Il miracolo della desalinizzazione israeliana, Santa Claus e altre favole

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Il mito di “far fiorire il deserto” ha celato a lungo l’occupazione israeliana e il degrado delle risorse naturali palestinesi

Susan Abulhawa – Martedì 9 agosto 2016 13:58 UTC

 

Scientific American ha recentemente fatto un servizio sull’industria di desalinizzazione israeliana, descrivendola come un atto miracoloso di ingegno di una piccola nazione, circondata da nazioni arretrate belligeranti.

Per citare il linguaggio romanzato dell’articolo, l’autore si riferisce a Israele come «una civiltà spronata all’azione che ha creato l’acqua dal nulla», mentre a solo pochi chilometri di distanza (l’allusione è in particolare a Siria e Iraq, ma anche ai paesi arabi in generale), «l’acqua è scomparsa e la civiltà è andata in pezzi».

È sorprendente vedere sulle pagine di Scientific American una tale sfacciata promozione dell’eccezionalità di Israele e il risorgere del menzognero mito di “fare fiorire il deserto”. È importante introdurre i fatti, la storia e la realtà in questa narrazione fantastica dell’acqua.

L’autore sostiene sfacciatamente che 900 anni di storia palestinese sono israeliani. In realtà, Israele è un paese che data 68 anni, creato da immigrati ebrei europei che conquistarono la Palestina, espulsero la maggior parte della popolazione autoctona e rivendicarono per sé tutti i terreni, le fattorie, le case, le aziende, le biblioteche e le risorse.

Oltre all’appropriazione gratuita della storia palestinese, l’articolo non fornisce alcun contesto storico del clima, delle precipitazioni e delle risorse idriche naturali, dando l’impressione di una terra inospitale e naturalmente arida.

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Impianto di desalinizzazione di Sorek . Credit: Photo courtesy of IDE Technologies.

In realtà, storicamente, il nord della Palestina vantava un clima mediterraneo, con estati calde e secche, e precipitazioni abbondanti in inverno. E le precipitazioni a Ramallah sono superiori a quelle di Londra, così come quelle a Gerusalemme.

La metà meridionale della Palestina diventa deserto intorno ai territori di Beersheba, dove il deserto Naqab si espande fino alla punta della Palestina. Quando è stato fondato Israele, i palestinesi coltivavano in modo sostenibile il 30% del loro paese. Escludendo Beersheba, la percentuale sale a una media del 43%, raggiungendo il livello del 71% a Gaza.

 

La gestione dell’acqua al servizio del colonialismo

Il regime idrico israeliano funziona in modo sinergico all’interno di un contesto più ampio di esclusiva ebraica e di negazione palestinese. Separare i due aspetti della discussione è ipocrita, dal momento che gran parte della crisi idrica attuale è direttamente e indirettamente imputabile al fatto che il sionismo ha revocato quell’organizzazione sostenibile del territorio e dell’agricoltura, creata dagli autoctoni.

Nel suo primo anno di fondazione, la deviazione israeliana dell’acqua di fiumi e affluenti cominciò davvero, e forzò la natura con variazioni innaturali per soddisfare una ideologia in contrasto con il territorio locale.

Ignorando l’incompatibilità ecologica di piantare colture estranee ad alta intensità di acqua per alimentare i palati europei e irrigando il deserto rubando l’acqua dei vicini, degli abitanti locali e della biodiversità locale, con il sovra-pompaggio e la sottrazione di acqua per servire gli insediamenti sionisti con standard europei insostenibili, si posero le basi che causarono un gran numero di disastri ambientali in tutta la Palestina.

Ad esempio, anche se Israele avesse diffuso una percezione di pratiche agricole di ebrei ingegnosi (attraverso narrazioni di eccezionalismo ebraico simili a quelle utilizzate nell’articolo di Scientific American), l’agricoltura israeliana sarebbe stata in realtà distruttiva per l’equilibrio ecologico della Palestina. Con l’80% di acqua disponibile utilizzata in agricoltura, che ha contribuito a meno del 3 per cento dell’economia israeliana, Israele ha continuato a sfruttare le risorse idriche per promuovere il sistema coloniale sionista, una contraddizione ecologica per l’ambiente locale.

 

Privare i palestinesi della loro acqua

Contemporaneamente alla colonizzazione avanza la negazione e l’esclusione della società palestinese nativa. Con il furto su larga scala della ricchezza e dei beni palestinesi, Israele ha iniziato la distruzione della vita palestinese, in cui era fondamentale l’agricoltura, che dipendeva da colture non irrigue come quella degli ulivi.
Schermata 2016-08-10 alle 15.05.13.pngInoltre, il controllo totale di Israele su tutta l’acqua della Palestina gli ha permesso di mantenere i palestinesi assetati e in ginocchio. La distribuzione iniqua e razzista dell’acqua è stata ampiamente documentata nei rapporti severi stesi da organizzazioni locali e internazionali.

L’articolo [pubblicato da Scientific American] afferma che Israele fornisce l’acqua ai palestinesi, ignorando in primo luogo il fatto fondamentale che l’acqua appartiene ai palestinesi. L’acqua dolce è pompata da una falda acquifera di montagna sotto villaggi palestinesi e i territori per rifornire gli insediamenti israeliani. Una piccola frazione di questa acqua viene poi rivenduta ai palestinesi, in genere a prezzi molto più alti rispetto a quelli praticati alle colonie ebraiche della stessa zona.

Mentre i coloni ebrei consumano una quantità d’acqua cinque volte maggiore, godendo di prati verdeggianti e piscine private, l’accesso dei palestinesi all’acqua è variabile, a volte discontinuo per settimane o mesi, o negato del tutto. Non è raro che interi villaggi si trovino senza acqua potabile, per non menzionare ciò che questo significa per l’agricoltura palestinese.

 

Appropriarsi delle acque di superficie

Uno sguardo alla gestione delle acque di superficie fornisce ulteriore esempio della distruzione di Israele del potenziale idraulico della Palestina. Il fiume Al Auja, che Israele ha ribattezzato Yarkon, era un fiume costiero ricco di acque, con una grande varietà di pesci e di specie animali, alcune delle quali non esistono in nessun altro luogo.

Gli abitanti del villaggio palestinese di Ras al-Ayn, dove ha la sua sorgente, in una guida del 1891 lo hanno descritto come «un fiume prospero che scorre a zig zag fino a buttarsi in mare… la sua forza fa girare le pale dei mulini e vi si pescano piccoli pesci». In solo un decennio di gestione israeliana dell’acqua della Palestina, questo fiume che dava la vita è stato ridotto a un rivolo di acque reflue, le sue acque dirottate e sostituite con un fango tossico di sostanze inquinanti industriali e domestiche che, nel 1997, ha corroso i polmoni e gli organi vitali di un atleta in gara ai Maccabiah Games, caduto nel fiume a seguito del crollo di un ponte.

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Uno dei primi progetti idrici di Israele quando conquistò l’accesso al Giordano, è stato quello di iniziare a portare l’acqua lontano dai suoi vicini, spingendo la Siria e la Giordania a seguire il suo esempio e a conservare la propria quota di acqua regionale. Decenni più tardi, i livelli d’acqua sono così bassi che il fiume Giordano non può più ricostituire il Mar Morto. I livelli dell’acqua in diminuzione, insieme con i «bacini di evaporazione» di Israele per estrarre minerali ed altre attività industriali hanno creato un disastro ambientale mai visto prima in Palestina.

Negli anni Cinquanta Israele prosciugò le paludi della Huleh in Palestina, un tesoro di biodiversità del Vicino Oriente, per stabilirvi insediamenti ebraici. Centinaia di questi progetti coloniali hanno gravemente compromesso la ricca diversità biologica e geografica che ha prosperato in questo terreno, crocevia di tre continenti.

 

Un miracolo israeliano?

Così, ignorando quanto il sionismo abbia degradato l’ambiente della Palestina e il ruolo fondamentale di Israele nella genesi della crisi idrica in corso, l’articolo di Scientific American pone le basi per spiegare il miracolo di questa fornitura apparentemente illimitata e non invasiva di acqua dolce a basso costo. Francamente, questo racconto appartiene a miti come «una terra senza popolo per un popolo senza terra» e Babbo Natale, le sue renne e la fabbrica dei giocattoli al Polo Nord.

Per quanto la desalinizzazione offra effettivamente molti vantaggi, non è per nulla miracolosa né è un’eccezione in Medio Oriente, dove simili sfide sono state vinte nei paesi del Golfo che per qualche tempo hanno impiegato tecniche di dissalazione.

Da quest’esperienza come da altre, sappiamo che la desalinizzazione comporta costi elevati per l’ambiente e gravi rischi per la salute, compresi i sottoprodotti dell’inquinamento e gas a effetto serra. Non è chiaro se il costo propagandato di 0,58 centesimi di dollaro per metro cubo di acqua include il costo dell’inquinamento o il costo di ampie fasce di prezioso terreno costiero che deve essere utilizzato per le infrastrutture di dissalazione. Né vi era alcuna menzione della devastazione nota e prevedibile arrecata alla vita marina locale in seguito alle alterazioni fisiche e chimiche dell’ambiente conseguenti ai processi di desalinizzazione.

 

Report onesto.

Negli ultimi vent’anni gli ambientalisti israeliani hanno lavorato per sensibilizzare la loro società sulla portata della loro distruzione del mondo naturale locale, e i loro sforzi, così come la legislazione e i decreti, hanno iniziato a mitigare alcuni degli effetti deleteri della conquista israeliana, degli insediamenti e delle pesanti alterazioni ambientali.

Non è un recupero facile, tuttavia, per come le politiche israeliane, sostenute dalla politica coloniale, hanno quasi cancellato l’organizzazione sostenibile della cultura palestinese e l’ecologia nativa.

È irresponsabile e disonesto continuare a diffondere il mito romanzato dell’eccellenza israeliana come brillante, scelta per guidare e ispirare. La cosa intelligente da fare è smascherare coraggiosamente i fallimenti economici, ambientali e sociali di Israele, l’orribile distruzione della società autoctona, umana e non.

Scientific American farebbe meglio a fornirci inchieste incisive e resoconti onesti sulla pletora di sfide ambientali cui deve far fronte l’umanità, soprattutto in Medio Oriente, in un’epoca in cui l’inquinamento e le dimensioni della popolazione han raggiunto proporzioni inaudite, caratterizzata da guerre incomprensibili e diminuzione delle risorse invece di promuovere la favoletta di uno stato di coloni che si autoincensa.

Trad. Marina S. – Invictapalestina.org

Fonte: http://www.middleeasteye.net/columns/israeli-desalinisation-fairy-tale-palestinian-natural-resources-zionism-colonialism-pollution-dead-sea-water-833420376

 

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Susan Abulhawa è una scrittrice palestino-americana, autrice di bestseller.

I pareri espressi in questo articolo sono dell’autrice e non necessariamente riflettono la politica editoriale della testata che li ospita.

 

 

 

 

 

 

 

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