ISRAELIANI A GERICO. RABBIA A GAZA 15/3/06

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Operazione militare contro la prigione della cittadina palestinese conclusa in nove ore. Ma il prezzo politico è pesante

Mercoledì 15 Marzo 2006- Paola Caridi
Carriarmati, blindati, molti soldati, e l’appoggio dal cielo di elicotteri e caccia. Di prima mattina, l’esercito israeliano ha rotto, ieri, la calma relativa di Gerico, la cittadina palestinese in riva al Mar Morto, al confine tra Israele e Giordania, tappa ineludibile dei pellegrinaggi in Terrasanta. Entrando in città e dirigendosi verso la prigione.
Obiettivo di una operazione militare che doveva essere veloce: circondare l’edificio e arrestare sei prigionieri, detenuti sotto il controllo di un gruppo di osservatori americani e britannici. Ahmed Saadat, il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e assieme a lui altri quattro esponenti del partito marxista, e Fuad Shubaki, di Fatah. Mentre Shubaki è accusato dagli israeliani di aver progettato il carico di armi della Latrina A, la nave intercettata al largo di Gaza nel 2002, i cinque dell’FPLP sono sospettati dell’omicidio nel 2001 a Gerusalemme di Rehavam Zeevi, ministro del turismo ed esponente della destra israeliana, in risposta all’uccisione, da parte israeliana, di Abu Ali Mustafa, il predecessore di Saadat.
Il raid, però, si è trasformato subito in un assedio difficile e sanguinoso, conclusosi solo dopo nove ore, quando era già sera, con la resa di Saadat e degli altri cinque palestinesi che gli israeliani hanno condotto nelle loro prigioni. In attesa di processo.
La rabbia palestinese si è subito irraggiata alle altre città della Cisgiordania sino a sud, alla Striscia di Gaza. Dove si sono concentrati gli attacchi contro gli occidentali, in risposta alla decisione presa dagli osservatori americani e britannici di abbandonare la prigione di Gerico, dove erano dal 2002 in virtù di un accordo tra israeliani e palestinesi. Il vuoto lasciato dagli osservatori ha subito consentito agli israeliani di intervenire, e a Gaza come a Nablus e a Jenin ha scatenato l’ira di gruppi armati di palestinesi, che hanno sequestrato (spesso solo per poche ore) gli stranieri che si trovavano in zona.
A rendere la situazione ancor più incandescente è stato il fatto che il raid israeliano ha incontrato difficoltà impreviste. Il gruppo di Saadat, infatti, non è uscito quando gli ufficiali dell’esercito hanno ordinato con gli altoparlanti ai prigionieri (oltre duecento) di uscire e di arrendersi. E a nulla sono valsi i primi attacchi, dal fuoco di armi automatiche ai colpi sparati dai carriarmati e, in seguito, l’intervento di un bulldozer che ha buttato giù un muro dell’edificio, causando la morte di un poliziotto palestinese di guardia al carcere.
Ad arrendersi, mano a mano, sono stati gli altri detenuti, quelli comuni. Costretti poi a spogliarsi e a rimanere in mutande davanti ai soldati israeliani. Saadat e gli altri cinque, invece, si sono barricati nell’edificio. E lo stesso Saadat, eletto deputato nelle consultazioni politiche palestinesi dello scorso 25 gennaio, ha detto in diretta tv al telefono con Al Jazeera che non si sarebbe arreso. Piuttosto, avrebbe affrontato il suo destino.
Poi, nel pomeriggio, lo stallo. E il fallito tentativo di Yossi Beilin, fautore dell’iniziativa di pace di Ginevra, di mediare tra il governo Olmert e Mahmoud Abbas. Abu Mazen aveva promesso di mantenere in prigione tutto il gruppo dei sei, sconfessando in sostanza le sue dichiarazioni di queste ultime settimane, in cui il presidente dell’ANP aveva detto che Saadat e gli altri sarebbero stati liberati. Erano state proprio queste dichiarazioni a preoccupare Israele e a far partire l’ordine, arrivato direttamente dal premier Ehud Olmert e dal ministro della difesa Shaul Mofaz, di attaccare la prigione di Gerico. Un quarto d’ora dopo la partenza della pattuglia di osservatori angloamericani.
La situazione si è sbloccata solo nel tardo pomeriggio, quando una fila di detenuti – con le mani sopra la testa – è uscita dall’edificio ormai semidistrutto. L’FPLP, però, minaccia ritorsioni contro Israele. Mentre Abbas getta la responsabilità non solo sul governo Olmert, ma anche su americani e inglesi. Accusa, questa, ribadita anche dalla Lega Araba, col suo segretario Amr Moussa. Mentre Ismail Hanyeh, il premier palestinese incaricato e leader di Hamas, accusa Olmert di aver usato il raid contro la prigione di Gerico come un’arma elettorale, a due settimane dall’apertura delle urne in Israele.

E A GAZA SCOPPIA LA RABBIA PALESTINESE

Da Gerico a Gaza. La rabbia dei palestinesi supera la depressione del Mar Morto, sale su a Nablus e Jenin, percorre Ramallah, Betlemme, Hebron. E si esprime con tutta la sua forza a Gaza. Dove, per gli occidentali, è decisamente una brutta giornata. Appena arrivano le notizie dell’assedio della prigione di Gerico, l’ira si sfoga contro il primo bersaglio britannico: il British Council, dato alle fiamme e gravemente danneggiato. Destino migliore avrà il British Council di Ramallah, dove la protesta di giovanissimi palestinesi sul tetto sarà moderata. Poi è la volta della redazione della tv tedesca ARD, di un ufficio legato agli americani, di una sede dell’Unione Europea già vuota.
Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa danno ad americani e inglesi due ore per lasciare i Territori. Infine, iniziano i sequestri, da parte di gruppi diversi, non sempre identificabili. Due donne di Médécins du Monde, due giornalisti sudcoreani, e nel tardo pomeriggio arriva anche la notizia del rapimento di una giornalista e un fotografo francesi, a Gaza per la rivista Elle. Sequestrati e subito rilasciati due insegnanti australiani, mentre un funzionario svizzero della Croce Rossa Internazionale rimarrà in mano a ignoti rapitori per alcune ore. Breve anche il sequestro di un professore americano che insegna a Jenin, e che farà però in tempo a essere filmato da un’agenzia internazionale in mano ai rapitori.
La Striscia di Gaza, già dalla mattina, diventa insicura per tutti gli occidentali. Anche per chi, alla vita difficile della zona, ci è abituato perché – questo è il mestiere di chi arriva dall’Europa e dagli Stati Uniti – a Gaza si va per fare volontariato. Per l’Onu o per le organizzazioni non governative. Ieri, però, la situazione era diversa. Lo hanno confermato i sei cooperanti italiani che sono stati prima portati in un luogo sicuro, e che ieri sera erano in viaggio verso Gerusalemme. Polemiche, però, le loro dichiarazioni contro la Farnesina, che voleva rimpatriarli subito attraverso il valico meridionale di Rafah, mentre tutti gli altri stranieri sono rientrati attraverso il valico di Erez, scortati dalle forze di sicurezza palestinesi per tutto il viaggio dentro la Striscia, a Gerusalemme e Tel Aviv, in attesa che si calmino le acque. Molti stranieri, quando è cominciato il tam tam dei sequestri da parte di gruppi armati, hanno chiesto la protezione dei servizi di sicurezza preventiva palestinesi.
Chiuso in anticipo anche il valico di Rafah, che unisce la Striscia con l’Egitto, e che è controllato da un gruppo di osservatori dell’Unione Europea, al comando del generale dei carabinieri Piero Pistolese. Il valico dovrebbe riaprire oggi, ma il condizionale è d’obbligo. Le organizzazioni internazionali, Croce Rossa esclusa, hanno comunque deciso di ritirare solo temporaneamente il proprio staff straniero dalla Cisgiordania e da Gaza, per questioni di sicurezza.
Immediata la reazione delle Nazioni Unite, con il segretario generale Kofi Annan, che ha chiesto la liberazione di tutti i rapiti. Mentre Abu Mazen ha interrotto il suo viaggio in Europa per tornare immediatamente in Palestina.

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