Ed è per questo che la Flotilla è fondamentale: non perché rappresenti tutti noi, ma perché costringe la parte ipocrita, ritardataria e distratta del mondo a guardare il genocidio.
Dalia Ismail – 31 agosto 2025
Negli ultimi giorni molte celebrità italiane hanno condiviso dei video in cui dicono di sostenere la Global Sumud Flotilla, postandoli sia sulle loro pagine personali sia su quelle del movimento Global Movement to Gaza Italia. Ho provato fastidio e rabbia per giorni, perché ora tutti cercano di salire sul carro del giusto, giusto in tempo perché la gente si dimentichi del loro silenzio o della loro ambiguità fino a pochi mesi fa.
In questo modo, la maggior parte delle persone li ricorderà come “dalla nostra parte” grazie a questo ultimo periodo e voilà: la classica rimozione collettiva, tipica di ogni volta in cui l’umanità si avvicina alla fine dei crimini più gravi per convincersi di non essere stata complice né problematica.
Questa sensazione è condivisa dai palestinesi e da chi, da anni, ha dato tutto alla causa. Le celebrità ci irritano, ci irrita la loro ipocrisia e quella di chi si sveglia solo grazie a loro.
Ma, siccome il fine ultimo è l’utilità per la Palestina, di fronte alla nostra rabbia dobbiamo fermarci, respirare e chiederci: “questa cosa è utile alla Palestina?”
A chi parlano queste azioni? Di certo non a chi sa già tutto della causa e lotta ogni giorno per alleviare questo disastro, portando sulle spalle il peso del fallimento morale di tutti gli altri.
Noi, che da anni non smettiamo di guardare la Palestina, non abbiamo bisogno di Nina Zilli ed Elisa per sensibilizzarci.
Ma per la maggioranza delle persone non funziona così. La logica è brutale: se una cantante, un doppiatore, un’influencer o un’attrice parla della Global Sumud Flotilla, i loro fan si incuriosiscono, si informano, forse si indignano e forse inizieranno ad essere attivi sul territorio. La loro funzione è solo quella di amplificare il lavoro fatto da chi non ha notorietà. Niente di più. Perché il lavoro vero lo ha fatto chi non è famoso.
Per questo non possiamo giudicare l’utilizzo delle celebrità da parte degli attivisti di Freedom Flotilla Italia dal nostro punto di vista. È uno strumento di pressione mediatica, costruito proprio per spostare chi normalmente preferisce non sapere, o non esporsi, o sapere e non fare nulla più che condividere qualche storia su Instagram.
Poi c’è un’altra questione che ci fa indignare moltissimo: la visibilità mediatica degli attivisti a bordo, soprattutto quelli bianchi occidentali, più che a Gaza stessa. Però l’obiettivo è proprio questo: siccome il mondo è razzista, Israele si fa più problemi ad uccidere gli occidentali. Se fossero stati di qualsiasi altra nazionalità del Sud Globale, Israele non ci penserebbe due volte a farlo nel silenzio mondiale, come quando attaccò la Mavi Marmara nel 2010, dove dieci attivisti turchi vennero uccisi.
Per questo le persone a bordo devono essere famose ed avere un passaporto di un qualsiasi stato del blocco atlantico, ovvero chi sta commettendo il genocidio assieme ad Israele. L’obiettivo della missione è fare pressione sui governi occidentali mettendosi in pericolo, al fine di creare una tensione diplomatica tra Israele e i suoi alleati.
Questa dinamica è razzista. È razzista il fatto che queste persone rischino meno solo per il passaporto che possiedono. È razzista che io, palestinese, che sarei dovuta salire a bordo, non abbia potuto farlo: con un passaporto palestinese sarei stata molto più a rischio. Il rischio non sarebbe stata una semplice detenzione a Tel Aviv per qualche giorno e poi il rimpatrio in Italia, ma il carcere a tempo indefinito insieme ai 10 800 prigionieri politici palestinesi, senza che il mondo occidentale democratico si muovesse per liberarmi.
Per questo non ci sono palestinesi a bordo e può sembrare l’ennesimo esempio di white saviourism: nelle prime file ci sono solo attivisti occidentali, perché i palestinesi rischiano letteralmente la vita. Questo è un problema enorme.
Ma il problema non sono gli attivisti a bordo. È il mondo che è razzista. Il nostro fastidio nasce da un’ingiustizia strutturale che ci colpisce fin dall’infanzia: il razzismo sistemico ci accompagna ovunque. Gli attivisti della Flotilla non hanno responsabilità in questo, dal momento in cui stanno utilizzando il proprio privilegio a favore della causa.
Un altro elemento di fastidio è il comportamento dei giornalisti e dei giornali, che si concentrano sugli attivisti bianchi già famosi, mentre personalità di altre nazionalità del Sud globale non vedono i loro nomi, cognomi e storie riportati, nonostante il giornalismo vero dovrebbe coprire le vicende di chi non ha voce, e non fare intrattenimento o clickbait. Le redazioni sanno che il mondo è razzista e che, di conseguenza, Greta Thunberg, svedese, fa più notizia di Rima Hassan, che, pur essendo palestinese, è francese e quindi fa ancora più notizia di Thiago Ávila, brasiliano, che comunque farà più notizia di Sara Al Saqqa, palestinese di Gaza. I giornali, come abbiamo ampiamente visto in questi due anni di genocidio, hanno bisogno di scoop: la giustizia globale non interessa loro.
Da tempo cerco di proporre ai giornali italiani di permettermi di parlare di Anan Yaeesh, di intervistare il suo avvocato, e la risposta è sempre la stessa: non ci sono novità rilevanti, non vale lo spazio. Hanno bisogno di massacri, delle peggiori atrocità. Il nostro fastidio deriva dal fatto che 5.000 bambini palestinesi massacrati erano “pochi”: ora che ce ne sono 20.000, finalmente i media se ne occupano. Questa è la realtà.
Ma è qui che bisogna essere lucidi, in questo momento. La rabbia che proviamo è reale, politica, collettiva e personale. È il segno di un’ingiustizia strutturale che pesa su ogni palestinese: la cancellazione delle nostre voci, la subordinazione ai passaporti e alla visibilità dei privilegiati.
Tuttavia, non dobbiamo proiettare tutto questo sulla Flotilla stessa. Gli attivisti che salgono a bordo rischiano molto e lo fanno per una ragione precisa: rompere il silenzio internazionale, e questo obiettivo è stato raggiunto.
I nostri sentimenti sono legittimi e nessuno ha il diritto di dirci che “esageriamo” o che non siamo “strategici” a tirarli fuori ora.
Chi si è svegliato pochi mesi fa e ci accusa di essere “esagerati” e “poco strategici” ogni volta che tiriamo fuori il nostro fastidio è un ipocrita che non vuole essere smascherato. La celebrità che, di fronte a un commento critico sul fatto che si è scoperta solidale solo ora, risponde che è una “polemica stupida”, è solo un’ipocrita che non vuole che qualcuno le sbatta in faccia la realtà.
Però non ha senso che noi proiettiamo tutto questo dolore sulla Global Sumud Flotilla e sugli attivisti a bordo.
Il problema è un ordine mondiale che condanna i palestinesi al silenzio e alla marginalità, perfino quando si parla di loro.
Ed è per questo che la Flotilla è fondamentale: non perché rappresenti tutti noi, ma perché costringe la parte ipocrita, ritardataria e distratta del mondo a guardare il genocidio.
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Sono una giornalista e analista indipendente italo-palestinese. Ho scritto per diverse testate italiane e internazionali. Laureata in Relazioni Internazionali, ho conseguito un master di ricerca in Sicurezza Internazionale all’Università di Groninga nei Paesi Bassi. Ho vissuto tra l’Italia e la Palestina per tutta la mia vita, sviluppando una conoscenza di entrambe le culture, mentalità, psicologie e lingue. Questa esperienza ha influenzato significativamente il mio percorso di studi e la mia prospettiva.

