La storia di Al-Eizariya: la città di Gerusalemme dimenticata dietro le mura

La città di Al-Eizariya è un luogo dimenticato. Un tempo vivace sobborgo di Gerusalemme Est, il destino della città è stato irrevocabilmente cambiato dopo che le autorità israeliane hanno iniziato la costruzione del Muro dell’Apartheid, che separa la città dalla vita stessa.

Fonte: English version
Di Laila Shadid – 10 novembre 2022

Al-Eizariya è senza legge. Letteralmente.

“Niente polizia qui! Nessun israeliano, nessun palestinese!” dice l’autista mentre andiamo ad Al-Eizariya quel primo giorno. Si toglie la cintura di sicurezza e ride.

La polizia è assente da questa città nella misura in cui i giovani uomini si offrono volontari per dirigere il traffico nei giorni di punta: Eid, giovedì pomeriggio e tutti i giorni nelle ore di punta. Indossano giubbotti giallo fluorescente e stanno agli incroci, agitando le mani avanti e indietro come gli omini gonfiabili delle concessionarie di automobili.

Gli automobilisti ignorano le loro suppliche esasperate e avanzano comunque, senza rispettare le precedenze, sfrecciando l’uno accanto all’altro, cambiando corsia senza preavviso, e parcheggiando di traverso sul marciapiede, molti degli autisti sono senza patente.

Ma il traffico è l’ultimo dei problemi di Al-Eizariya.

Un tempo fiorente sobborgo di Gerusalemme, Al-Eizariya godeva di un’economia più stabile e di un facile accesso alla città. Ma nel 2002, il governo israeliano ha iniziato la costruzione del cosiddetto “Muro di Separazione”, noto a molti come il “Muro dell’Apartheid”, e successivamente ha tagliato fuori Al-Eizariya dai suoi mezzi di sussistenza.

Senza un facile accesso a Gerusalemme, i negozi hanno chiuso, il turismo è stato scoraggiato e gli ospedali sono diventati fuori portata.

I bambini e i genitori di Al-Eizariya e della città adiacente, Abu Dis, raccontano la storia di come un muro ha cambiato la loro vita, un muro costruito senza alcuna scadenza, consolidando la temuta permanenza dell’occupazione.

La sua concretezza è intrisa del trauma generazionale dell’occupazione: le esistenze e la vitalità dei palestinesi segnate a causa di una manifestazione fisica dell’Apartheid. Raccontano la storia di un luogo dimenticato dall’altra parte del muro, dove i genitori non possono garantire ai propri figli l’infanzia che immaginano. Eppure ci provano, coraggiosamente.

Un’immagine mostra la città occupata di al-Eizariya, in Cisgiordania, dietro il muro dell’Apartheid israeliano alla periferia di Gerusalemme Est (Getty Images)

Senza il muro, i residenti di Al-Eizariya sarebbero a 10 minuti di cammino dalla Città Santa.

Sulla strada per Al-Eizariya, non si può non vedere Ma’ale Adumim, uno dei più grandi insediamenti illegali della Cisgiordania, il posto di blocco al suo ingresso adornato con bandiere israeliane e i tipici cancelli blindati di un insediamento.

La principale strada commerciale, Jericho road, corre tra Ma’ale Adumim e il muro, ponendo il sobborgo nella stretta morsa dell’occupazione. Al-Eizariya non può espandersi, ma la popolazione continua a crescere rapidamente, indipendentemente dalle sue limitate opportunità di lavoro.

Il muro è posizionato in modo strano, non allineato con la Linea Verde riconosciuta a livello internazionale, il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati prima del 1967.

Il muro è stato strategicamente costruito oltre la Linea Verde, consentendo al governo israeliano di annettere ulteriore terra palestinese. Le citazioni in inglese e arabo coprono molte delle mostruose lastre di cemento:

“Presto tutto sarà magico”.

“Libero è tutto ciò che devi essere, sogna sogni che nessun altro può vedere”.

“Pace sulla Terra”.

E, naturalmente, “Palestina libera”.

Khalil (nome fittizio), co-fondatore e presidente di una scuola materna ed elementare locale e padre di due figli, ricorda quando fu costruito il muro. Khalil è nato nel 1983, poco prima della Prima Intifada, dalla seconda famiglia cristiana di Al-Eizariya. Senza il muro, Khalil è cresciuto tra Gerusalemme e Al-Eizariya, frequentando le scuole della Città Santa.

“Il muro ha distrutto la nostra infanzia”, ​​ha detto, spiegando che ha trasformato Al-Eizariya in una prigione a cielo aperto.

“Andavo in bicicletta a Gerusalemme, correvo, camminavo. Il muro ha reso la nostra vita più misera, le persone più povere e limitato i nostri sogni”.

Prima della costruzione del muro, i palestinesi con carte d’identità verdi della Cisgiordania potevano muoversi più liberamente tra la Cisgiordania e Gerusalemme. Sebbene Israele abbia formalmente proibito ai titolari di documenti di identità della Cisgiordania di entrare a Gerusalemme nel 1993, ciò non è stato applicato rigorosamente fino a dopo la Seconda Intifada (2000-2005) e la costruzione del Muro di Separazione nel 2002. I palestinesi con documenti di identità della Cisgiordania possono entrare a Gerusalemme con un permesso, ma questi sono spesso difficili da ottenere.

Alla madre di Khalil nel 2003, durante la costruzione del Muro, fu diagnosticato un cancro Venne curata con un permesso medico presso l’Ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, noto in arabo come Ospedale Al-Muttala. Ma senza un permesso israeliano, Khalil non poteva essere presente al suo capezzale. Il muro si frapponeva tra lui e la madre morente.

“La realtà è dura,” disse Khalil. “È dura quando tua madre sta morendo e lei è a cinque minuti di distanza ma non puoi raggiungerla”.

Alla fine, le forze di occupazione israeliane accolsero  la sua “lettera di supplica” che chiedeva di visitare la madre prima che morisse, ma era ormai troppo tardi.

“La sua anima mi stava aspettando, ma era morta”. Disse scuotendo la testa. “Questa è un’umiliazione”.

Ora, Khalil è un genitore, e spera di proteggere i suoi figli come la sua stessa famiglia lo ha protetto. Ma, ammette, “Non possiamo salvare i nostri figli se l’oppressore ci sta ancora opprimendo”.

Nadia (nome fittizio), un altro genitore di Al-Eizariya, comprende la lotta per superare le complesse barriere create dal Muro.

A 33 anni, è madre di quattro figli, il più piccolo di 7 anni e il maggiore di 15, e lavora come maestra d’asilo. Prima di ricevere un permesso per lavorare a Gerusalemme, Nadia era l’unico membro della sua famiglia senza accesso a Gerusalemme.

Tre anni fa, la famiglia fu  fermata dalla polizia israeliana a Gerusalemme. Senza un permesso o un documento d’identità, la polizia portò Nadia e suo marito al distretto per essere interrogati, lasciando tutti e quattro i bambini in macchina, soli e in lacrime. La polizia li interrogò per le successive sette ore in stanze separate.

“Dove sei adesso?” chiesero a Nadia, aspettandosi che dicesse “Israele”.

“Palestina”, rispose lei.

A tale risposta, gli agenti di polizia iniziarono a urlare, minacciando di imprigionarla. Fuori, i suoi figli piccoli correvano su e giù per le scale del distretto piangendo, alla ricerca della madre. Finché Nadia non ricevette un permesso di lavoro a Gerusalemme, i suoi figli la supplicarono di non tornare in città senza una documentazione adeguata. Non volevano che la trattenessero di nuovo.

Dalla città vicina, Abu Dis, anche le sorelle Zeinab, 11 anni, e Zara, 15 (nomi fittizi), vedono il Muro come un ostacolo che si frappone tra loro e Gerusalemme. Quando gli è stato chiesto di disegnare la prima cosa che gli veniva in mente quando immaginavano l’occupazione israeliana, entrambe hanno disegnato l’iconica cupola gialla che si trova in cima alla moschea di Al-Aqsa, circondata da soldati, barriere e scene di violenza.

“Il mio disegno mostra la moschea di Al-Aqsa occupata dall’esercito”, ha spiegato Zeinab. “Stanno sparando e uccidendo il popolo palestinese”.

Il primo disegno di Zara mostra un palestinese che cammina per strada, “a cui viene sparato da un soldato israeliano che lo uccide, quindi le persone si radunano intorno a lui e a sua madre in lacrime”.

Nel suo secondo disegno, i soldati circondano la moschea di al-Aqsa con le armi. Essi “calpestano” la bandiera palestinese e al suo posto issano la bandiera israeliana.

Mentre le ragazze vivono ad Abu Dis, la loro famiglia è stata originariamente sfollata dalla città di Abu Ghosh, 10 chilometri a Ovest di Gerusalemme. Si considerano profughi.

Se il Muro venisse demolito domani, disse Zara, la prima cosa che farebbe sarebbe correre da suo padre e dirgli che possono tornare a casa.

 

Laila Shadid è una giornalista del Centro Pulitzer. È anche caporedattrice di Fenjan, il principale giornale dell’Università della Pennsylvania sul Medio Oriente

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org