Possiamo condividere i minuti e i secondi del mondo, ma la straziante verità è che li viviamo come anni. E nel battito spietato di pochi istanti, la tua stessa esistenza è improvvisamente e nettamente determinata: martire, ferito, disperso o testimone distrutto.
di Israa Alsigaly, The Electronic Intifada 15 Agosto 2025
Dicono che esistano un tempo e un luogo. La mia esperienza mi dice che potresti ritrovarti a vivere in un tempo diverso, semplicemente perché esisti in un luogo diverso.
Ho studiato la teoria della relatività di Einstein a scuola, ma non mi ha mai veramente colpito. Non avrei mai pensato che questo concetto, pieno di equazioni e leggi che ora riesco a malapena a ricordare, avrebbe fatto irruzione nella mia vita.
Ma qui, a Gaza, il tempo è relativo. Non passa e basta, ci attraversa.
Possiamo condividere i minuti e i secondi del mondo, ma la straziante verità è che li viviamo come anni.
E nel battito spietato di pochi istanti, la tua stessa esistenza è improvvisamente e nettamente determinata: martire, ferito, disperso o testimone distrutto.
Il 3 luglio mi sono svegliata di soprassalto, strappata al sonno dal rumore assordante di un bombardamento. Erano da poco passate le 2 del mattino.
Le esplosioni erano incessanti e terribilmente vicine. Ho cercato di dare un senso a quel caos, aspettando un momento di silenzio per elaborare ciò che stava accadendo.
Il mio primo pensiero è stato che fosse il solito momento della distribuzione della farina, quando la gente correva verso i camion degli aiuti. Ma poi, le urla strazianti delle donne hanno infranto quell’idea.
“No, questi non sono aiuti”, ho sussurrato tra me e me.
Le grida dalla strada si facevano più forti, ma non riuscivano ancora a coprire le grida delle donne: “La scuola! La scuola!”
Sono corsa alla finestra che si affacciava sull’ospedale Patient’s Friends Benevolent Society, nel quartiere di al-Rimal a Gaza City, da un appartamento carbonizzato che avevamo affittato. Questo appartamento, che si affacciava sull’ospedale – e dove tutto era carbonizzato a causa degli incendi e del fumo – era diventato la nostra casa temporanea dal nostro settimo sfollamento a causa di questa guerra.
Caos
All’inizio, guardando a sinistra dalla finestra, non vidi nulla nella scuola accanto alla Mustafa Hafez, a soli due minuti di distanza – solo un debole trambusto.
Mi spostai sul balcone che si affacciava direttamente sulla Mustafa Hafez. Fu orribile: fuoco, fumo e le urla di bambini e donne. Si levarono voci in suppliche disperate: “Mamma, mamma!”
“Non ne hanno avuto abbastanza?”
“Per l’amor di Dio, fermatevi!”
Una fragorosa esplosione squarciò il silenzio della notte, seguita immediatamente dalla vista di fuoco e fumo che si levavano nel cielo scuro. Una violenta scossa scosse il terreno.
Udii le grida angosciate dei feriti e i lamenti strazianti dei bambini. “È vivo! Non piangere! Non piangere! Va tutto bene! Mi ha detto di entrare! È vivo, ne sono sicura!”- Una voce di donna, forse per rassicurare chi le stava intorno, forse per rassicurare se stessa.
Erano passati solo due minuti da quando si erano svolte queste scene, e già i sopravvissuti avevano iniziato a portare i loro cari in ospedale.
Ma dopo lo scoppio del genocidio, questo ospedale caritatevole si è concentrato sulla cura di donne incinte e bambini, chiudendo il pronto soccorso perché non ce la faceva. Durante i miei oltre due mesi di sfollamento qui, molti feriti hanno cercato disperatamente aiuto lì, senza successo.
“Aprite la porta!” ha gridato qualcun altro, “Aprite la porta!”-“Portateli ad Al-Shifa”, gli è stato detto.
Non dimenticherò mai, finché vivrò, la vista di persone ferite ed emaciate – le ossa che quasi spuntavano dalla pelle tesa per la fame – che portavano i loro figli feriti. Non smettevano di bussare. Una folla enorme si riversava verso l’ospedale. Era puro caos.
Ma dai cancelli dell’ospedale risuonava sempre lo stesso ritornello: “Portateli ad Al-Shifa”.
I minuti si trasformarono in anni.
Indifesi
Un’ondata dopo l’altra di giovani uomini arrivava, portando i loro cari, con le torce dei cellulari che fendevano l’oscurità. La maggior parte sembrava essersi appena svegliata.
Apparve una ragazzina, con in braccio un bambino terrorizzato, che urlava alla madre sconvolta, la cui mano era tenuta da un altro giovane: “È vivo, non piangere, non piangere, va tutto bene. Mi ha detto di entrare. Vorrei essere rimasta accanto a lui. Sta bene, se Dio vuole!”
Ero sul balcone. Piansi, a lungo e forte, sentendomi completamente impotente. Andai nella stanza accanto e mi fermai alla finestra, guardando il cancello dell’ospedale proprio di fronte all’ingresso del nostro edificio. Alcuni giovani al piano di sotto – alcuni appena tornati da un tentativo di procurarsi cibo nei punti di distribuzione degli aiuti – erano lì, in attesa, riluttanti ad aiutare a trasportare qualcuno.
Un autista di passaggio si rifiutò di caricare una persona ferita, anche dopo che uno dei giovani, con un sacco di farina, lo aveva esortato ad accettare il prezioso cibo come ricompensa. Avrei voluto aiutare qualcuno, tenerlo in vita.
Una ragazza si appoggiava al padre o al fratello e barcollava, con la mano sinistra premuta contro la destra sanguinante mentre percorreva a piedi il tragitto fino all’ospedale Patient’s Friends.
Dopo dieci minuti, finalmente sono iniziate ad arrivare le ambulanze, dirette verso il punto in cui la gente indicava i feriti.
Quattordici minuti dopo l’attacco, è arrivata la protezione civile.
“Prendete i martiri”, hanno detto ai paramedici.
Ricordai mio fratello quando fu ferito alla testa, e l’equipaggio dell’ambulanza gli disse che trasportavano solo martiri. Così lui si mise a camminare.
Erano passati venti minuti dal bombardamento. Sentii i bombardamenti, vidi il fuoco e il fumo, e udii le grida dei feriti, le suppliche delle famiglie dei martiri e il pianto dei bambini.
Ovunque corpi emaciati, con i segni della morte e della distruzione.
La durata effettiva di qualsiasi bombardamento è di pochi secondi. Ma crea ore, giorni e anni di dolore. Alle 2:32 del mattino, la protezione civile spense l’incendio. Alle tre meno venti, la folla tacque. La protezione civile era ancora lì, impegnata a trasportare i feriti e i martiri.
C’erano ancora shock e incredulità per le vittime, i feriti e i dispersi. Il dolore rimaneva mentre coloro che tornavano dalla distribuzione degli aiuti apprendevano la sorte dei loro cari. C’era ancora un ferito in attesa di essere trasportato in ospedale. C’era ancora un martire da identificare. Tredici persone sono state uccise nell’attentato del 3 luglio. Decine sono rimaste ferite. Poi è arrivato un altro giorno.
Il tempo scorre diversamente a Gaza.
Israa Alsigaly è una scrittrice e traduttrice di Gaza
Traduzione a cura di: Nicole Santini
"su questa terra esiste qualcosa per cui vale la pena vivere"
-Mahmoud Darwish- Gli articoli del BLOG Invictapalestina.org
Eventi a noi segnalati: Eventi
Disclaimer: non sempre Invictapalestina condivide le opinioni espresse negli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire e approfondire gli argomenti da noi proposti. I contenuti offerti dal BLOG sono redatti/tradotti gratuitamente con la massima cura/diligenza, Invictapalestina tuttavia, declina ogni responsabilità, diretta e indiretta, nei confronti degli utenti e in generale di qualsiasi terzo, per eventuali imprecisioni, errori, omissioni.

