La pace, per essere tale, deve essere libera, giusta, fondata sul riconoscimento reciproco della dignità e dei diritti umani. Se è ottenuta con la forza, sotto minaccia, in cambio della rinuncia a libertà fondamentali — non è pace, è sottomissione.
di Valentina Marroni, 13 ottobre 2025
È una tregua imposta, un accordo diseguale, una violenza che cambia forma ma non sostanza. Chiamarla “pace” è un tentativo di legittimare ciò che è, in realtà, una perpetuazione dell’oppressione con altri mezzi. In psicologia, si parlerebbe di una falsa riconciliazione: una quiete apparente che serve solo a evitare conflitti visibili, mentre il trauma e l’ingiustizia restano irrisolti.
E sconvolgente in modo psicologico dover assistere a una scena in cui un popolo, già devastato, viene costretto a negoziare la fine del proprio annientamento. La parola “negoziare”, in questo contesto, non suona come uno strumento di diplomazia, ma come un atto perverso: come si può contrattare per smettere di morire?
Immaginiamo di applicare lo stesso concetto all’Olocausto:
sarebbe come se, nel 1944, avessimo chiesto agli ebrei nei campi di concentramento di firmare un accordo con i loro aguzzini, rinunciando alla propria dignità, alla terra, alla memoria, in cambio della possibilità di non essere più sterminati. Sarebbe stato impensabile, inaccettabile eppure oggi, nel caso palestinese, accade.
Non si tratta di un piano di pace: si tratta di un ricatto travestito da diplomazia. La psicologia collettiva di un popolo che si vede costretto a mendicare ciò che dovrebbe essergli garantito – il diritto alla vita, alla libertà, alla giustizia – è gravemente compromessa.
Quando la legge internazionale diventa inapplicabile per alcuni, ma sacra per altri, si crea un trauma globale. Il messaggio che passa è devastante: alcuni dolori valgono più di altri, alcune vite più di altre.
Ecco il cuore del paradosso:
⁃ Non è una pace ciò che richiede la resa sotto minaccia.
⁃ Non è giustizia ciò che nasce dallo squilibrio del potere.
⁃ Non e libertà ciò che viene concesso a patto di rinunciare ai propri diritti fondamentali.
Questo piano di pace non è altro che una ratifica dell’oppressione, mascherata da diplomazia. È la negazione della verità storica in corso, è la silenziosa accettazione di una disumanizzazione sistemica. E ciò che è più pericoloso è che, nel celebrarlo, il mondo non solo chiude gli occhi davanti al genocidio, ma ne diventa complice.

