Palestina: la resistenza come terapia (3-3)

Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese

Intervista divisa in tre parti.

Apparsa su lundimatin   il 17 maggio 2021

 

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico.

In molti Paesi occidentali la gente comune non riesce a cogliere la dimensione religiosa e simbolica del conflitto, usata sovente per ridurlo ad una guerra di religione, per suggerire una falsa simmetria e mettere i due contraenti sullo stesso piano o – peggio – per associare i Palestinesi al terrorismo islamico… Ovviamente, non voglio ridurre le cause delle numerose rivolte palestinesi a questa dimensione, ma spiegami qual è il senso simbolico e religioso di Gerusalemme e dei luoghi santi nel conflitto.

Ritorno a ribadire la grande importanza della fede e dell‘aspetto simbolico, ma c’è dell’altro… Gerusalemme per molti suoi abitanti è il loro quartiere, il fulcro della loro vita. Prendiamo la moschea Al Aqsa: essa è molto cara per esempio ai bambini… Io, da piccola ci andavo a fare pic-nic con mia nonna. Quindi per noi è come un foyer, è la nostra casa. Ci sono cose non riducibili alla sola dimensione religiosa e simbolica. È la nostra geografia, il luogo dove siamo cresciuti, tutte cose da non sottovalutare. Ho accennato poc’anzi alla Porta di Damasco: c’è una canzone che ce ne dà un bel quadro, evocando la venditrice di caffè e altri commercianti emblematici, s’intitola Bab Al-Amoud, di Maggie Youssef (4)

Ci fa capire che la Porta di Damasco non ha un mero valore personale, individuale, un legame con talune persone particolari. Essa possiede ai nostri occhi qualcosa di bello e sacro, si riflette nelle nostre canzoni, nei detti popolari, è un riferimento d’obbligo per tutti noi… infine, la sentiamo come un luogo archetipico.

Tutto ciò è parte integrante dell’identità individuale e collettiva palestinese e di altre persone, anche fuori dalla Palestina. E noi, che ben sappiamo come Israele ha rubato la nostra terra e impedisce a molti di accedere a questi nostri luoghi, sentiamo un dovere di responsabilità verso i Gerosolimitani, il dovere di preservare l’identità del luogo, di salvaguardare il suo aspetto storico, simbolico e religioso… Conosco parecchie persone non credenti o non praticanti, persone dediti alla droga, che non frequentano la moschea. Ma che sono accorsi a proteggere Al Aqsa. Partecipano alle manifestazioni, difendono coloro che vanno in moschea a pregare perché si sentono parte della stessa identità culturale. Ci tengo inoltre a dire che quando i Palestinesi mancano di tante cose, quando subiscono fortemente le privazioni, allora il simbolico assume una dimensione più rilevante. Evidentemente, il simbolico è importante per tutti, ma predomina quando ci si vede privati dei diritti essenziali…

Da Gaza sono stati lanciati razzi contro Israele, che ha risposto con bombardamenti che hanno provocato dozzine di morti e centinaia di feriti (5). Lo scontro tende ad essere associato ad altre crisi simili, per esempio a quella del 2014… pare che Nethanyahu ed i dirigenti israeliani siano più a loro agio a gestire questo tipo di conflitto, in termini di comunicazione sul piano internazionale e di politica interna, che l’aspetto del sollevamento della gioventù di Gerusalemme. Dal punto di vista strategico, questa militarizzazione conveniva veramente ai Palestinesi? Mi pare di assistere al tentativo di soffocare e sviare la dimensione insurrezionale, spontanea e popolare della rivolta, la quale per Israele era forse più pericolosa che uno scontro con le organizzazioni armate della resistenza a Gaza.

Questo ci riporta alla questione del calcolo. Ti ho spiegato il perché non sia possibile applicare un calcolo dei rischi del tipo “costi-benefici”, perché siamo in presenza di motivazioni psicologiche importanti. Ma se proprio vogliamo fare questo calcolo, direi che è solo quando Israele ha cominciato ad essere toccato nel vivo che il mondo ha capito la portata di ciò che era successo a Gerusalemme. Fin tanto che c’erano solo scontri quotidiani alla Porta di Damasco o a per Cheikh Jarrah, i media statunitensi, per esempio, vi hanno dedicato ben poco spazio e Instagram e Facebook hanno bloccato la diffusione di testimonianze… Quando i Palestinesi protestavano disarmati, quando le loro manifestazioni popolari venivano represse, quando i soldati israeliani li colpivano alla testa nelle strade di Gerusalemme si rimaneva muti… Fu soltanto quando Israele ha iniziato a subire danni, quando ha dovuto chiudere l’aeroporto di Tel Aviv che i media internazionali si sono svegliati. A quel punto persino l’ONU si è mosso per dare l’impressione di occuparsi della faccenda. Ogni dirigente politico si è sentito obbligato a fare una dichiarazione pubblica. Ormai ci siamo abituati… Penso inoltre che se non ci fosse stato l’intervento di Gaza, i Palestinesi non avrebbero potuto pregare nella grande moschea alla festa dell’Aid, e il tribunale israeliano non avrebbe rimandato la decisione in merito a Cheikh Jarrah, che scadeva il 10 maggio. Allora, Israele può sì reprimere ogni sollevamento popolare ed il mondo continuare a fare come le tre scimmiette, ma quando Israele sente su di sé la pressione della resistenza i riflettori si accendono. Certo, Israele può utilizzare la stessa macchina mediatica, la stessa propaganda per diabolizzare la resistenza a Gaza – l’ha già fatto altre volte – ma non si deve scordare che dopo ogni attacco a Gaza la resistenza palestinese si rafforza, mentre i vari attacchi venivano lanciati con il pretesto di annientarla. D’altro canto, come ho già detto, la resistenza di taluni individui o di qualche gruppo, ristabilisce la coscienza di un collettivo efficace e capace d’agire. Ciò umanizza i Palestinesi, nonostante tutti i discorsi subiti pronti a diabolizzarne la resistenza.

Noi Palestinesi non condividiamo il parere dominante a livello internazionale sulla nostra resistenza. Non possiamo condividerlo perché noi facciamo un’esperienza di prima mano, diretta, nella vita di tutti i giorni. Malgrado tutte le riserve che possiamo addurre in merito alla politica delle varie organizzazioni e fazioni, credo che ci sia consenso per quanto riguarda l’importanza della resistenza, di tutte le forme di resistenza messe in atto dal popolo palestinese. Perché nessuno, né l’ONU, né i regimi arabi o i democratici di tutto il mondo, è in grado di proteggere il nostro popolo, di ricostruirne la dignità e l’umanità; questo compito solo la resistenza in tutte le sue svariate forme può svolgerlo.

A questo proposito voglio ribadire che ritengo valida ogni forma di resistenza. Per un popolo occupato, la resistenza è un diritto umano, oserei dire un dovere. E il quando e il come della scelta dei modi è cosa che compete solo agli stessi Palestinesi. Sta a noi decidere quale forma privilegiare e quando possiamo metterla in pratica.

Ultimamente abbiamo visto taluni paesi arabi normalizzare le loro relazioni con Israele o perlomeno riavvicinarglisi diplomaticamente. È poi stato detto a più riprese che la questione palestinese avesse perso peso. Nell’assenza di un forte sostegno statale, sia ne Paesi arabi che altrove, e di fronte al discredito dei loro governanti, la lotta dei Palestinesi assomiglia sempre più ad un sollevamento popolare, il quale non è interpretabile solo nei termini dell’appartenenza identitaria (araba o islamica), di scontro tra fazioni interne o di rivalità geopolitiche… Paradossalmente ciò potrebbe rivelarsi un vantaggio, di fronte alla superiorità militare di Israele?

Penso che per i Palestinesi ciò sia allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza. Da un lato, la resistenza gode di un sostegno diffuso, non ufficiale, il che impedisce d’imbrigliarla per mezzo della cooptazione, la corruzione o l’intimidazione. Essa saprà sempre rinnovarsi e rinvigorirsi, grazie al suo carattere popolare. È dunque un bene che non si tratti di una resistenza finanziata da alcuni Stati, gli Emirati Arabi, ad esempio, o l’Arabia Saudita, così che non la si può né ricattare né intimidire. Ci saranno sempre forze nuove, dei giovani pronti a tenere testa agli Israeliani, nei campi profughi, nella città vecchia di Gerusalemme, in tutta la Palestina. D’altro canto manca una dirigenza decente, che sappia esprimere le aspettative popolari, sviluppare ulteriormente questa resistenza e cogliere l’occasione per realizzare obiettivi politici…

Tu denunci un’assenza di dirigenza… Nello stesso tempo, se pensiamo a ciò che è successo negli ultimi anni, si vedono un po’ ovunque sollevamenti, rivolte, specialmente prima della crisi del Covid… e la mancanza di una dirigenza capace, cioè la crisi della rappresentanza politica si nota nella maggior parte dei casi. Oggi c’è una sanguinosa repressione in parecchie città della Colombia, che ricorda la serie di rivolte del 2019, a Hong Kong, in Cile, Honduras, Algeria, Iraq, Libano e pure i sollevamenti nei Paesi arabi nel 1911. Più recentemente, ci sono stati i tumulti negli USA dopo l’assassinio di George Floyd. Dappertutto, si è trattato di grandi e diffusi movimenti popolari, che offuscavano i partiti, i gruppi tradizionali, l’appartenenza politica istituzionalizzata o addirittura geopolitica… C’era diffidenza verso la dirigenza, un po’ come ciò che è successo inizialmente in Palestina con il sollevamento di Gerusalemme est e pure all’inizio della Grande Marcia del Ritorno del 2018, che non era inquadrata da un gruppo o da un partito. D’un tratto, sebbene la situazione palestinese sia particolare, non ti sembra che queste somiglianze tra vari tipi di contestazione che sfuggono a ogni forma di direzione, possa fare emergere nuove forme di solidarietà, di risonanze, di nuove prospettive di lotta per i Palestinesi?

Sì, penso che nella lotta palestinese contro l’occupazione si possa riconoscere un carattere universale. La nostra lotta può ispirare molte persone in tutto il mondo e, inversamente, noi possiamo imparare molto dalle lotte di altri popoli colonizzati, occupati o repressi, altri popoli che hanno fatto molti sacrifici per la giustizia e contro l’oppressione. Secondo me, la situazione contemporanea permette soprattutto di poter ricorrere a tali sollevamenti popolari quando non abbiamo una dirigenza politica che faccia proprie le nostre speranze…

La mia critica è rivolta soprattutto ai dirigenti palestinesi ufficiali. Questi non rappresentano le aspettative e la volontà del popolo palestinese; momenti come questo permettono quindi l’emergere di altre opzioni politiche, di altre opportunità, di altri leader più meritevoli di rappresentare i Palestinesi.

Io sostengo che l’occupazione tenti con ogni mezzo di contrastare il processo democratico in Palestina. Israele ha avuto quattro elezioni in meno di un anno e mezzo, eppure ha impedito la prima elezione che da noi doveva tenersi dopo 15 anni. Ecco l’enorme squilibrio tra le due parti.

Che si tratti della scelta dei dirigenti o delle forme di resistenza, i Palestinesi devono essere in grado di decidere… Naturalmente, io sono favorevole alla discussione, al dibattito, alle opzioni riguardanti le forme di resistenza. Ma ciò dev’essere fatto fra Palestinesi, fra tutti i Palestinesi dei vari frammenti geografici creati dall’occupazione e pure fra i Palestinesi della diaspora. Non tocca a capi di Stato stranieri e nemmeno a leader non eletti democraticamente decidere al posto del nostro popolo.

La solidarietà internazionale è comunque molto importante. Voglio dire in particolare agli abitanti di paesi democratici che la loro solidarietà può giovarci molto: può perlomeno contribuire alla sopravvivenza della nostra identità e quindi dare fastidio a Israele, impedirgli di godersi un’occupazione tranquilla. Inoltre, la solidarietà internazionale ha un effetto terapeutico per il nostro trauma collettivo, perché esprime un’affermazione della nostra umanità, della nostra soggettività e capacità di agire, un riconoscimento della nostra esperienza e dei nostri sentimenti. Essa si fa portavoce della nostra narrazione e ci aiuta a liberarci dello statuto di vittime per diventare attori di cambiamento…

Vedendo quello che sta succedendo sotto i nostri occhi, quale sarebbe, per te, il migliore scenario possibile? Come l’immagini tu la liberazione della Palestina?

[Samah ride] Penso che la situazione attuale offra l’occasione di una ripoliticizzazione, sia per i Palestinesi, sia per coloro che ne sostengono la causa. Spero che questa situazione crei imbarazzo ai regimi ufficiali, non solo a quelli arabi, ma in tutto il mondo, a regimi ipocriti che continuano a permettere l’uccisione dei bambini di Gaza solo per confortare la cattiva coscienza europea in relazione ai massacri degli Ebrei commessi sotto il nazismo. Spero che questo mutamento di coscienza costringa Israele a rendere conto dei suoi atti e porti alla modifica dello statu quo, permettendo ai Palestinesi di diventare indipendenti e più liberi. Penso pure che sia arrivato il momento di un rinnovamento politico in Palestina, perché la nostra società non è sterile al punto di accettare la dirigenza attuale… Se la comunità internazionale smette d’intervenire negativamente nell’agenda politica del nostro popolo, questo sarà capace di darsi il personale politico più capace di esprimere il suo desiderio di libertà e di liberazione.

 

  • Lundimatin è un sito informativo in rete, presente ogni lunedì dal 2014 e pure una rivista cartacea semestrale dal 2017

 

  1. Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in arabo (Porta della Colonna).
  2. Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la “Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune precisioni in merito.
  3. Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
  5. Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39 donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)