescita dei femminicidi facendo appello ai movimenti politici per una giustizia sessuale e di genere, sostenendo che non può esserci “nessuna patria libera senza donne libere”.

 La problematizzazione, il disconoscimento e la netta negazione del femminismo liberale e sionista è una convalida estremamente necessaria dell’ethos femminista delle comunità e delle questioni nere, indigene e del Terzo mondo che continuano a essere trattate come note in calce allo status quo del femminismo bianco.

Rendere omaggio ai movimenti femministi palestinesi del passato e del presente offre uno sguardo importante sull’orientamento politico del CFP. In questo modo, un’attenta lettura del manifesto svela una politica che valorizza l’incarnazione delle epistemologie culturali e politiche palestinesi nel corso della storia e la connessione della diaspora palestinese negli Stati Uniti alla patria e ai palestinesi in tutto il mondo: “I nostri valori sono radicati e incarnati nella saggezza culturale e nella giustizia per trasformare le nostre comunità “. In quanto tale, il manifesto è per i palestinesi, attraverso le loro dispersioni geografiche, una prova come popolo; dei palestinesi nel presente come profondamente legati alle storie, alle eredità e alla conoscenza del passato; e delle interconnessioni tra giustizia sociale, di genere, sessuale, economica e politica e la liberazione che si fondono in tandem per ottenere la vera liberazione e decolonizzazione sia della terra che delle persone.

Un’estensione di apprezzamento al pensiero e alla prassi femminista nera, indigena e del Terzo mondo

Simile agli ideali che i movimenti femministi neri, indigeni e del terzo mondo hanno offerto, il manifesto afferma che abbracciare la Palestina come questione femminista significa riconoscere sistemi di oppressione interconnessi: “ci impegniamo a resistere alla violenza di genere e sessuale, al colonialismo dei coloni, allo sfruttamento capitalista, al degrado della terra e all’oppressione in Palestina, a Turtle Island e nel mondo. ” Una buona parte del contenuto del manifesto riconosce il netto contrasto tra il femminismo liberale bianco e sionista e quello della solidarietà femminista tra palestinesi e popoli non bianchi in tutto il mondo. Evidenziare tali distinzioni non serve per inserire la Palestina e i Palestinesi negli spazi femministi esistenti che non soddisfano gli impegni etici per la lotta intersezionale. Piuttosto, la problematizzazione, il disconoscimento e la netta negazione del femminismo liberale e sionista è una convalida estremamente necessaria dell’ethos femminista delle comunità e delle questioni nere, indigene e del Terzo mondo che continuano a essere trattate come note a piè di pagina allo status quo del femminismo bianco.

Ma oltre a riconoscere le distinzioni, il manifesto onora le opere fondamentali del pensiero femminista nero, indigeno e del Terzo mondo da cui i movimenti delle donne palestinesi hanno tratto da tempo grandi lezioni . Citando gli autori di queste tradizioni, il manifesto concentra coloro i cui corpi, esperienze, lavoro, intuizioni e narrazioni sono troppo spesso resi invisibili e / o selettivamente appropriati dal femminismo bianco, liberale, coloniale e sionista strettamente definito. Il manifesto è anche un’espressione diretta della politica di solidarietà palestinese con le altre comunità. Considerando le “forme strutturali di violenza sessuale e di genere inerenti al colonialismo, alle guerre imperialiste, al capitalismo razziale e alla supremazia bianca globale”, il manifesto reifica le forme sistemiche di estrazione, violenza e oppressione che devono essere tenute in conto nella coltivazione di visioni femministe liberatorie non solo per la Palestina, ma per il mondo.

Tali sentimenti sono stati confermati nei punti di azione numero cinque e sei che chiedevano a tutti i firmatari di “disinvestire dal militarismo e investire nella giustizia e nei bisogni della comunità a Turtle Island”; e “Chiedere la fine del sostegno politico, militare ed economico degli Stati Uniti a Israele e a tutte le collaborazioni militari, di sicurezza e di polizia”. Queste richieste dimostrano come il CFP stia inserendo la coscienza di classe nella sua prassi femminista e non si preoccupi solo di acquisire la solidarietà femminista per la giustizia in Palestina, ma come consideri la liberazione palestinese vincolata alla smilitarizzazione, decolonizzazione, liberazione economica e acquisizione di giustizia e libertà per tutte le persone oppresse a Turtle Island e in tutto il mondo.

Estendendo l’apprezzamento a tali storie e l’impegno a sostenere quelle eredità, l’impegno del CFP può essere inteso non come un’induzione del pensiero femminista palestinese negli Stati Uniti, ma come un’estensione di decenni di lavoro e solidarietà femminista che si fonde in nuove forme organizzate che offrono un rinnovato punto di partenza per comprendere la Palestina come una lotta centralmente femminista.

Un nuovo catalizzatore di immaginazione, creazione e amore

Centrandosi sull’immaginazione, sulla creazione, sulla connessione e sulle affermazioni della vita, il manifesto presenta il valore di un approccio femminista al pensiero e alla prassi sia anticoloniale che decoloniale:

Stiamo immaginando e ricreando un mondo libero da sistemi di sfruttamento di genere, razziale ed economico che mercificano la vita umana e la terra. La nostra è una visione per un futuro radicalmente diverso, basato sull’interconnessione che afferma la vita, il rafforzamento delle classi lavoratrici e l’amore reciproco, la terra, la vita e il pianeta stesso.

Al centro di tali sentimenti c’è l’amore, ciò che continua a spingere per un impegno ininterrotto e profondamente emotivo alla libertà, fino a quando non venga raggiunta.

Questi valori riconoscono il trauma e il dolore inflitti alle persone comuni in lotta e cercano di invertire la sua presa attraverso la costruzione di paradigmi, pratiche e processi alternativi che affermano la vita di fronte a tutto ciò che è destinato a distruggerla. Mentre gran parte dell’impegno è dedicato al rifiuto e alla problematizzazione del pensiero femminista sionista, le autrici del manifesto lanciano ai lettori un forte incoraggiamento a immaginare cos’altro potrebbe esserci. Una lettura attenta del manifesto rivela perché il femminismo e perché ora, dove l’urgenza del momento è legata a oltre 73 anni di espropriazione, occupazione e oppressione palestinese. Tuttavia, è l’ultimo paragrafo del manifesto che ci lascia tutti a volerne sapere di più: e adesso? In che modo una visione e una prassi femministe per la Palestina potrebbero presentare nuovi modi di realizzare la liberazione della terra e del popolo palestinese in relazione alla liberazione di tutti i popoli che lottano contro l’oppressione sistemica?

Incarnando la pratica anticoloniale di abolire tutte le logiche e i sistemi intesi a distruggere la vita e una pratica decoloniale di creare un mondo altrimenti possibile, il manifesto presenta importanti principi che nel corso della storia sono stati a lungo al centro dei femminismi palestinesi, arabi, neri, indigeni e terzimondisti . Quindi è vitale riconoscere il manifesto non come un punto finale, ma come una rinnovata espressione di solidarietà femminista, un catalizzatore che rompe gli schemi lasciando spazio all”immaginazione, alla creazione e alla speranza per le future generazioni di attiviste del movimento.

*S.W.A.N.A. è una parola decoloniale per indicare la regione del sud-ovest asiatico / nordafrica , al posto di Medio Oriente, Vicino Oriente, mondo arabo o mondo islamico, definizioni che hanno origini coloniali, eurocentriche e orientaliste.

Loubna Qutami è Assistant Professor presso il Department of Asian American Studies dell’Università della California, Los Angeles. Qutami è l’ex direttrice esecutiva dell’Arab Cultural and Community Center (ACCC) a San Francisco, una sostenitrice del Palestinian Youth Movement (PYM) e un attuale membro del Palestinian Feminist Collective.

Firmate il manifesto  “La Palestina è una questione femminista”. Per ulteriori informazioni sul Collettivo Femminista Palestinese, visitate la loro pagina Facebook o inviate un’e-mail a palestinianfeminists@gmail.com.

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org