Palestina: la resistenza come terapia (2-3)

 

 Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese

Intervista divisa in tre parti.

 

Apparsa su lundimatin   il 17 maggio 2021

 

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico.

In quanto tu stessa abitante di Gerusalemme, puoi illustrarci in che modo ti vedi confrontata con l’occupazione?

Al pari di tutti gli abitanti arabi di Gerusalemme, non sono cittadina di nessun luogo. I miei documenti ufficiali non parlano affatto di cittadinanza. Assomigliano al documento di soggiorno che può richiedere uno straniero residente in Italia. Ciò è già un’importante privazione, che porta a sentirsi permanentemente minacciati…

Inoltre, la maggior parte dei Gerosolimitani è assai povera. Molti di loro non possono vivere in città per questioni economiche e mancanza di spazio… Per noi, continuare a vivere a Gerusalemme è una lotta perenne. Io ho fatto una scelta difficile, per il fatto che, pur continuando a vivere in città ho deciso di non collaborare con le istituzioni israeliane e quindi lavoro in Cisgiordania, il che comporta difficoltà di tipo economico…

Va poi detto che, essendo cresciuta a Gerusalemme ho potuto osservare gli effetti dell’occupazione, per esempio il modo in cui gli uomini vengono umiliati per strada dalla polizia e dai soldati israeliani, che li perquisiscono apposta per offendere la loro virilità. Parlo soprattutto degli uomini, perché vedo che sono i più colpiti nella quotidiana interazione, nelle quotidiani frizioni con l’occupante. Naturalmente, a Gerusalemme ciò può accadere a qualsiasi persona araba….

Alla fine, con la mia famiglia abbiamo deciso di acquistare un appartamento in città. La ricerca è iniziata nel 2003 ed è terminata nel 2021, un periodo che ha consumato molta energia e risorse mie e dei miei genitori.

Del tutto diverso è invece il caso della colonia chiamata Ramat Shlomo, situata nei pressi del nostro quartiere di Shuaffat, la quale s’è enormemente espansa negli ultimi anni. Se si confronta la velocità dello sviluppo edilizio delle colonie israeliane con la mancanza di case per i Palestinesi e gli ostacoli per accedervi, si rimane basiti. Solo noi Gerosolimitani siamo confrontati a ciò giorno dopo giorno oltre a dover affrontare un sacco di restrizioni economiche, giuridiche e amministrative – tutte di natura politica – per il solo desiderio di trovare una casa.

La mia famiglia ha avuto la fortuna di riuscirci, ma il fatto è molto raro. E le generazioni che ci seguiranno, i miei nipoti e le mie nipoti, ad esempio, non avranno più i mezzi per vivere a Gerusalemme. Si pensi, poi, che io lavoro duramente (nell’ambiente della psicologia palestinese mi chiamano “the Shark, lo squalo”! [Samah ride]), svolgo da anni vari impieghi nello stesso tempo, onde mettere qualcosa da parte e garantirmi l’autonomia finanziaria per tutte le ragioni appena elencate…

La colonia di Ramat Shlomo è stata costruita nell’area di Shuaffat in tempi rapidissimi, come ho detto, e s’è estesa al punto da inglobare l’intero quartiere. Che cosa hanno fatto gli Israeliani dopo l’occupazione del 1967? Per prima cosa si sono impossessati del 10% dei terreni della Cisgiordania attigui a Gerusalemme – che considerano la “capitale eterna d’Israele”. In secondo luogo hanno costruito le colonie in modo da frammentare la zona araba, che avrebbe invece dovuto rimanere connessa, creando ulteriori difficoltà di movimento per gli Arabi, cui non è più permesso transitare nei pressi di queste colonie. Tra il mio quartiere di Shuaffat e quello di Sheikh Jarrah, per esempio, ci sono le colonie Ramat Shlomo e Colline Française, un fatto che fa incollerire i Palestinesi di Gerusalemme.

Una delle strategie dell’occupazione è la frammentazione del popolo palestinese, fra gli abitanti della Cisgiordania, i Gazawi, i Gerosolimitani, i Palestinesi del 48, (che l’occupante chiama “arabi israeliani”) ed i Palestinesi della diaspora… In che misura la presente rivolta riesce a sormontare questa divisione? Mi riferisco particolarmente alla partecipazione del Palestinesi del 48 alla protesta, i quali di solito sono meno attivi nella lotta contro l’occupante…

Hai ragione, è vero che Israele ha pianificato contro il nostro popolo un sistema di frammentazione molto efficace. Ma in una fase come questa tale sistema va in crisi ed i Palestinesi serrano i ranghi… è il motivo per cui abbiamo visto Gaza intervenire e rispondere agli attacchi contro i Gerosolimitani, mentre le autorità palestinesi ufficiali non l’ha fatto, sebbene la geopolitica ufficiale consideri Gerusalemme parte della Cisgiordania e l’ANP dovrebbe proteggerla… Nel caso presente, il fatto più importante è comunque l’intervento dei Palestinesi del 48. Penso che la presenza di alcuni di loro quando fu attaccata la grande moschea ha favorito la mobilizzazione di molta gente… Anche perché ciò avvenne poco prima della commemorazione della Nakba, che tocca ferite aperte in molti Palestinesi del 48. Siamo di fronte ad un momento assai importante per la loro ripoliticizzazione. E poi, sì, Israele ha lungamente tentato di neutralizzarli, d’intimidirli fortemente onde impedire loro d’intervenire con efficacia quando in Cisgiordania o a Gaza ci sono scontri. C’erano tante buone intenzioni, ma nessun atto concreto, perché ciò era severamente punito. Conosco parecchi colleghi medici, palestinesi del 48 o di Gerusalemme impiegati nel sistema sanitario israeliano che in questo momento rischiano di perdere il posto per il solo fatto di avere espresso la loro opinione su quanto sta succedendo…

Anche alcuni miei pazienti di Gerusalemme o del 48 che hanno effettivamente perso il lavoro a causa della loro presa di posizione su Facebook o per aver partecipato a manifestazioni; sono in questa posizione da parecchi anni e non possono quindi più lavorare per gli Israeliani, poiché questo implica avere una “attestazione di buona condotta” rilasciata dalla loro polizia!

Ci sono giovani Gerosolimitani impossibilitati di viaggiare all’estero e di ottenere un lavoro per il fatto di avere espresso il loro attivismo una sola volta nella loro vita. Anche questa è una maniera d’intimidire, di ridurre, di ammaestrare, di controllare i comportamenti individuali frequentemente praticata verso i Palestinesi del 48 o di Gerusalemme est: toccarli nella loro esistenza con minacce inerenti il lavoro o i loro mezzi di sussistenza… D’altro canto, in questi giorni nella Palestina dei 48 si assiste ad attacchi fisici diretti d’estrema crudeltà. A Tel Aviv, per esempio, s’è visto un’ottantina d’Israeliani continuare a picchiare un Palestinese che già era a terra e così sfinito da non riuscire ad opporsi alle botte… Un fatto che ha scioccato pure certi Israeliani. Sebbene le autorità tentino di presentare la faccenda come una lite tra giovani, in realtà questi giovani israeliani possono agire in tutta impunità, tanto è vero che alcuni pestaggi sono avvenuti sotto gli occhi di soldati e poliziotti che non sono intervenuti. C’è una palese complicità tra coloni e soldati. Nethanyahu, dal canto suo, da un lato chiede ai militari di portare la calma nella Palestina del 48 e dall’altro assicura loro che non dovranno temere nessuna commissione d’inchiesta… ecco il messaggio comunicato loro! Non è difficile immaginare come lo intrepreteranno i coloni, che si vedono concessa totale impunità di sfogare la loro crudeltà e ferocia.

È pensabile, secondo te, che l’attuale conflitto possa servire a riportare all’ordine del giorno il diritto al ritorno dei Palestinesi? O, più in generale, esiste una loro prospettiva sul piano giuridico?

Sul piano giuridico israeliano no di certo! Perché Israele ha creato un arsenale di mezzi al servizio dell’occupazione. Il suo sistema giuridico è concepito in modo da impedire l’applicazione del diritto internazionale in favore della Palestina, per esempio per implementare l’Accordo di Ginevra, che vieta ad Israele d’insediarsi in un territorio occupato e dichiara illegali le colonie… mentre le leggi israeliane lo permettono. La situazione attuale rimette quindi al centro del discorso quest’aspetto della causa palestinese. Sono stati citati tre fatti: Cheikh Jarrah, la Porta di Damasco e l’attacco alla moschea Al Aqsa. Sono solo tre tappe, tre soglie o gradi di un lento processo costantemente in atto a Gerusalemme, dove la nostra identità è sempre sotto attacco. Si pensi alle leggi, introdotte già da molto tempo, miranti a limitare o ad impedire del tutto il raggruppamento famigliare… Se sei un Palestinese di Gerusalemme che sposa una donna di Ramallah, non puoi portarla a vivere con te in città, mentre se vai a vivere a Ramallah, i tuoi figli non saranno riconosciuti come cittadini di Gerusalemme e non potranno mai venire a viverci.

Come ho già detto prima, i Palestinesi che ci vivono subiscono ogni sorta d’angheria a tutti i livelli e in ogni momento. L’ultima scena è come un risveglio, un appello a tutti noi perché alziamo la testa, ritroviamo la nostra dignità, riprendiamo l’azione politica, ma è pure un richiamo al mondo a vedere quello che succede in Palestina. Questi avvenimenti hanno avuto luogo durante il Ramadan, un mese in cui ci si sarebbe potuto aspettare un po’ più d’attenzione da parte dei musulmani… Perché quando si parla dei fatti di Cheikh Jarrah, o della Porta di Damasco, ad essere presa di mira è l’identità araba e musulmana.

Per ritornare alla tua domanda: sì, il diritto al ritorno è importante, ma il problema è più ampio; ci sono cose più attuali e spinose che noi tutti tentiamo di affrontare. Sai perfettamente anche tu che i fatti del 48 sono successi in un’epoca ancora priva di internet e di tutte le odierne possibilità offerte dalla comunicazione di massa. Oggi ognuno è in grado di sapere. Che Israele possa approfittare dell’impunità per compiere le stesse cose che faceva in Palestina negli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, è un fatto per noi insopportabile, tanto per questa sua impunità quanto per la capitolazione o la complicità internazionale. Gli si lascia mano libera pur assistendo in diretta a quanto succede…. Ma qui non posso non accennare all’oscuramento da parte di Facebook e Instagram, delle testimonianze e delle campagne “Save Cheikh Jarrah”.

Hai appena menzionato la coscienza araba e musulmana, l’identità araba sotto attacco, che dovrebbe risvegliarsi. Ma non pensi che, in una fase come questa, l’appello alla solidarietà internazionale deve superare la differenza tra Arabi e Musulmani (che si ritengono più vicini alla causa palestinese per ragioni politiche, storiche, religiose o altre) e altri popoli o categorie identitarie? Suppongo che in Europa molte persone potrebbero chiedersi come mai ti appelli all’identità araba e musulmana e non in forma più generale all’umano senso di ribellione di fronte a ciò che succede?

Il problema ha varie facce… Non è possibile fare astrazione dell’attacco all’identità araba e musulmana, come non si può negare che si tratti di una guerra etnica contro i Palestinesi. C’è comunque pure una grave violazione dei diritti umani e tutti i popoli che hanno vissuto la colonizzazione sanno esattamente di cosa parlo. Ma, ripeto, non si può eludere la volontà di negazione ed il disprezzo di stampo coloniale, questo disprezzo che Israele esprime per l’identità culturale del nostro popolo, il quale è, di fatto, arabo e musulmano, sebbene potrebbe essere altro.

La situazione di risveglio da me menzionata va vista in contrapposizione al recente avvicinamento a Israele da parte di quattro regimi arabi – il Marocco, il Bahrein, gli Emirati Arabi ed il Sudan. Il pretesto addotto era che tramite i trattati di pace e gli accordi di pace sarebbe possibile normalizzare le relazioni con Israele senza cadere in contraddizione. Così almeno i dirigenti politici hanno tentato di giustificarsi davanti ai loro popoli. I fatti hanno però svelato le loro menzogne. È per questo che insisto sul livello arabo-musulmano. Penso che nessuna colonizzazione può imporsi senza disprezzare, schiacciare, negare l’identità culturale del colonizzato. È precisamente ciò che Israele fa con i Palestinesi e questo fatto non riguarda solo loro, ma tocca tutti coloro che s’identificano nella stessa identità culturale.

Ma sul piano della violazione dei diritti dell’uomo, dell’ingiustizia è chiaro che chiediamo alla solidarietà internazionale di cogliere l’occasione per ampliare l’impegno politico contro questa forma tutta speciale di colonizzazione, che estirpa gli indigeni dalla loro terra per insediarvi estranei. Si tratta di un livello di colonizzazione ben più grande e grave del corrente concetto del fenomeno o di ciò che si definisce con il termine di apartheid.

 

Lundimatin è un sito informativo in rete, presente ogni lunedì dal 2014 e pure una rivista cartacea semestrale dal 2017

 

  1. Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in arabo (Porta della Colonna).
  2. Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la “Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune precisioni in merito.
  3. Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
  5. Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39 donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)