L’approccio “apolitico” alla crisi dell’acqua in Palestina (Prima parte)

Attualmente Israele utilizza l’85% delle risorse idriche condivise della Cisgiordania, lasciando i palestinesi a bocca asciutta.

30 luglio 2017, Muna Dajani

Quadro generale

All’inizio di questo mese Israele e l’Autorità palestinese (AP) hanno annunciato un nuovo accordo: Israele venderà ai palestinesi 33 milioni di metri cubi all’anno di acqua desalinizzata del Mar Rosso , 10 milioni di metri cubi saranno trasferiti nella Striscia di Gaza, il resto in Cisgiordania.

L’accordo maschera il fatto che la Palestina sta attraversando una crisi artificiale dell’acqua , piuttosto che naturale. I funzionari governativi, la comunità internazionale, le agenzie donatrici e persino la letteratura accademica ritraggono la mancanza di risorse idriche della Palestina come una conseguenza scontata – il risultato delle condizioni climatiche della regione. Ciò che queste narrazioni non riescono ad affrontare è che la scarsità dell’acqua della Palestina è una elaborazione sociale e politica che nasconde come Israele intensifica la sua egemonia sulle risorse idriche, con conseguente grave disuguaglianza nella distribuzione di acqua per i palestinesi.

Per decenni Israele ha proposto soluzioni tecnologiche per affrontare questa scarsità, come ad esempio impianti di desalinizzazione e trattamento e riutilizzo delle acque reflue. I donatori internazionali hanno svolto un ruolo importante nel rafforzare l’approccio di Israele. Queste soluzioni sono legate alla convinzione che la scienza, la tecnologia e le infrastrutture assicurino che l’acqua non sia più fonte di contesa, di conflitti e persino di guerra. Ma queste soluzioni guidate tecnologicamente trascurano gli elementi sociali, politici e culturali dell’acqua.

Questo non significa che i progressi tecnologici riferiti all’acqua non siano essenziali per lo sviluppo delle società. Infatti, l’utilizzo di fonti di acqua supplementari e’ necessario per sostenere popoli in crescita, in particolare a fronte degli effetti del cambiamento climatico.

Ma nel caso di Israele e Palestina tali tecnologie integrano motivazioni politiche finalizzate. Infatti, dobbiamo chiederci: come Israele si avvantaggia di questi progressi tecnologici pur mantenendo il suo controllo coercitivo sull’acqua della Cisgiordania, per non parlare della sua responsabilità per la crisi idrica nella Striscia di Gaza? I Palestinesi possono contare sul potenziale della tecnologia per aumentare la disponibilità di acqua nel contesto dell’occupazione?

Questo breve documento esamina come, in effetti, le innovazioni tecnologiche di Israele operano in un contesto di furto sistematico delle risorse idriche che indebolisce gli sforzi palestinesi per ottenere il diritto all’acqua e la ripartizione equa delle fonti idriche. Esso si concentra in particolare sul ruolo dei donatori internazionali nel risanare questa situazione e offre raccomandazioni su ciò che i palestinesi possono fare per sfidare lo status quo e ottenere il loro legittimo diritto all’acqua.

La creazione dell’egemonia dell’acqua di Israele

Quando Israele occupò la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le alture del Golan nel 1967, tutte le acque del fiume Giordano, oltre alle acque sotterranee della Cisgiordania, erano già sotto il suo controllo. (1)  Nel 1982, l’esercito israeliano trasferì il suo controllo delle risorse idriche della Cisgiordania a Mekorot, compagnia d’acqua israeliana fondata nel 1937.

Gli accordi di Oslo del 1993 hanno istituito un comitato misto dell’acqua (JWC) attraverso il quale  israeliani e  palestinesi coordinano la gestione delle risorse idriche in Cisgiordania. Tuttavia, gli accordi consentono a Israele di controllare lo sviluppo delle infrastrutture dell’acqua palestinese, sanzionando e congelando i progetti idrici palestinesi, ma anche intimidendo i palestinesi  e legittimando i progetti   negli insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale.

Israele utilizza l’85% delle risorse idriche condivise della Cisgiordania, lasciando i palestinesi a bocca asciutta.

Attualmente Israele utilizza l’85% delle risorse idriche condivise della Cisgiordania, lasciando i palestinesi a bocca asciutta. Non solo Israele esercita l’egemonia sull’accesso alle risorse della Cisgiordania, ma l’Autorità Palestinese, nella gestione dell’acqua, è totalmente dipendente da Israele quale fornitore principale, acquistandola in seguito agli  accordi di Oslo. E, contrariamente a quanto sostiene Israele, i palestinesi non ricevono acqua gratuita nella quantità  fissata da Oslo, lasciando l’AP senza scelta e costringendola ad acquistare da Mekorot l’acqua necessaria per soddisfare la crescente domanda della sua popolazione. (2)

Inoltre, dagli anni ’90, Israele ha investito enormemente nella desalinizzazione e nel trattamento delle acque reflue, fattore che gli consente di essere esportatore di acqua per i suoi vicini che soffrono di scarsita’. Mekorot gestisce 100 mega-progetti in tutta Israele, tra cui 40 impianti di desalinizzazione  che prevedono 60 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Inoltre, le strutture di bonifica e trattamento delle acque reflue di Israele consentono di riutilizzare il 60% delle sue acque reflue trattate per fini agricoli. Israele fornisce questa competenza tecnica a paesi in via di sviluppo e le sue collaborazioni con società idriche e con i governi di Argentina, Cipro, Uganda, Azerbaigian e Portogallo generano miliardi di dollari.

Con la rincorsa a soluzioni tecniche che ignorano la politica del suo approccio all’acqua palestinese, gli accordi di Israele con l’AP hanno affrontato il problema dell’acqua esclusivamente da un punto di vista pratico. I trasferimenti, i contingenti e gli scambi stabiliti non rispettano i principi della legge internazionale sull’acqua, che richiedono un’equa distribuzione delle risorse idriche e il riconoscimento dei diritti palestinesi all’acqua .

Dopo un fermo di sei anni del lavoro della JWC, la cooperazione è ripresa nel gennaio 2017. Il fermo è stato causato da un accordo condizionato in cui dovevano essere presi in considerazione i progetti di insediamenti israeliani e quelli  palestinesi. In base a quanto riferito   da Jan Selby, (ndt. professore di relazioni internazionali presso l’Università di Sussex) tra il 1998 e il 2010, i palestinesi hanno approvato oltre 100 progetti israeliani nella Cisgiordania mentre 97 progetti palestinesi, finanziati da donatori, sono ancora in attesa dell’approvazione israeliana. La ripresa delle riunioni e della cooperazione è tutt’altro che positiva. Il nuovo accordo permetterà ai palestinesi di effettuare la posa di tubazioni e reti senza l’approvazione del JWC,  lo stesso faranno gli israeliani, il che significa che Israele può sviluppare le sue reti per gli insediamenti senza approvazione congiunta del JWC. Inoltre, come sottolinea  Jan Selby, “sebbene i palestinesi abbiano ora l’autonomia per posare le tubazioni,  non potranno avere acqua supplementare senza la necessaria autorizzazione da parte di Israele”.

 

(1) L’espropriazione fatta da Israele delle rive del fiume Giordano e delle acque sotterranee della  Cisgiordania non è iniziata nel 1967. Negli anni ’50, ad esempio, Israele ha istituito il National Water Carrier dopo aver deviato 350 milioni di metri cubi d’acqua ogni anno dal fiume Giordano verso le sue città costiere e la regione del Naqab/ Negev. Inoltre, prima del 1967, Israele aveva  intercettato una ricca falda acquifera dal lato israeliano della linea verde.

(2) L’Autorità Palestinese dell’Acqua  dichiara di acquistare ogni anno 55-57 milioni di metri cubi d’acqua da Mekorot  e utilizza 103 milioni di metri cubi all’anno dai bacini (al di sotto dei 118 milioni di metri cubi all’anno definiti negli Accordi di Oslo – che in ogni caso non sono sufficienti per la popolazione attuale).

 

trad. Invictapalestina.org

Fonte: https://al-shabaka.org

 

Muna Dajani

Muna Dajani

Membro   di Al-Shabaka, Muna Dajani è una ricercatrice ambientale e attivista palestinese di Gerusalemme. Muna è titolare di un Master in Sviluppo Internazionale e Ambiente. Attualmente ha un dottorato presso la London School of Economics (LSE)  dipartimento di Geografia e Ambiente. La sua ricerca mira a identificare il legame tra l’identità, la resistenza e l’agricoltura in un’occupazione belligerante, dove l’agricoltura acquisisce la soggettività politica come forma di resistenza culturale. I suoi interessi di ricerca sono la politica ambientale, la gestione delle risorse della comunità e gli impatti sociali del cambiamento climatico.

 

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