La donna che fece ballare Ramallah

Ho avuto il piacere di incontrarla durante la sua visita lampo a Roma, dove è arrivata per suonare ad una serata a sostegno del movimento femminista “Non una di meno” lo scorso anno.

Febbraio 2019, Sonia Valentini

Nasce a Ramallah, da giovanissima si trasferisce in Egitto poi a Londra ed infine in Francia, Sama’ Abdulhadi è la prima dj producer di musica elettro-techno palestinese. Un primato non da poco per un’artista che a soli 28 anni ha letteralmente rinnovato la scena musicale palestinese, facendo da apripista ad un genere che adesso conta almeno altri 15 dj.

Ho avuto il piacere di incontrarla durante la sua visita lampo a Roma, dove è arrivata per suonare ad una serata a sostegno del movimento femminista “Non una di meno” lo scorso anno.

Quando hai soperto la musica techno per la prima volta?

L’ho scoperta quando avevo 18 anni, a Beirut, suonava questo dj giapponese Satoshi Tomi. La dinamica fu piuttosto divertente, mi avevano solamente detto andiamo da Satoshi Tomi, ed io credevo che sarei andata a mangiare del sushi, poi mi sono ritrovata ad un rave. L’impatto fu incredibile, avevo sentito la trance ero abituata a musica con parti cantate mentre la techno era diversa, non aveva testi solo battiti e suoni, davvero fantastica.

E poi è arrivata la tua prima console?

In realtà no, facevo già la dj quando ero piccola, facevo hip hop in arabo. Ho iniziato a suonare la consolle in Giordania col mio maestro , poi è arrivata la mia prima consolle e le prime serate a Ramallah per gli amici. Suonare a Ramallah però non era come suonare in qualsiasi altro club del mondo dove trovi tutta la strumentazione di cui hai bisogno. Non c’erano casse ma soprattutto nessuno aveva mai visto una dj prima di allora. Così portai la mia consolle.

E quale è stata la reazione del pubblico ?

Tutti lasciarono la sala senza capire cosa stessi facendo o cosa fossero quei suoni. Fu lo stesso anche la seconda e la terza volta che suonai. Poi incontrai una ragazza di Haifa, da poco trasferitasi a Ramallah, che mi disse che mi avrebbe fatto suonare ad ogni costo, che ce l’avrebbe fatta. Ma io non ero per niente convinta, pensavo “ok, ci ho provato non ha funzionato, questa musica non vi piace e basta”.

Ma alla ragazza non fregava molto delle mie opposizioni e mi pagò la serata ancora prima di suonare, con un’alta probabilità che ci avrebbe rimesso se nessuno si fosse presentato. Ma fu davvero una grande, organizzò un party riunendo persone da Ramallah e da Haifa. E quella fu la prima volta che vidi dei palestinesi ballare a ritmo di techno, ero sbalordita e incredula! Da quel momento in poi abbiamo inziato ad organizzare sempre più feste, rave party di 12 ore e la scena ha iniziato ad ampliarsi, tanto che oggi è decisamente più vasta di come era dieci anni fa!

Come definiresti la scena contemporanea elettronica?

Ad oggi ci sono circa dodici dj uomini e tre donne, ma il problema più grande è che i territori palestinesi sono chiusi, le persone non possono entrarvi da fuori, gli israeliani non verrebbero mai ad un party nel nostro lato, e questo fa sì che la scena non possa crescere come invece avverrebbe in maniera naturale in qualsiasi altra parte del mondo. L’interesse per la musica elettronica aumenta ogni giorno di più anche qui ma alla fine non c’è modo di organizzare un evento da diecimila persone, per il semplice fatto che queste diecimila persone non ci sono. Ma questo è solo un aspetto della questione, il lato positivo è che ogni giorno questo interesse cresce, la folla che ci segue cresce ed io non potrei essere più entusiasta! Io personalmente vorrei diffondere questa cultura musicale anche al di fuori dei territori, al di fuori della solita cerchia di persone che viene agli eventi elettronici. Anche perché se escludiamo Ramallah dove ci sono eventi ogni settimana, rimane giusto Betlemme dove si fanno eventi ogni due mesi, altrimenti si deve andare ad Haifa.

In uno spazio così ristretto come può essere la sola Ramallah come riuscite a gestire 15 dj ed un pubblico limitato di 100/200 persone?

In passato c’è stato un momento in cui le tensioni fra i dj si sono esacerbate: immagina un solo party a settimana con limitazioni d’orario, una dozzina di dj che vogliono suonare. Ad un certo punto ci siamo resi conto che, non solo nessuno ci stava guadagnando economicamente, ma anche che i party non erano di livello perché ad ogni evento c’erano venti persone. Ma adesso abbiamo imparato dalle incompresioni passate, siamo un gruppo più unito, dialoghiamo, ci confrontiamo, ci aiutiamo a vicenda.

Ora sei di base a Parigi, quanto spesso torni in Palestina?

In generale non molto spesso, ma quest’anno ho svariati eventi a casa. Ho lasciato la Palestina dieci anni fa per studiare, ma la mia famiglia, gli amici sono lì. Sono tornata a gennaio, sarò a Betlemme per il Kamandjati festival, tornerò a giugno per il Boiler Room ed infine di nuovo a settembre!

Sto cercando di fare workshop e serate in posti dove solitamente non si suonano questi generi, come il Kamandjati festival che ha sempre accolto musica più classica e tradizionale. Fondamentale è secondo me far conoscere la musica elettronica a chi non l’ha mai ascoltata prima, per questo darò alcune lezioni di elettronica ad un gruppo che seguirà un corso sul wedding djeeing. Ed è grandioso perché questo mi permette di diffondere questo genere ad un pubblico diverso dal solito, all’operaio, alla maestra che indossa il velo e torna a casa dai suoi bambini. E lo stesso discorso vale per i miei genitori, mai avrei pensato potessero avvicinarsi alla musica elettronica!

A questo proposito, essere una dj di musica elettro-techno in un paese arabo non è proprio una professione tradizionale, che atteggiamento ha avuto la tua famiglia mentre muovevi i primi passi in questo mondo a loro completamente ignoto?

Ovviamente mio padre in quanto uomo palestinese è molto legato alla comunità in cui vive, ma allo stesso tempo lui è cresciuto in una famiglia di sinistra, aperta e con una profonda attitudine femminista. Mia nonna era un’attivista per i diritti delle donne, era lei quella che viaggiava per parlare al mondo della Palestina mentre mio nonno era a lavorare in banca. Era lei il capo, la militante, la combattente così come mia zia, attivista in prima linea proprio come lei.

Perciò credo che sia per questo spirito combattente di mia nonna che mio padre non ha mai abbracciato una visione maschilista e conservatrice tipica del mondo arabo. Quando furono cacciati dalla Palestina lui aveva solo dodici anni, e furono le donne a farsi carico del destino dell’intera famiglia per questo mio padre non ha mai fatto distinzioni fra donna e uomo, fra quello che una donna non può ed un uomo può. Ed io stessa sono stata cresciuta con questa visione, e non c’è nulla che io non possa fare in quanto donna. Ho sempre giocato a basket e calcio con mio fratello senza che i miei ci trattassero in maniera differente.

C’è una cosa che mio padre mi ripete sempre: non dimenticare che siamo palestinesi, che veniamo da una cultura musulmana, solo questo ti chiedo di rispettare, la cultura da cui vieni.

Mi hanno sempre supportato a patto che rispettassi alcuni “limiti”. In realtà mio padre ride sempre, è molto entusiasta del fatto che insegni ai bambini e che sia un tecnico del suono.

C’è questo campo estivo che faccio da almeno tre anni in Egitto in cui insegno a bambini provenienti da tutto il mondo arabo mille modi in cui potersi esprimere musicalmente.

Tornando alla musica techno che è ciò che caratterizza la tua produzione artistica, come spieghi la scelta di un genere privo di parole fatto solo di suoni apparentemente in antitesi con la modalità espressiva tipica della poesia, musica e arte palestinesi che sono da sempre indissolubilmente legate alla memoria storica di questo paese nonché alla necessità di raccontare e di fare della parola la propria spada?

Ciò che rende la techno music sublime e magica è il suo essere universale. L’assenza di un testo permette alla mente di creare una propria storia nel suono, e di non essere necessariamente legata alle parole di qualcun altro. Ad esempio io credo che la techno sia terapeutica, nello stesso istante, ascoltando la stessa traccia io, tu ed altre centinaia di persone riversiamo nella musica il nostro vissuto, divenendo connessi e slegati allo stesso tempo. Quando invece c’è un testo che parla ad esempio di Palestina, è tutto già prefissato e prevedibile, si sa già quali sentimenti verranno smossi. La techno invece ha il potere di spingerti in spazi ignoti, irreali dove non esistono parole e quindi puoi trasportarti in qualsiasi universo tu voglia. Non sei più attaccato alle parole che ti tengono legato alla realtà di ogni giorno, sei in uno spazio che è solamente tuo, ed ognuno può andare nella direzione che vuole senza nessun percorso prefissato. E’ universale perché ognuno la sente a modo suo.

La tua produzione musicale non è mai politica ad eccezione di una traccia “Al jur7 al nabid” (La ferita che pulsa). Puoi parlarcene?

Questa traccia è nata mentre guardavo i video della guerra a Gaza nel 2014. In uno dei filmati il rumore provocato da un’esplosione mi sembrò quasi un battito così decisi di costruirci una traccia attorno, unendo i vari suoni che costellavano filmati di guerra. A questa traccia composta da rumori come bombe, missili, proiettili ho aggiunto la poesia di Mahmoud Darwish letta da mio padre. Amavo quella poesia specialmente letta da lui.

Ho pensato che nessun mezzo d’informazione potesse più negare ciò che sta avvenendo a Gaza, il fatto che persone muoiano ogni giorno. Io spero solo che alla fine anche gli altri si sveglieranno e vedranno.

Da quando ho realizzato questa intervista sono passati svariati mesi, Sama si è esibita su palchi di mezza Europa e medio oriente ed è stata una delle protagoniste indiscusse del Boiler Room più visto di tutti i tempi, un evento epico, commovente ed artisticamente magistrale.

Degno di nota è un altro progetto portato avanti dalla dj e producer Sama’, ELECTROSTEEN, una celebrazione elettronica del patrimonio musicale palestinese.

Nel corso di una residenza artistica di due settimane, un team di artisti palestinesi provenienti da Ramallah, Gerusalemme, Haifa, Giordania e Londra, ha lavorato alla produzione di tracce originali usando come materiale di partenza l’archivio musicale del centro culturale Al Fonon. Un archivio formato da canzoni e canti della tradizione folkloristica palestinese in particolare beduina.

Electrosteen nasce dalla volontà di dare una visione alternativa della Palestina, libera dalle narrazioni di guerra occupazione frammentazione. Il progetto vuole depoliticizzare questa terra riportando l’attenzione sulla sua vitalità e patrimonio culturale. Sama è stata una delle organizzatrici della residenza artistica e continuerà ad esibirsi in tutto il mondo, date un’occhiata alle date e un consiglio, non perdetevela dal vivo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam