Un soldato non è un civile

Confondendo il confine tra combattenti e civili, Israele giustifica la sua repressione dei palestinesi e denuncia ogni resistenza ad essa come “terrorismo”.

Fonte: english version
Di Orly Noy – 6 settembre 2022

L’attacco armato ad un autobus di soldati domenica nella Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, ha mosso i giornalisti militari israeliani e i commentatori della sicurezza a precipitarsi nelle redazioni stampa come di consueto. Di conseguenza, tutti hanno usato lo stesso lessico per descrivere quello che è successo: i tiratori palestinesi sono stati definiti in tutti i rapporti come “terroristi” e l’evento stesso come un “attacco terroristico”.

Eppure, nessuno dei rapporti che ho visto sui vari canali menzionava il fatto fondamentale che la sparatoria fosse avvenuta in territorio occupato. I media israeliani evitano di fare l’essenziale distinzione tra un’azione diretta contro i soldati e un’azione diretta contro i civili; proprio come il regime che serve, agli occhi della stragrande maggioranza dei media israeliani non c’è lotta palestinese che non sia intrinsecamente definita terrorismo, armato o disarmato che sia.

Ogni manifestante palestinese è un “rivoltoso” o un “terrorista” e ogni resistenza armata alle invasioni israeliane nelle città della Cisgiordania, che stanno diventando la normalità, quasi sempre di notte, è “terrorismo”. Nel frattempo, Israele sta espandendo costantemente e in modo allarmante l’applicabilità del concetto di terrorismo alla popolazione palestinese. Nell’ultimo decennio abbiamo sentito funzionari israeliani accusare i palestinesi di assurdità come “terrorismo edilizio” e “terrorismo diplomatico”, mentre solo l’anno scorso il Ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che molte delle più importanti organizzazioni della società civile palestinese sono “organizzazioni terroristiche”.

La condotta dei media non è solo poco professionale; è una pericolosa manipolazione della mentalità pubblica, che non sa più distinguere tra terrorismo e legittima opposizione. Eppure, paradossalmente, è proprio questo pubblico, cioè la popolazione civile, ad avere il maggior interesse a preservare questa distinzione, che è riconosciuta e ancorata nel diritto internazionale di guerra.

Forze di sicurezza israeliane sulla scena di una sparatoria contro un autobus sulla Strada 90 nella Valle del Giordano, Cisgiordania occupata, 4 settembre 2022. (Flash90)

Non appena una persona indossa un’uniforme militare, riceve le tutele e i diritti previsti dalle leggi di guerra, come il diritto di usare la violenza, ovviamente entro i limiti di tali leggi. Ma rinunciano anche ad alcune tutele, come diventare un “bersaglio legittimo” nel conflitto armato. Così facendo, il diritto internazionale cerca di segnare chiaramente i limiti della violenza: i combattenti combattono i combattenti, i civili dovrebbero essere esclusi dai conflitti.

Ma parte del problema è che Israele nemmeno riconosce i palestinesi come combattenti. Questa categoria semplicemente non esiste nella mentalità giuridica e politica israeliana, anche quando sono chiaramente classificati come tali, sia come parte di un gruppo armato, che trasportano armi o, in alcuni casi, indossano tute militari.

Quando si tratta della lotta palestinese, Israele si avvantaggia di entrambe le cose: uccide i palestinesi come combattenti, mentre li incarcera come civili, non come prigionieri di guerra, come sancito dal diritto internazionale. Calpestare il diritto internazionale può servire agli obiettivi violenti e bellicosi del regime israeliano, ma al di là della sua illegalità e immoralità, va contro l’interesse dello stesso popolo israeliano.

Inoltre, anche se non è gradito ai commentatori militari, il fatto è che il diritto internazionale riconosce il diritto di un popolo a lottare per la sua libertà, e per “la liberazione dal controllo coloniale, dall’Apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la lotta armata”, come affermato, ad esempio, dalla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani nel 1982 e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1990.

Il modo in cui viene usata la violenza e la forza dovrebbe essere conforme alle leggi di guerra, il cui scopo principale è proteggere i civili non coinvolti da entrambe le parti. Secondo tutti questi standard legali, la sparatoria nella Valle del Giordano è stata un atto di resistenza armata contro una potenza occupante, su una terra occupata.

Militanti palestinesi delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, popolarmente considerate l’ala militare del partito Fatah, in una manifestazione di sostegno ad Halhoul, Cisgiordania occupata, 27 giugno 2021. (Wissam Hashlamoun/Flash90)

Nonostante le svianti tattiche israeliane, aiutate da media compiacenti che fanno semplicemente eco a ogni singola cosa che il regime dice sui palestinesi, i fatti devono essere esposti chiaramente: fintanto che l’occupazione, che è parte integrante del regime di Apartheid israeliano tra il fiume e il mare, continua, continuerà anche la lotta palestinese contro di essa, anche attraverso l’uso delle armi. E il diritto di condurre questa lotta è sancito dal diritto internazionale.

In quanto tale, l’opinione pubblica israeliana ha interesse che questa lotta sia limitata ai combattenti, piuttosto che trascinare i civili, sia israeliani che palestinesi, in un confronto armato. Il diritto internazionale, che Israele ignora clamorosamente, è stato creato proprio per questo scopo.

E se Israele non distingue tra un’azione contro i soldati di occupazione nei Territori Occupati e un’azione diretta contro civili inermi nel cuore di Tel Aviv, perché i palestinesi dovrebbero fare questa distinzione?

Orly Noy è un editore di Local Call, una attivista politica e traduttrice di poesia e prosa persiana. È membro del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. La sua scrittura affronta le linee che si intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, una donna di sinistra, una donna, una migrante temporanea che vive all’interno di un perpetuo immigrato, e il dialogo costante tra loro.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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