Samirah Jarrar Università di Aix-Marseille – 9 juillet 2025
Fonte: CONTRETEMPS
Senza un’analisi critica di questa realtà coloniale, ogni risposta — che sia medica, umanitaria o accademica — rischia di riprodurre i rapporti di potere che l’hanno resa possibile.
Introduzione
Dall’ottobre 2023, la situazione a Gaza viene descritta quasi esclusivamente nei termini di una “catastrofe umanitaria”. I discorsi dominanti — provenienti dai media, dalle organizzazioni internazionali o dalle istituzioni umanitarie — mobilitano soprattutto i registri dell’emergenza, della crisi e del diritto alla sopravvivenza. Sebbene questo approccio possa sembrare legittimo di fronte all’entità delle distruzioni, esso rischia però di normalizzare la violenza e di celarne le cause strutturali e i responsabili. Ridurre Gaza a una zona disastrata equivale spesso a occultare la logica politica che produce questa crisi: quella del colonialismo d’insediamento israeliano.
Senza un’analisi critica di questa realtà coloniale, ogni risposta — che sia medica, umanitaria o accademica — rischia di riprodurre i rapporti di potere che l’hanno resa possibile. Questo articolo propone dunque di reinscrivere la salute in Palestina nella storia lunga storia della dominazione coloniale israeliana, analizzandone gli effetti concreti sulle infrastrutture, le pratiche mediche, i corpi e le soggettività. Si tratta cioè di superare il quadro umanitario per immaginare una politica della cura radicata nella giustizia, nella sovranità e nell’autodeterminazione.
L’impasse della risposta umanitaria
A partire dal 1948, la salute dei palestinesi è rimasta intrappolata nelle violente riconfigurazioni del colonialismo sionista. L’espulsione di circa 800.000 palestinesi — circa il 70% della popolazione della Palestina mandataria — durante la Nakba provocò il crollo delle strutture sociali e istituzionali esistenti. Privati della loro terra, delle istituzioni e della sovranità, i rifugiati palestinesi furono relegati in campi sovraffollati e insalubri, dipendendo dall’aiuto umanitario internazionale. Di fronte a questa catastrofe, fu l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi), creata nel 1949, a prendersi carico di parte della sanità pubblica per i rifugiati palestinesi, missione che continua tuttora, in particolare a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria.
Dal 1967, la salute palestinese fu posta sotto il controllo dell’occupazione israeliana. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, i sistemi sanitari della Cisgiordania e di Gaza passarono sotto amministrazione militare. Per oltre due decenni, soffrirono di un sottofinanziamento cronico, di carenze di personale e di attrezzature, e di una dipendenza forzata dal sistema ospedaliero israeliano. Nel 1975, il bilancio sanitario dell’intera Cisgiordania era inferiore a quello di un solo ospedale israeliano. Questa asimmetria strutturale riflette una logica coloniale che marginalizza i palestinesi rendendoli al contempo dipendenti.
In risposta a questa negligenza sistemica, a partire dagli anni ’70 nacquero delle iniziative sanitarie dal basso: i comitati popolari di salute, in cui le donne svolgevano un ruolo centrale e di guida, e che si svilupparono ulteriormente durante la Prima Intifada (1987–1993). Questa nuova ondata di attivismo sanitario comunitario era caratterizzata da decentralizzazione, volontariato e rifiuto di conformarsi alle normative israeliane. Giovani professionisti urbani, spesso fortemente coinvolti nei comitati popolari locali, erano in prima linea in un movimento volto a rendere l’assistenza sanitaria accessibile nelle aree rurali, utilizzando cliniche mobili e permanenti per educare alla salute e fornire cure primarie. Questi sforzi andavano oltre la medicina curativa e il pronto soccorso per includere prevenzione e formazione medica. I comitati locali si inserivano in un movimento più ampio di resistenza popolare e anticoloniale, fondato sull’autonomia, sul sumud (resistenza e perseveranza sulla terra), sulla sovranità e sull’auto-organizzazione.
Allo stesso tempo, l’amministrazione civile israeliana cercò di integrare un’élite palestinese nelle proprie strutture, reprimendo al contempo le forme autonome di organizzazione della società civile. Negli anni ’80, criminalizzò diversi consigli municipali ritenuti dissidenti e tentò — senza successo — di sostituirli con figure considerate più accomodanti, disposte a cooperare con l’occupante in cambio di risorse e sostegno finanziario: un primo tentativo di instaurare una forma di illusoria auto-amministrazione palestinese sotto controllo israeliano.
Una nuova fase ebbe inizio dopo gli Accordi di Oslo (1993), che ufficialmente avrebbero dovuto portare a uno Stato palestinese indipendente ma che, nella pratica, esacerbarono l’occupazione ed esternalizzarono le responsabilità del regime occupante israeliano all’Autorità Palestinese (AP). Il trasferimento parziale delle competenze sanitarie all’AP segnò l’inizio di un processo di istituzionalizzazione, ma anche di depoliticizzazione: il linguaggio della resistenza e della liberazione fu sostituito da quello dello sviluppo, della buona governance e dei progetti a breve termine. La creazione del Ministero palestinese della Salute fu accompagnata da un afflusso di aiuti internazionali, subordinati alla cooperazione in materia di sicurezza con Israele e a riforme neoliberali sempre più spinte. Molte iniziative militanti furono assorbite dalle ONG, dal nuovo Ministero o da programmi umanitari, svuotati del loro significato politico. La salute divenne un settore strutturato attorno a obiettivi tecnici, manageriali e apolitici, spesso dettati dai donatori internazionali. Questo approccio si basa su una visione paternalista e caritatevole della salute, promuovendo al contempo dei modelli di cura che favoriscono dipendenza e individualizzazione dei bisogni e delle responsabilità sanitarie — in contrasto con la medicina politicizzata dei comitati popolari palestinesi, che mirava a costruire autonomia comunitaria, a trasmettere saperi medici critici e a promuovere pratiche collettive di cura radicate nella giustizia, nella dignità e nella solidarietà.
Questa situazione peggiorò dopo la spaccatura politica del 2007 tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania, che seguì la vittoria elettorale democratica di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Si svilupparono così due sistemi sanitari paralleli, scarsamente coordinati. Oggi, in Cisgiordania, l’assistenza sanitaria è ostacolata dai checkpoint, dalla violenza dei coloni e dalla frammentazione territoriale. A Gaza, il blocco israeliano, aggravato dalle sanzioni internazionali, ha provocato una grave crisi sanitaria: carenze di medicinali, blocchi all’importazione di attrezzature e formazione dei medici impossibilitata. I pazienti spesso devono essere trasferiti in Cisgiordania, a Gerusalemme Est o all’estero – sempre che riescano a ottenere un permesso israeliano. Le ripetute offensive militari su Gaza (2008–2009, 2012, 2014, 2021 e 2023 – in corso) hanno portato alla distruzione degli ospedali, all’uccisione di operatori sanitari e al collasso dell’infrastruttura medica.
Salute e colonialismo di insediamento: un quadro analitico necessario
Per decenni, gli approcci internazionali alla salute in Palestina hanno adottato una lettura depoliticizzata. La salute è stata considerata attraverso indicatori tecnici, dati quantitativi o discorsi umanitari incentrati sull’emergenza, sulla “crisi” e sui diritti umani. Questa prospettiva, ampiamente dominante nelle istituzioni del Nord globale, ha contribuito a nascondere le cause strutturali della sofferenza palestinese. Questa “salute umanitaria” produce una violenza epistemica cancellando le voci palestinesi che chiedono giustizia e liberazione, e consolidando un ordine neoliberale, dove esperti presunti neutrali perpetuano uno status quo coloniale.
Di fronte a tutto ciò, fin dagli anni ’80 è emersa una critica palestinese. Rita Giacaman, pioniera di questa tradizione, ha mostrato come l’occupazione, le restrizioni alla mobilità, la povertà e le violenze plasmino i corpi e le malattie. Giacaman identificò tre registri discorsive dominanti: uno biomedico tecnocratico, un altro nazionalista centrato sull’occupazione coloniale e sul sumud, e un terzo registro, più promettente secondo lei, radicato nelle lotte popolari, femministe e comunitarie. Per Giacaman, la salute non può essere separata dalle strutture di potere interne ed esterne: è necessario combattere al contempo colonialismo, patriarcato e stratificazione sociale e di classe.
Dall’ottobre 2023, un cambiamento è in atto all’interno di questa tradizione critica e dei discorsi sulla salute palestinese. Sempre più ricercatrici e ricercatori adottano la categoria di “colonialismo di insediamento” per analizzarne i determinanti. Questo quadro permette di comprendere la salute non come effetto secondario della guerra o del sottosviluppo, ma come prodotto diretto di un progetto coloniale che mira alla cancellazione del popolo indigeno. La violenza non è solo militare: è anche medica, territoriale, ambientale, psicologica. Colpisce il diritto ai servizi sanitari, ma anche le condizioni di produzione della cura, le reti di solidarietà, l’alimentazione, il rapporto con il corpo.
In questa prospettiva, le disuguaglianze sanitarie tra israeliani e palestinesi non derivano da un “ritardo di sviluppo”, ma da una logica strutturale di spossessamento. Il caso dei beduini del Naqab è emblematico: urbanizzazione forzata, distruzione degli ecosistemi e dieta industriale hanno provocato un’esplosione di diabete. In alcuni villaggi, fino al 70% delle donne adulte ne è colpito. Queste patologie non sono frutto del caso o di “cattive abitudini”, ma di politiche coloniali mirate.
Queste analisi ricordano che il colonialismo ridisegna tanto il corpo politico quanto i corpi biologici: frammentando i territori, negando il diritto al ritorno, distruggendo i legami sociali, rende impossibile una salute collettiva. La lotta per la salute palestinese si unisce così a quella per la liberazione: non si tratta di gestire la crisi, ma di smantellare l’ordine coloniale che la produce.
Salute, eliminazione, controllo ed estrazione coloniale
La salute in Palestina incarna le logiche intrecciate del colonialismo di insediamento israeliano: controllo, sfruttamento, ma soprattutto eliminazione. Quest’ultima è la caratteristica centrale di tale regime, che si fonda sulla sostituzione della popolazione indigena con una società coloniale, implicandone la cancellazione fisica, sociale e politica. In questo modello ibrido di dominio — tra occupazione militare diretta e strutture coloniali più diffuse — la salute diventa uno strumento centrale di potere, ma anche di resistenza.
La logica del controllo si manifesta emblematicamente nel settore sanitario attraverso il sistema dei permessi medici: per accedere a cure vitali (radioterapia, chirurgia specializzata), è necessario ottenere un lasciapassare israeliano, spesso negato o fatto scadere prima della data dell’appuntamento. Alcuni permessi sono subordinati a interrogatori da parte dei servizi segreti israeliani. Un rapporto del 2008 documenta casi di pazienti obbligati a collaborare con l’intelligence israeliana in cambio di un permesso. Altri vengono convocati e poi arrestati. Il sistema sanitario diventa così uno strumento di ricatto, sorveglianza e coercizione politica.
La logica dello sfruttamento si esprime nella monetizzazione dell’accesso alle cure per i palestinesi dei territori occupati del ‘67: lo Stato israeliano fa pagare loro i servizi medici considerandoli “pazienti stranieri” invece di assumersi le proprie responsabilità come potenza occupante. Parallelamente, molti lavoratori sanitari palestinesi sono impiegati in Israele con contratti precari e temporanei, contribuendo al buon funzionamento del sistema israeliano senza goderne i benefici. È un’economia coloniale della cura, in cui i corpi palestinesi sono al tempo stesso forza-lavoro sfruttata e fonte di profitto.
Infine, la logica dell’eliminazione completa questo trittico coloniale: rifiuto di permessi sanitari, blocco di attrezzature mediche essenziali come la radioterapia, mutilazioni sistematiche durante le operazioni militari. L’esposizione cronica alla violenza razzista, ai traumi e all’umiliazione istituzionale genera patologie durature. L’eliminazione agisce anche attraverso blocchi, frammentazione territoriale, distruzione delle terre collettive, negazione dell’accesso alle cure e privazione alimentare. A Gaza, la politica israeliana della “restrizione calorica” mirava esplicitamente a mantenere la popolazione “sull’orlo del collasso”. Ma questi effetti non si limitano ai territori occupati nel 1967: anche i cittadini palestinesi di Israele vivono gravi disuguaglianze sanitarie. Meno cliniche, ospedali sotto-finanziati, lunghe distanze, barriere linguistiche: tutto contribuisce a un accesso più difficile alle cure e a un’aspettativa di vita ridotta.
Oggi, a Gaza, la logica dell’eliminazione rivela la sua natura genocidaria nella sua forma più brutale: distruzione sistematica delle infrastrutture sanitarie, assassinii, incarcerazioni e torture del personale medico, e più in generale l’annientamento di ogni condizione di sopravvivenza e riproduzione della vita.
Reinventare la cura e la solidarietà: resistenza, giustizia e decolonizzazione
Attraverso queste tre logiche, la salute non appare come un settore neutro, ma come uno spazio strategico in cui si gioca la dominazione coloniale. Ma questa medicalizzazione coloniale non resta senza risposta. Nonostante i processi di eliminazione, controllo e sfruttamento, i palestinesi hanno sempre prodotto forme di resistenza medica e contro-pratiche di cura. Oggi, a Gaza, i professionisti della salute continuano a incarnare il sumud: ricostruiscono ospedali dopo ripetute distruzioni, trasformano tende e rifugi in cliniche, e proseguono il loro lavoro di cura malgrado il collasso del sistema sanitario e gli attacchi letali e incessanti di cui sono bersaglio.
Oggi, di fronte alla depoliticizzazione imposta dai paradigmi umanitari e neoliberali, emerge nuovamente un pensiero e una prassi anticoloniale e decoloniale della salute, portata avanti da professionisti, ricercatori e comunità — inclusi palestinesi — che reinscrivono la cura in un orizzonte politico di giustizia, solidarietà internazionale, autonomia e liberazione.
Ascoltare queste voci significa rifiutare la naturalizzazione della violenza, la carità come unica risposta, o la vittimizzazione compassionevole. Significa riconoscere che i palestinesi non sono solo corpi sofferenti, ma soggetti politici, portatori di saperi, pratiche e progetti. Significa aprire percorsi verso una solidarietà fondata non sulla pietà, ma sulla co-resistenza, l’autodifesa sanitaria, la dignità e l’invenzione di forme collettive di vita e di cura.
Ringrazio Taher Labadi, Osama Tanous, Layth Hanbali e Larbi Benyounes per le loro riletture e osservazioni illuminanti.

