L’amore ai tempi del Genocidio

Atti di amore ed eroismo continuano nel mezzo della carneficina israeliana a Gaza.

Fonte: English version

Di Susan Abulhawa – 12 marzo 2024

Immagine di copertina: Una coppia osserva le onde sulla spiaggia vicino a un campo tenda improvvisato per sfollati palestinesi a Rafah, vicino al confine con l’Egitto, nel Sud della Striscia di Gaza, il 24 gennaio 2024 nel mezzo del conflitto in corso tra Israele e il gruppo militante palestinese Hamas. (Foto dell’AFP)

Per settimane nel Sud di Gaza, durante una recente visita, ho raccolto storie di donne ricoverate in ospedale, ognuna di loro lì per riprendersi da quelle che chiamano “ferite di guerra”. Ma non è una guerra, perché solo una parte ha un un vero esercito. Solo una parte è uno Stato dotato di equipaggiamenti militari.

Queste vittime erano madri, mogli e bambini, i cui corpi esili erano stati  trafitti, lacerati, smembrati e bruciati. Le loro ferite più profonde non sono visibili finché non si aprono a parlare della loro vita negli ultimi cinque mesi.

Inizialmente, raccontano gli avvenimenti a grandi linee: una bomba ha colpito le loro case, sono stati estratti dalle macerie, hanno riportato ferite gravi, i membri della famiglia sono stati martirizzati e la situazione era terribile. Questo è quanto hanno detto riguardo agli orrori inimmaginabili che hanno sopportato e continuano a sopportare.

Ma indago sui dettagli. Cosa stavi facendo qualche istante prima? Qual è stata la prima cosa che hai visto, la prima cosa che hai sentito? Che odore aveva? Era notte o giorno?

Li spingo a concentrarsi sulla struttura minuziosa di ogni fatto: la ghiaia in bocca, la polvere nei polmoni; il peso di qualcosa; il liquido caldo che scorre lungo la schiena; il dito torto visto ma non sentito; il momento della consapevolezza; l’attesa di essere soccorsi e la paura che non arrivi nessuno; il ronzio nelle orecchie; gli strani pensieri; le cose che si muovevano e quelle che non potevano muoversi; l’attesa della morte e l’augurio che fosse veloce; il desiderio di vivere.

Nei mesi o nelle settimane trascorsi da quando uno degli eserciti più potenti del mondo ha preso di mira le loro vite, dovevano ancora focalizzare, e ancor meno verbalizzare, le minuzie di questo Genocidio. Mentre si avventurano oltre i contorni delle loro storie, i loro occhi si oscurano e talvolta cominciano a tremare. Il minimo rumore improvviso li spaventa.

La commozione li sopraffae, ma solo pochi si permettono di piangere. Pochi lasciano trasparire gli orrori nelle loro menti. Non è per una qualche forza sovrumana. Piuttosto il contrario. Sono in un certo senso intorpiditi, come se dovessero ancora comprendere l’enormità di ciò che hanno sopportato e continuano a sopportare.

Jamila

Una giovane madre, Jamila (nome di fantasia), ha pianto per la prima volta da quando nell’oscurità ha tenuto il corpo senza vita di suo figlio di sei anni , affondando accidentalmente le dita nel suo cervello. È una delle poche che ha pianto, arrendendosi al ricordo.

La loro famiglia era stata presa di mira dal fuoco dei carri armati, non da un missile. Un drone, forse con sensori sensibili al calore, pensa lei, volteggiava fuori dal loro edificio, e i colpi li seguivano mentre correvano da un lato all’altro del loro appartamento, incapaci di uscire.

Era sicura che qualcuno dietro uno schermo stesse giocando con loro prima di sferrare il colpo finale che aveva trapassato  entrambi i ragazzini e ferìto suo padre. Dopo di che tutto tacque. Il fuoco dei carri armati si era fermato, “come se fossero venuti solo per uccidere il mio amato figlio”, ha detto.

Allora non aveva pianto. Non aveva emesso alcun lamento, in realtà. “Mio marito era preoccupato e mi disse di piangere, ma non lo feci. Non so perché”, disse.

Due settimane più tardi, dopo essere fuggita da un posto all’altro,  mentre si rannicchiavano terrorizzate all’interno di un ospedale che pensavano sarebbe stato sicuro, un soldato israeliano ha sparato a sua figlia Nour, di tre anni, che teneva tra le sue braccia,frantumandole entrambe le sue minuscole gambe .

Quando ho incontrato la piccola Nour, aveva delle barre di metallo che sporgevano dalle piccole gambe, con una lunga cicatrice che correva lungo il polpaccio destro, da dove era uscito il proiettile. I medici l’avevano dimessa giorni prima, ma avevano permesso a lei e a sua madre Jamila di restare ancora qualche giorno finché non fossero riusciti a trovare un rifugio da qualche parte.

Il marito di Jamila, a malapena in grado di camminare a causa delle ferite, vive in una tenda con un gruppo di uomini. Il massimo che riesce a fare è assicurarsi ogni giorno quel poco cibo e acqua  disponibili. È venuto a trovarmi una volta mentre ero lì, dopo essere riuscito a risparmiare 10 Shekel (2,5 euro) per il viaggio e portato un piccolo regalo per sua figlia.

La manifestazione della più piccola intimità fisica tra coniugi è una questione privata a Gaza, ma non c’è intimità in un ospedale dove 40 pazienti e i loro assistenti condividono un’unica stanza, con file di letti stipati da un capo all’altro, con appena lo spazio sufficiente per camminare tra di essi.

Jamila era al settimo cielo per aver trascorso un’ora con suo marito dopo oltre un mese senza averlo visto né sentito (il suo telefono era andato distrutto nel bombardamento). Ma lei mi ha detto poi che le sarebbe piaciuto abbracciarlo, magari anche baciarlo sulla guancia. “Sta soffrendo così tanto”, ha detto, portando sulle sue piccole spalle il proprio dolore e quello di un’intera nazione

Nina

Nina (nome di fantasia) ha un sorriso disarmante e una generosità smisurata. È ansiosa di raccontarmi come ha salvato suo marito dalle grinfie dei soldati israeliani.

Era sposata da appena un anno quando i bombardamenti israeliani vicino alla loro casa si intensificarono. I filmati pubblicati in Rete di alcune di quelle notti sono inimmaginabili. Un esercito di draghi che calpesta e brucia tutto ciò che li circonda, scuotendo  gli edifici, rompendo i vetri, terrorizzando grandi e piccini; tuoni e terremoti, demoni dall’alto e dal basso che si avvicinano.

Il marito di Nina, Hamad (anche il suo è nome di fantasia) aveva  deciso di andarsene insieme a diversi membri della sua famiglia, i suoi genitori, zii, coniugi e figli, e alcuni vicini. Insieme erano circa 75 persone, che si spostavano di città in città, incapaci di trovare un posto sicuro dove stare per più di qualche giorno.

Dopo una settimana dalla partenza, Nina venne a sapere che la sua casa di famiglia era stata bombardata. In un singolo istante, con la pressione di un pulsante di un giovane israeliano di 20 anni,  80 membri della sua famiglia sono stati uccisi: padre, fratelli, zie, zii, cugini, nonni e nipoti.

Inizialmente le fu detto che sua madre era rimasta uccisa, ma fortunatamente si scoprì che era sopravvissuta. Era ferita gravemente e venne trasferita in un ospedale, dove Nina è diventata la sua amata accuditrice. È così che ho conosciuto questa straordinaria giovane donna.

Nina, suo marito e il resto del gruppo alla fine sono riusciti a fermarsi temporaneamente a Gaza Città, da dove si sono spostati lungo i muri di recinzione per raggiungere un rifugio. Sono andati uno alla volta, con la logica che se Israele avesse sparato contro di loro, non sarebbero morti tutti. Perderne uno era meglio che perderne 75 in una volta.

Una persona è stata effettivamente colpita da un cecchino, dopo che quasi la metà di loro ce l’aveva fatta, fermando il gruppo per un po’ finché non hanno trovato nuovamente il coraggio di correre di nuovo, uno alla volta. I bambini venivano divisi tra i genitori. Mezza famiglia uccisa è meglio di tutta. Queste erano le scelte che dovevano fare, non diversamente da “La Scelta di Sophie”, dell’omonimo romanzo di William Styron.

In poco tempo, il loro rifugio era stato circondato da carri armati. Un “quadricottero”, una nuova invenzione del terrorismo israeliano, è volato nelle stanze, sparando proiettili sui muri sopra le loro teste. Tutti urlavano e piangevano, “anche gli uomini”, ha detto Nina. “Mi ha spezzato il cuore vedere gli uomini forti della nostra famiglia rannicchiarsi in quel modoper la paura “.

Alla fine entrarono i soldati. “Almeno 80 di loro”, ha detto. Separarono gli uomini dalle donne e dai bambini, spogliando i primi e lasciandoli seminudi nel mezzo dell’inverno. Le donne e i bambini erano stipati in un piccolo ripostiglio, gli uomini divisi in due stanze. Per tre notti e quattro giorni  hanno sentio le urla dei loro mariti, padri e fratelli che venivano picchiati e torturati nelle altre stanze, finché alla fine i soldati ordinarono alle donne, in un arabo stentato, di prendere i loro figli e di “andare a Sud”.

Tutte le donne obbedirono, tranne Nina. “Non mi importava. Ero pronta a morire, ma non me ne sarei andato senza mio marito”. Corse nelle stanze in cui erano tenuti gli uomini, chiamando il nome di Hamad. Nessuno osava rispondere. Era buio e i soldati la stavano allontanando. Li affrontò mentre ridevano, apparentemente divertiti dalla sua isteria. La chiamavano “pazza”.

Riconobbe i boxer rossi di suo marito nella seconda stanza e corse da lui, togliendogli la benda, baciandolo, abbracciandolo, promettendogli di morire con lui se fosse stato necessario. Si alternava tra maledire i soldati e implorarli di rilasciare suo marito. Alla fine, hanno tagliato le fascette di plastica e lo hanno lasciato andare.

Ma non aveva finito. Mentre Hamad si allontanava, lei è tornata dentro per raccogliere i vestiti per lui e per i suoi zii seduti nudi al freddo. Non sarebbero stati rilasciati per settimane. Alcuni di quegli uomini sarebbero stati giustiziati.

Lei e Hamad sono usciti insieme. Quando finalmente arrivarono in un posto sicuro, si resero conto che la sua gamba era fratturata, i suoi polsi erano tagliati dalle fascette di plastica e sulla schiena gli era stata incisa la Stella di David.

Tra le urla che Nina aveva sentito nei giorni precedenti c’era quella di suo marito, quando un soldato aveva usato un coltello per incidergli il simbolo ebraico sulla schiena.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese e autrice del romanzo di successo internazionale Mornings in Jenin (Mattino a Jenin – Bloomsbury 2010). È anche la fondatrice di Playgrounds for Palestine (Parchi Giochi per la Palestina), una ONG per bambini.

Traduzione di Beniamino Rocchetto  -Invictapalestina.org