L’approccio “apolitico” alla crisi dell’acqua in Palestina (Terza parte)

E’ fondamentale reintrodurre e ridefinire la lotta per l’accesso e il controllo delle risorse naturali come parte della lotta palestinese per l’autodeterminazione e la libertà.

Copertina: Rafah, donna palestinese beve acqua desalinizzata nella propria casa. Foto UNICEF

30 luglio 2017, Muna Dajani

 

Lesclusione dei Palestinesi da infrastrutture, tecnologia e collaborazione scientifica.

Con l’occupazione israeliana che impone leggi militari per l’accesso e il controllo di risorse essenziali come l’acqua, nonché l’intensificarsi delle importazioni di fonti energetiche di base e di energia, l’Autorità palestinese per decenni non ha sviluppato una crescita sostanziale delle infrastrutture idriche, specialmente nell’Area C, che costituisce il 60% della Cisgiordania. L’amministrazione civile dell’occupazione ha potere di veto su tutti i progetti di infrastrutture nell’Area C, con un tasso di accettazione del solo 1,5% avuto tra il 2010 e il 2014. La maggior parte dei grandi progetti idrici è stata congelata a causa della condizione imposta da Israele di collegare gli insediamenti a tali progetti da realizzare con fondi destinati al popolo palestinese da agenzie di donazione. La zona C rimane però un luogo di sviluppo in regressione e viene inquadrata dalla comunità internazionale come spazio di intervento umanitario.

Inoltre, la stretta collaborazione che la comunità internazionale intrattiene con la tecnologia idrica israeliana – che ammira incondizionatamente -rimane cieca davanti alla regressione dello sviluppo idrico palestinese e ne penalizza il settore. Recentemente l’UE ha classificato Gerusalemme – occupata da Israele in violazione del diritto internazionale – come una delle prime cinque città del mondo per efficienza, gestione e innovazione idrica. Si  congratula, cioè, con un regime di occupazione per il suo lavoro in una città in cui il 36% dei residenti palestinesi è escluso dalla rete idrica  israeliana e dove vengono attuate politiche discriminatorie per vuotare la metropoli degli abitanti palestinesi.

Nel 2012 la Commissione europea e il Ministero israeliano dell’Energia e delle risorse idriche hanno firmato un memorandum d’intesa di cinque anni per rafforzare la cooperazione scientifica, in particolare nel settore della desalinizzazione dell’acqua e dell’energia. Il governo britannico continua in tale collaborazione con Israele. Recentemente ha lanciato due piattaforme che comportano iniziative come l’inserimento di studenti laureati palestinesi nei laboratori israeliani per costruire partnenariati e “risolvere gravi problemi di scarsità e di qualità dell’acqua”. A parte il business, come sempre per la potenza occupante, l’approccio è problematico perché cerca di normalizzare l’occupazione in quanto l’investimento in eccellenza scientifica non è  destinato alle università e agli istituti di ricerca palestinesi. Piuttosto, tutti i lavori vanno a beneficio delle istituzioni dell’occupante.

Un’apparente eccezione è rappresentata dal Dipartimento del Regno Unito per lo Sviluppo internazionale che ha fornito 1,6 milioni di dollari per aiutare i coltivatori rurali vulnerabili nell’area C della Cisgiordania, principalmente pastori  beduini, a sostenere le loro famiglie a causa dell’aumento dei costi della produzione agricola. Il programma ha consentito agli agricoltori di riattivare le cisterne idriche e ha fornito circa 20 miglia di sistemi di trasporto idrico; questo sviluppo ha  migliorato l’efficienza dell’irrigazione. Le cisterne, tuttavia, hanno una capacità di stoccaggio limitata (70 metri cubi all’anno) e si basano sulla raccolta delle acque piovane. La loro riattivazione, dunque, allevia il problema, senza pero’ aiutare a risolvere la carenza di acqua imposta dall’occupazione. In senso più ampio indebolisce gli sforzi palestinesi per ottenere una quota equa di risorse idriche, frenando uno sviluppo idrico consistente a favore di soluzioni su piccola scala.

In sintesi, i donatori hanno mantenuto un approccio che normalizza l’occupazione, coinvolgendo   economia, ricerca e collaborazione scientifica con Israele e investendo milioni di dollari nello sviluppo delle infrastrutture idriche realizzate da Israele. I donatori stanno anche riattivando o ricostruendo le infrastrutture che le forze israeliane distruggono. La complicità dei donatori in questi meccanismi distruttivi contribuisce alla remissività e alla dipendenza palestinese, nonché a un de-sviluppo complessivo del settore dell’acqua palestinese. Un’incredibile a-politicizzazione delle questioni idriche ostacola la ricerca palestinese per il diritto all’autodeterminazione.

La lotta per il controllo palestinese dell’acqua: modi di procedere

Sebbene la situazione dell’acqua appaia spaventosa per i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, c’e’ una serie di strategie che i palestinesi e i loro sostenitori stanno studiando – e che possono svilupparsi ulteriormente – per rivelare la natura politica e artificiale della disuguaglianza dell’acqua nei territori occupati e fare pressione per giuste soluzioni alla crisi.

  • Evidenziare come l’approccio allo sviluppo nel settore dell’acqua condotto dai donatori distragga dal vero provblema e danneggi la dignità palestinese, l’indipendenza e il successo complessivo nel recuperare i diritti all’acqua. Ciò richiederà campagne e programmi che aumentino consapevolezza rispetto alla politica dell’acqua e richiedano la responsabilità dei donatori per garantire che i diritti delle acque palestinesi siano rispettati nell’ambito del programma palestinese, vale a dire affrontando le violazioni dei diritti e l’occupazione  da parte di Israele.
  • Richiedere che i progetti di sviluppo del settore idrico finanziati dal donatore seguano un piano di contingenza globale e territoriale nell’OPT. Tali progetti dovrebbero garantire che i programmi di sviluppo – non di aiuto umanitario – siano attuati in maniera partecipativa e trasparente affinché i diritti dell’acqua siano prioritari.
  • Rafforzare le istituzioni di ricerca e le università palestinesi come centri di conoscenza sulla politica e la gestione delle risorse naturali, dove vengono prodotte tecnologie e ricerche applicate per riflettere le politiche sociali, economiche e culturali della gestione delle risorse naturali sotto occupazione e sviluppare un forte settore tecnico di nicchia con esperti e ingegneri palestinesi per sostenere la mobilitazione locale e i comportamenti dalla comunità.
  • Richiedere una maggiore trasparenza delle autorità dell’AP in modo da proteggere il diritto palestinese alle risorse naturali rafforzando e partecipando attivamente alle campagne locali e internazionali per i diritti all’acqua e fornire una forte piattaforma alle organizzazioni della società civile per presentare a livello nazionale e internazionale l’ingiustizia che riguarda i diritti dei palestinesi all’acqua.
  • Costruire alleanze con movimenti internazionali e transnazionali per esporre ulteriormente le violazioni israeliane dei diritti all’acqua  e sviluppare una campagna d’azione globale con le comunità indigene che si oppongono attivamente alle industrie estrattive e agli stati di grandi dimensioni.

Infine, sostenendo tutto quanto sopra, è fondamentale reintrodurre e ridefinire la lotta per l’accesso e il controllo delle risorse naturali come parte della lotta palestinese per l’autodeterminazione e la libertà.

trad. Invictapalestina.org

Fonte: https://al-shabaka.org

 

 

Muna Dajani

Muna Dajani – Membro   di Al-Shabaka, Muna Dajani è una ricercatrice ambientale e attivista palestinese di Gerusalemme. Muna è titolare di un Master in Sviluppo Internazionale e Ambiente. Attualmente ha un dottorato presso la London School of Economics (LSE)  dipartimento di Geografia e Ambiente. La sua ricerca mira a identificare il legame tra l’identità, la resistenza e l’agricoltura in un’occupazione belligerante, dove l’agricoltura acquisisce la soggettività politica come forma di resistenza culturale. I suoi interessi di ricerca sono la politica ambientale, la gestione delle risorse della comunità e gli impatti sociali del cambiamento climatico.

 

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