Palestina: la resistenza come terapia (1-3)

 

 Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese

Intervista divisa in tre parti.

Apparsa su lundimatin   il 17 maggio 2021

Uno spettro gira per il mondo, lo spettro della Palestina. Ogni volta che una crisi acuta fa riapparire questo tema nei media, occorre prestare attenzione sia alla singolarità del momento sia al processo di lunga durata. Ci si guardi bene, innanzitutto, di pensare che prima dell’evento esistesse una specie di situazione normale, poi turbata da “scontri”, “tumulti”, bombardamenti”, “razzi”, “un bilancio sempre più pesante”, tanto da temere “una conflagrazione in tutta la regione”… Occorre, infine, ricordare la Nakba – la “catastrofe” o il “disastro” occorso al popolo palestinese – come il fatto che “tutto continua come prima”.

 

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico. Samah ci rammenta che “la Nakba non è un fatto storico, passato, ma un processo che si ripete da oltre 70 anni”…

Samah Jabr è la protagonista principale del documentario di Alexandra Dols “Dietro i fronti, resistenza e resilienza in Palestina”, attualmente presentato in varie città italiane.

I Palestinesi affrontano una nuova fase d’intensificazione della loro lotta contro l’occupazione. Potresti illustrarci gli elementi che hanno dato origine alla presente situazione e la continuità in cui si situa.

L’identità palestinese-gerosolimitana non ha mai smesso di essere attaccata, ma la fase attuale rappresenta effettivamente un’intensificazione, caratterizzata da tre elementi scatenanti:

Vi è stata dapprima l’occupazione israeliana della piazza antistante la Porta di Damasco (1), impedendo la vita sociale che da sempre i Palestinesi svolgono in quel luogo, normalmente molto vivace, conviviale, animato da attività di piccolo commercio e manifestazioni culturali… La piazza è una specie di anfiteatro davanti alla Porta di Damasco. C’è sempre molto movimento: venditori, musicisti, danze, gente che ci si reca semplicemente per discutere… Ed è pure un luogo di continui scontri con gli Israeliani, quando questi decidono di scacciare i mercanti e la gente che vi sosta. L’anno scorso avevano persino deciso di cambiare il nome alla piazza, che in arabo si chiama Bal ‘ Al Amud (porta della Colonna), dedicandola a due soldati israeliani morti in uno scontro con i Palestinesi. Anche in questo caso, si trattava di un attacco all’identità ed ai simboli del nostro popolo, alla vita sociale e culturale dei Palestinesi di Gerusalemme.

C’è poi stato un altro episodio cruciale, di stampo razzista, tendente alla pulizia etnica, quando le autorità israeliane hanno tentato di espellere i Palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est – uno schema ormai consueto nella nostra vita. Questo quartiere, in cui vivono rifugiati del 1948 (2), occupa una posizione strategica.

Il tentativo d’espulsione avviene poco tempo prima della commemorazione della Nakba, che in noi provoca sempre sentimenti traumatici. Per questo ci fu una grande mobilitazione e molta solidarietà con Sheikh Jarrah… Recentemente, mentre attraversavo il quartiere, sono rimasta bloccata per due ore a causa degli scontri… era come in guerra, con molta violenza e un elevato livello repressivo. Si potevano vedere i soldati colpire i manifestanti alla testa…

Il terzo elemento è stato l’attacco contro i fedeli venuti a pregare nella moschea Al Asqa, un luogo santo per oltre un miliardo di musulmani. In teoria, 7 milioni di musulmani palestinesi avrebbero il diritto di recarvisi, ma in pratica ciò riesce solo a poche migliaia, a causa degli innumerevoli impedimenti escogitati dagli Israeliani. Coloro che, malgrado tutto, ci arrivano vengono malmenati durante la preghiera, il rientro, il digiuno e pure ciò rappresenta un forte attacco all’identità palestinese e musulmana che ha sconvolto i Palestinesi, specialmente gli abitanti di Gerusalemme. Con il Covid e ancora prima, con le rivolte arabe sfociate per lo più in guerra o colpi di stato, il mondo ha pensato che la questione palestinese fosse da relegare agli archivi storici, ma gli ultimi avvenimenti l’hanno con forza riproposta all’attualità.

Puoi dirci qualcosa della Striscia di Gaza?

Gaza è il luogo meglio predisposto per captare le tensioni sorte a Gerusalemme. Da anni assediata da Israele e marginalizzata dal governo palestinese ufficiale, Gaza ha subito guerre ed attacchi ripetuti. La sua gente è inoltre molto attaccata a Gerusalemme. Il 30 aprile il presidente Mahmud Abbas ha deciso di rinviare le elezioni (per la Cisgiordania si trattava delle prime elezioni nazionali in 15 anni), prendendo a pretesto gli scontri che avvenivano a Gerusalemme e la mancata garanzia che si potesse votare anche in quella città. In verità, sappiamo che temeva il responso delle urne se si fosse votato alle date previste… Erano quindi riunite tutte le condizioni perché Gaza reagisse.

Bisogna evitare di interpretare questa reazione riferendosi unicamente all’aspetto islamista dei gruppi di resistenza, perché in tutte le realtà resistenti di Gaza si parla di un fronte comune. Le più popolari, è vero, sono Hamas e la Jihad islamica, ma ci sono anche formazioni meno note, il cui orientamento politico non si base sull’Islam; talune sono d’ispirazione marxista, altre nazionaliste arabe… La decisione di scatenare una risposta armata, è stata  opera di un “fronte comune delle brigate”. Nel loro comunicato, esse non menzionano solo l’attacco alla moschea, ma pure la pulizia etnica in corso a Gerusalemme est e la situazione alla Porta di Damasco. Fanno parte del fronte comune sia membri del marxista Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), sia elementi legati a Fatah (ma non più ritenuti membri del partito); è un fronte largo, che va oltre i movimenti islamisti.

Ora però, i media vogliono far credere che si tratti solo di Hamas. Quando c’è una risposta verbale e politica della resistenza, Nethanyahu ribatte che a Gaza Israele si  confronta  solo con Hamas… È chiaro che cercano di ridurre il conflitto ai soli aspetti religiosi ed è altrettanto evidente che ciò genera confusione, permettendo di affermare che si tratta solo di reprimere un movimento islamista, ecc.

Inizialmente c’era quindi stata l’intenzione di espellere gli abitanti palestinesi da Sheikh Jarrah e di demolirne le case per far posto a una nuova colonia ebraica. Questo fatto è spesso presentato da Israele e da coloro che ne riprendono l’argomentazione come una semplice questione giuridica o un contenzioso immobiliare. Ma per i Palestinesi esso fa parte di una lunga storia di spoliazione, comprensibile solo con riferimento a termini quali Nakba e “diritto al ritorno”. Potresti soffermarti sul senso di queste nozioni e sul modo in cui esse si ripropongono nei recenti avvenimenti?

Nakba è il temine impiegato per descrivere i fatti che precedettero la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, azioni criminali di spoliazione, espulsione, demolizioni e massacri che portarono alla cacciata di due terzi del popolo palestinese. Una parte fu espulsa dai confini della propria terra, diventando rifugiati, altri si ritrovarono in altre località della Palestina lontane dai loro villaggi o in campi profughi. Ci fu poi la legge israeliana del 1950, detta dell’”assenteismo”, che considera tutte queste persone come assenti e dà al governo israeliano il diritto di confiscane i beni e impedisce loro in seguito di rivendicarli.

È pur vero che nel periodo ottomano o il mandato britannico – quindi prima della Nakba – degli ebrei avevano dei possedimenti in Palestina. Questa gente era comunque un’infima minoranza e godeva dei favori delle autorità mandatarie. A quei tempi, era pure in vigore un sistema di affitto o d’uso esclusivo tramite il quale era possibile utilizzare una data proprietà per un certo periodo. Alcuni Ebrei venuti in Palestina come rifugiati hanno potuto usufruire di questo sistema di locazione….

Oggi, nel mondo arabo, con il discorso della normalizzazione dei rapporti con Israele, circola l’idea che gli ebrei abbiano acquistato la Palestina, non che l’abbiano occupata! Come dire che se dei Tunisini o Algerini comperano dei terreni in Francia, l’Algeria o la Tunisia possono più tardi occupare la Francia, è la stessa logica. In realtà, la Palestina è stata occupata in maniera pianificata, per mezzo della pulizia etnica e dei crimini perpetrati in modo particolare dalle milizie ebraiche. So che son cose difficili da udire, ma è esattamente come ciò che ha fatto l’ISIS in Siria e in Iraq: ricorrere al terrore perché gli abitanti abbandonino i loro villaggi; fu questa la modalità di vuotare e occupare la Palestina. Allora, il diritto internazionale e l’ONU hanno da una parte riconosciuto lo Stato d’Israele e dall’altra dichiarato il diritto al ritorno dei Palestinesi. Un diritto sempre misconosciuto da Israele, che d’altronde disconosce la maggior parte delle decisioni della stessa ONU.

Tu lavori come psichiatra e psicoterapeuta in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est. Nei tuoi interventi pubblici e nei tuoi scritti hai spesso sottolineato l’impossibilità di separare gli aspetti politici e psicologici per quanto riguarda la società palestinese. In che modo il tuo lungo lavoro pratico sul campo ti dà la possibilità di capire ciò che sta succedendo?

Ci sarebbe molto da dire in proposito… ma voglio affrontare la questione partendo da un caso particolare: prendiamo per esempio la risposta di Gaza. Attualmente, la gente partecipa alla resistenza soprattutto per ragioni psicologiche, sono di questo tipo le motivazioni principali. Quando si parla dei Palestinesi dediti alla resistenza, ci si riferisce d’un lato alla resistenza popolare messa in atto dai giovani gerosolimitani, dall’altro a coloro che resistono in modo più formale come a Gaza… Non si tratta di considerazioni finanziarie o di mero calcolo – calcolo in vite umane perse, in danni materiali subiti o in possibili vantaggi… No, le ragioni sono psicologiche, perché i Palestinesi si vedono attaccati nella propria dignità, nelle loro convinzioni profonde, in ciò che credono – e non mi riferisco qui alla religione istituzionale, ma alla fede nel loro diritto a questa terra. Per questo è difficile voler gestire la resistenza del nostro popolo. Perché limitandoci al solo calcolo dei rischi, gli Israeliani non possono aspettarsi una simile resistenza, data l’enorme differenza delle forze in campo…

Oggi Gaza è diventata uno spazio di guerra senza via d’uscita, sorvolata da 160 aerei militari che potrebbero demolirla interamente – lo si è visto nel 2014. C’è inoltre il divario sul numero dei morti, del tutto sproporzionato: nel 2014 i bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 2000 persone, mentre dal lato israeliano ve ne furono una dozzina… Eppure, malgrado ciò, questo confronto letale per i Palestinesi prosegue, a causa della prevalenza degli aspetti psicologici, della giustizia, della dignità umana. Per mezzo della resistenza i Palestinesi ritrovano la loro capacità d’agire, rifiutano di vedersi reificati e disumanizzati, esprimono la loro soggettività. Se non si capisce ciò, le azioni palestinesi risultano insensate ed è per questo che la resistenza appare incomprensibile a molti governi e istanze internazionali, che la riducono ad atti suicidari sfocianti nell’autodistruzione della loro stessa causa. Invece, come detto, esistono aspetti psicologici decisivi: con la resistenza individuale o collettiva si ripristina l’umanità e la dignità dell’intero popolo palestinese.

Hai appena toccato un punto importante, menzionando l’approccio alla questione a livello internazionale. Nella maggioranza dei discorsi ufficiali e nei media ci si concentra soprattutto, se non esclusivamente, sulle fasi di crisi acuta, come quella attuale, la quale avrà una ripercussione sul lungo periodo che ti prego di evidenziare. Che cosa puoi dirci, inoltre, dei vari livelli, anche quelli silenziosi, psicologici e mentali, in cui opera la guerra a bassa intensità?

Generalmente, ogni colonizzazione ha la necessità di ammazzare un buon numero di colonizzati. Ma, siccome non può ucciderli tutti, tenta almeno di ridurli a vivere come ombre, privi di capacità d’agire, di volontà, d’identità, soprattutto privi d’identità collettiva…

Agli Israeliani torna utile se tu rinunci ad ogni sentimento collettivo, ad ogni volontà di esprimerti. Le due alternative sono la morte fisica – vieni ucciso – o la morte della coscienza, della soggettività. È ciò che succede a lungo termine. Israele esercita il suo controllo sul popolo palestinese per mezzo dell’intimidazione. Ma una crisi come questa arriva quando la gente supera la paura ed affronta la situazione.

Palestinesi intimiditi, sconfitti e ridotti al silenzio non disturbano nessuno, ma se cominciano ad affermare la loro identità, il loro desiderio di liberazione, allora gli Israeliani si sentono molto turbati e reagiscono brutalmente… Una consuetudine perdurante negli anni è, invece, la totale intimidazione dei Palestinesi. Un esempio: quando taluni hanno iniziato a mobilizzarsi, a recarsi a Sheikh Jarrah e alla moschea Al Asqa, hanno ricevuto messaggi per mezzo dello stesso software impiegato per la prevenzione Covid e le relative restrizioni, messaggi del tipo: “Sei stato identificato nei pressi di Al Aqsa, sarai punito”.

Esiste una specie di dicotomia: o tu sei completamente succube e privo di soggettività o allora rischi di morire, perché nella loro follia e nella loro ideologia gli Israeliani ci vedono come barbari e terroristi oppure sottomessi e disumanizzati.

Il primo punto è dunque questa intimidazione permanente, mirante a sopprimere la nostra soggettività.

Il secondo punto, per noi, che siamo sempre impegnati nella resistenza – non solo nei momenti di crisi – riguarda la necessità di uscire dalla posizione di vittime. Spesso, sul piano internazionale ci sono manifestazioni in nostro favore quando il sangue palestinese scorre a fiotti. Lo scontro attuale è però un po’ diverso del solito: i Palestinesi mostrano la loro capacità d’agire e riescono a contrastare le intenzioni israeliane. Il mio appello alla comunità internazionale è di smettere di sostenerci solo per le disgrazie che ci capitano e in quanto vittime, ma di supportare pure la nostra tenacia nel resistere, la volontà di preservare la nostra dignità e la capacità di agire. Quest’appello lo vado ripetendo senza sosta, perché si smetta di vederci solo come terroristi o vittime! Noi non vogliamo essere dei terroristi, vogliamo ritrovare la nostra soggettività, cambiare la situazione, riprenderci la nostra libertà individuale e collettiva.

Per quanto concerne gli effetti a lungo termine dell’occupazione, io li constato continuamente, sia nella mia vita privata, sia nel mio lavoro di psichiatra. L’occupazione ha delle gravi conseguenze traumatiche per i Palestinesi, conseguenze che non corrispondono alla corrente definizione del PTSD (disturbo da stress post-traumatico) nei manuali di psicologia occidentali… Poiché, come ho avuto occasione di affermare più volte, per i Palestinesi le cause oggettive del trauma non sono rimosse, esse sono sempre presenti e peggiorano. Noi siamo permanentemente minacciati, perseguitati, espulsi, incarcerati o massacrati dagli Israeliani… In quest’ottica, la Nakba non è un evento storico passato, ma un processo che continua da oltre 70 anni. Volendo fare un paragone, questo tipo di trauma assomiglia a quello subito da donne o bambini vittime di stupro o di violenza domestica o coniugale, costretti a convivere con i loro aggressori (3).

Il livello di depressione e d’angoscia è molto alto, come pure una diffusa sofferenza sociale… Va però precisato che non bisogna patologizzare troppo rapidamente l’esperienza palestinese, poiché questi disturbi derivano da una realtà oggettiva, cioè dall’occupazione. L’angoscia, la depressione, il lutto possono essere reazioni a fatti gravi, come la perdita di una persona cara, la distruzione della propria casa, casi di violenza…

Io lavoro tra l’altro con Médecins sans frontières, segnatamente nel campo dell’aiuto a persone che hanno subito violenze di tipo politico. L’effetto dell’occupazione non si fa sentire solo a livello individuale, ma si ripercuote sui legami e le relazioni sociali. Senza resistenza, questo stato di cose genera una società che interiorizza il sentimento d’oppressione, sviluppa sfiducia tra i suoi membri, soffre di un basso senso di autostima e fiducia in se stessa.. Le persone competono tra loro per riuscire a farsi curare in un ospedale israeliano, dove c’è più posto… Si tratta di condizioni create dall’occupazione, che distruggono la fiducia collettiva; al punto che qualcuno finisce coll’accettare l’impotenza e la condizione di vittima…

Io penso che la resistenza contribuisca a neutralizzare questi effetti. Da un lato, essa rende almeno un po’ di dignità e fiducia in se stessi, anche quando non riesce a raggiungere i suoi obiettivi… Come dice un proverbio arabo, “La cosa essenziale per l’uomo è di avanzare sulla propria strada, non di raggiungere il traguardo”.

Quindi, per riprendere il discorso sul “calcolo”, io credo che obbedisca ad una logica economica, una logica di business… Un tale discorso non funziona quando si voglia ritrovare giustizia e dignità: occorre allora un calcolo d’altro tipo, un’altra logica, in cui rientra a pieno titolo l’aspetto spirituale, simbolico, psicologico.

Lundimatin è un sito informativo in rete, presente ogni lunedì dal 2014 e pure una rivista cartacea semestrale dal 2017

 

  1. Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in arabo (Porta della Colonna).
  2. Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la “Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune precisioni in merito.
  3. Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
  5. Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39 donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)