Marwan Barghouti, Itamar Ben-Gvir, e il bisogno israeliano di umiliare

Il tentativo inscenato da Itamar Ben-Gvir di umiliare Marwan Barghouti ha messo in luce l’impotenza dell’ordine politico palestinese, ma ha anche messo a nudo le insicurezze e le ansie che alimentano il bisogno di Israele di sottomettere pubblicamente i palestinesi.

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di Abdaljawad Omar, 16 Agosto 2025

Itamar Ben-Gvir ha inscenato il suo tentativo di umiliare Marwan Barghouti con la precisione di una scenografia politica. Entrando in prigione, circondato dalle telecamere, il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano ha affrontato il leader palestinese di Fatah incarcerato nella sua cella, minacciando senza mezzi termini che chiunque nuoccia a Israele verrà “annientato”.

La scena è stata poi trasmessa sui social media di Ben-Gvir. Barghouti, scarno ma composto, è apparso sia come prigioniero che come simbolo, e la sua sola presenza ha trasformato il corridoio della prigione in un palcoscenico dove miti e antagonismi nazionali potevano essere messi in scena per il pubblico oltre le mura.

L’incontro si è svolto in un contesto più ampio di umiliazioni avvenute negli ultimi due anni: uomini spogliati e condotti all’arresto, abitanti di Gaza affamati attirati in trappole mortali vicino ai centri di distribuzione degli aiuti, soldati ai posti di blocco che esercitano il loro potere per far aspettare i palestinesi, coloni che linciano i palestinesi in Cisgiordania e prigionieri palestinesi picchiati e violentati.

La visita di Ben-Gvir ha significato consumare il capitale simbolico del confronto, sostenendo la sua personalità politica attraverso il rituale pubblico dell’umiliazione. In questa coreografia, la forza non si misura semplicemente in vittorie ottenute, ma nella vividezza dei nemici sottomessi allo sguardo della telecamera.

Il tentativo di umiliazione, intenzionalmente teatrale, non era diretto al prigioniero, ma alla collettività che rappresenta. L’atto incarnava la duplice logica della degradazione politica: un volto fisso sul bersaglio, riducendolo a un semplice oggetto di scena nella rappresentazione del dominio; l’altro rivolto verso la cerchia del carnefice, alimentando la carica emotiva dello spettacolo.

La stessa logica è alla base delle innumerevoli scene di umiliazione teatrale filmate con esaltazione dai soldati israeliani e condivise e ricondivise con entusiasmo sui social media dai comuni cittadini israeliani dall’ottobre 2023.

Perché, allora, questo bisogno perverso – la compulsione a diffondere immagini di umiliazione e a inscenare la forza attraverso la degradazione – esercita un tale fascino politico tra gli israeliani?

L’economia dell’umiliazione

La risposta sta nell’economia affettiva dell’umiliazione. Non basta che l’atto venga compiuto: deve essere visto, diffuso e riprodotto per riaffermare sia l’immagine di sé del dominatore sia il senso di potere condiviso del pubblico. La performance è inseparabile dall’atto stesso; lo spettacolo trasforma la violenza in narrazione e la narrazione in legittimità. A sua volta, questo può essere convertito in moneta politica.

Il corpo fragile di un leader politico, le grida di coloro che implorano pietà, la violazione dei confini intimi: tutte queste scene diventano cariche affettive che alimentano il senso di dominio del carnefice, assicurando allo stesso tempo allo spettatore israeliano che il potere non è solo esercitato ma mostrato, non solo messo in atto ma condiviso.

Il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir provoca Marwan Barghouti in prigione.

È così che dovrebbero essere interpretate le buffonate di Ben-Gvir. La sua critica principale non è che le carceri non riescano a garantire la sicurezza dello Stato, ma che non riescano a umiliare a sufficienza. Per Ben-Gvir, il regime carcerario israeliano era troppo dignitoso, troppo moderato, troppo poco spettacolare. Ha ripetutamente condannato il servizio penitenziario per quella che considera un’eccessiva indulgenza, arrivando persino a licenziare il capo del servizio penitenziario israeliano nel dicembre 2023, accusandolo di essere “troppo lassista e non abbastanza duro”.

Ha apertamente chiesto misure punitive come la riduzione delle razioni alimentari per i prigionieri palestinesi, definendo la fame una forma di deterrenza e suggerendo in termini grotteschi che sarebbe meglio sparare in testa ai prigionieri piuttosto che garantire loro più cibo. I gruppi per i diritti umani hanno ulteriormente documentato come, sotto la sua guida, siano state sistematicamente introdotte politiche di privazione – riducendo l’accesso a cibo, acqua, cure mediche, igiene e visite legali – accompagnate da umiliazioni simboliche come costringere i detenuti a ridipingere i muri delle prigioni o ad esibirli come trofei. Ha persino celebrato l’istituzione di celle di detenzione sotterranee, progettate per intensificare l’isolamento e il tormento psicologico.

Nella retorica e nella pratica di Ben-Gvir, la prigione – a meno che non sia possibile giustiziare i prigionieri – dovrebbe essere un luogo di costante umiliazione, dove l’efficacia si misura in base alla vividezza della degradazione.

Ciò che Ben-Gvir incarna a livello politico riflette, in forma condensata, una logica più ampia del colono: il bisogno dominante di ricordare a se stesso il proprio dominio. Il dominio, lungi dall’essere un possesso stabile, si rifiuta di consolidarsi; deve essere provato, esibito e rinnovato.

Questo perpetuo bisogno di affermazione tradisce la sua fragilità: il senso di supremazia del colono dipende da un costante ritorno a scene di sottomissione, come se il potere potesse essere verificato solo nel momento in cui viene esercitato sull’altro. Il dominio diventa meno uno stato consolidato che una performance ansiosa, perennemente ossessionata dalla possibilità che, senza la sua infinita messa in scena, possa dissolversi.

È proprio la paura di questa dissoluzione che alimenta il bisogno compulsivo di umiliare, ed è proprio la capacità di umiliare che produce il fugace senso di dominio. Questo doppio legame è ciò che conferisce all’umiliazione la sua forza politica: la fragilità si maschera da forza, e la forza si rinnova attraverso la fragilità.

E la psicologia del dominio diventa una forma di dipendenza. Il colono si guarda intorno: ne hai schiaffeggiato uno oggi? Hai ottenuto la tua dose? L’umiliazione produce un’euforia fugace e un’ondata di certezza che la propria supremazia sia intatta. Ma come ogni droga, l’effetto svanisce rapidamente, lasciando dietro di sé un desiderio intenso.

Ogni atto di degradazione placa temporaneamente l’ansia che la supremazia possa sfuggire, solo per intensificare la dipendenza dalla sua ripetizione. In questo modo, il dominio rivela il suo nucleo patologico: non può sostenersi senza la costante produzione di umiliazioni. Non può riposare se non costringendo l’altro a inginocchiarsi. L’esercizio del potere diventa così meno una questione di sicurezza che di alimentazione di una compulsione – un’insaziabile brama di conferma che corrode la pretesa stessa di permanenza che cerca di sostenere.

Ciò che rende questa patologia così duratura non è solo la dipendenza del colono dall’umiliazione, ma la disponibilità del mondo a fornirla. L’ordine globale fornisce le condizioni in cui questa compulsione può prosperare: il silenzio delle istituzioni che dovrebbero censurare, gli scudi diplomatici che deviano l’assunzione di responsabilità e il flusso infinito di armi e risorse che garantiscono che ogni atto di degrado sia materialmente sottoscritto. Il diritto internazionale è invocato come principio, ma è sospeso nella pratica: l’indignazione è espressa a parole, ma neutralizzata nei fatti.

Questa patologia non è confinata in quarantena all’interno della colonia di coloni: è globalizzata e alimentata dal tacito impegno del mondo nel mantenere una gerarchia in cui alcune vite sono infinitamente violabili. Ciò che appare come un disordine israeliano è, in realtà, un accordo planetario, perché il mondo permette e persino premia la dipendenza dall’umiliazione, purché serva ai suoi allineamenti strategici.

La reazione palestinese 

Ma ci si potrebbe ancora chiedere: che dire degli oggetti di scena? Che dire dei palestinesi che soffrono in questa dinamica? La riduzione dei palestinesi a strumenti di spettacolo e a corpi messi in scena per la degradazione è forse la prova del controllo totale che Israele esercita su di loro? C’è del vero: quando Ben-Gvir è entrato nella cella di uno dei leader più amati della Palestina e membro del Comitato Centrale di Fatah, mirava a umiliare l’ordine politico palestinese.

Che siano intenzionali o meno, il silenzio di Mahmoud Abbas e la passività del Comitato Centrale di Fatah dall’inizio del genocidio – e persino mentre uno dei loro leader più importanti viene esibito come un oggetto di scena nel teatro populista di Ben-Gvir – non fanno che confermare la profondità dell’impotenza. Lo stesso Barghouti potrebbe non aver sentito il dolore dell’umiliazione in quel momento, ma la struttura dell’umiliazione non richiedeva il suo crollo soggettivo, perché non era nemmeno rivolta a lui.

Ben-Gvir ha messo in luce il paradosso di una leadership palestinese che continua a operare all’ombra della cancellazione, coordinando la sicurezza, controllando il proprio popolo e alimentando proprio quel meccanismo che la sminuisce. Ben-Gvir non ha avuto bisogno di inventare lo spettacolo; ha semplicemente amplificato ciò che già esisteva.

Molti palestinesi parlano di questi incontri in modi diversi. Sì, molti di noi si sentono umiliati, spaventati da quanto lontano possa arrivare il sadismo umano. Essere fermati a un posto di blocco e picchiati dai soldati israeliani senza motivo è scioccante. Essere molestati sessualmente dai soldati ai posti di blocco è scioccante. Essere umiliati e trattati come animali è scioccante. Crea traumi profondi, soprattutto per i bambini che Israele arresta e violenta in diversi modi.

Ma non è tutto. Accanto al senso di degradazione si celano strategie di evasione e gesti di scherno. Alcuni raccontano di aver riso dei soldati nel momento stesso in cui venivano picchiati, trasformando i colpi in occasioni per denunciare l’assurdità del potere. Altri descrivono come l’umiliazione diventi routine, inserita nella quotidianità, subita non come un collasso ma come una condizione da gestire, a volte persino manipolare. Queste molteplici risposte rivelano che il teatro dell’umiliazione non segue lo stesso copione: è vissuto e contestato da coloro che ne sono colpiti.

Ricordo una storia, raccontata da due amici circa dieci anni fa, che cattura questa dinamica con dolorosa chiarezza. Erano stati catturati dai soldati israeliani, bendati e ammanettati con le mani legate dietro la schiena, poi ripresi mentre i soldati li picchiavano a turno. Ciò che rimase loro impresso non fu il dolore, ma la strana interazione che ne scaturì: quando uno dei due urlava, l’altro rideva, prendendo in giro l’amico anche mentre soffriva. I soldati si infuriarono sempre di più, incapaci di comprendere perché le loro vittime non prendessero sul serio i pestaggi. Le risate, invece di interrompere la scena, la intensificarono, provocando ulteriori colpi.

Questo momento rivela qualcosa di profondo sulla psicologia dell’umiliazione e sull’instabilità del dominio. La violenza non mira solo a ferire il corpo, ma a garantire un copione in cui il dominato conferma il potere del dominatore. La risata ha sconvolto il copione. Non era la negazione del dolore, ma il rifiuto di lasciare che il dolore diventasse l’unico significato del momento.

In quella risata – per quanto crudele tra amici – l’umiliazione si è spostata; la vittima è diventata sia sofferente che spettatrice, reindirizzando la scena verso l’assurdo. Ci sono molte storie simili, e innumerevoli altre che rimangono non raccontate. E accanto a queste, un’altra domanda sorge spesso quando i coloni esplodono in un’emozione intensa, muovendosi attraverso il paesaggio come se fossero costretti a riaffermare il loro potere attraverso la violenza o le parole. La domanda è ingannevolmente semplice, posta in arabo: shu malhom? — Cosa li ha scatenati? E dietro di essa aleggia la domanda più profonda e inquietante: cosa c’è che non va in loro?

Abdaljawad Omar

Abdaljawad Omar è uno studioso e teorico palestinese il cui lavoro si concentra sulle politiche di resistenza, la decolonizzazione e la lotta palestinese.

Traduzione a cura di: Nicole Santini 
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