Gideon Levy – Internazionale 11/17 febbraio 2022
Ora che gli insulti e le grida si stanno placando [“Amnesty è antisemita”, “Il rapporto è pieno di bugie”] bisogna farsi una domanda: cosa c’è di sbagliato nel rapporto sull’apartheid israeliano dei palestinesi pubblicato da Amnesty international il 4 febbraio?
Non è forse vero che la politica israeliana si fonda sull’intenzione esplicita di mantenere la superiorità demografica ebraica e ridurre il numero di palestinesi all’interno dei suoi confini?
Non è vero che questa politica esiste ancora?
Non è vero che Israele difende un regime di oppressione e controllo dei palestinesi all’interno del suo territorio e nei Territori occupati a vantaggio degli ebrei israeliani?
Le regole d’ingaggio con i palestinesi si basano o no sullo sparare per uccidere o almeno per ferire gravemente?
L’espulsione dei palestinesi dalle loro case e la negazione dei permessi per costruire non fanno forse parte della politica di Israele?
E gli sgomberi forzati nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est non sono apartheid?
La legge sullo stato nazione non è apartheid? E il rifiuto dei ricongiungimenti familiari? E i villaggi non riconosciuti?
Esiste un singolo ambito in cui ci sia un’uguaglianza vera, oltre che sulla carta?
Leggendo il rapporto di Amnesty c’è da disperarsi. Contiene tutto quello che già si sapeva, ma condensato. In Israele però nessuno ha provato rimorso. I mezzi d’informazione ne hanno parlato poco e male, e il coro della hasbara, la propaganda sionista, l’ha respinto con forza.
Il vice primo ministro, Yair Lapid, è andato all’attacco ancor prima che il documento fosse pubblicato. Il ministro per gli affari della diaspora, Nachman Shai, l’ha seguito a ruota. Deve ancora nascere il rapporto internazionale che Israele non condannerà, evitando al tempo stesso di rispondere nel merito. Negli anni tante organizzazioni, più o meno importanti, hanno denunciato l’apartheid. Israele ha sempre risposto: è antisemitismo.
Provate a smentire Amnesty international. Dimostrate che nei Territori non ci sono due diversi sistemi giudiziari, due ordinamenti giuridici e due sistemi per la distribuzione delle risorse. Che la legalizzazione dell’avamposto illegale di Evyatar, in Cisgiordania, non è apartheid. Che concedere agli ebrei la possibilità di rivendicare le loro proprietà antecedenti al 1948 e negarla ai palestinesi non è apartheid. Che un insediamento di lusso accanto a una comunità di pastori senza elettricità né acqua corrente non è apartheid. Che i cittadini arabi di Israele non subiscono una discriminazione sistematica, istituzionale. Che la linea verde (il confine dello stato israeliano dal 1949 fino alla guerra dei sei giorni del 1967) non è stata cancellata.
Cosa c’è di falso? Il rapporto ha spaventato perfino il giurista Mordechai Kremnitzer, che l’ha attaccato. La sua argomentazione è che il documento non fa distinzione tra i Territori occupati e Israele, e tratta il passato come il presente. Così vanno le cose quando anche gli studiosi di sinistra si allineano alla propaganda sionista. Accusare Israele dei peccati del 1948 e chiamarlo apartheid è come accusare di apartheid gli Stati Uniti per le leggi Jim Crow sulla segregazione razziale realizzate nel primo novecento, ha scritto Kremnitzer. La differenza è che il razzismo istituzionalizzato negli Stati Uniti è sparito, mentre in Israele è più forte che mai. Anche la linea verde è stata cancellata. Da un bel po’ c’è uno stato unico.
Perché Amnesty dovrebbe fare distinzioni? Il 1948 continua. La nakba (catastrofe) continua. Una linea retta collega Tantūra a Jiljilia. A Tantura, nel 1948, gli israeliani fecero un massacro; a Jiljilia, nel 2022, hanno fatto morire un uomo di ottant’anni. In entrambi i casi le vite dei palestinesi non valevano nulla. Ovviamente non c’è propaganda senza lodi per il sistema giudiziario. “L’importante contributo del parere giuridico del governo e dei tribunali, che contro una larga maggioranza politica hanno impedito la messa al bando delle liste arabe al parlamento d’Israele. Un partito arabo che entra a far parte della coalizione di governo mette subito in ridicolo l’accusa di apartheid”, ha scritto Kremnitzer. È bello sbandierare l’alta corte di giustizia (che non ha impedito una sola ingiustizia dell’occupazione) e il leader della Lista araba unita Mansour Abbas per dimostrare che non c’è apartheid. Settantaquattro anni di vita dello stato israeliano senza una nuova città araba, un’università araba, o una stazione ferroviaria in una città araba sono cosa di poco conto quando c’è di mezzo l’alta corte di giustizia, la foglia di fico dell’occupazione, e un alleato arabo nella coalizione di governo. Il mondo continuerà a scagliare invettive, e Israele a ignorarle. Il mondo dirà apartheid, e Israele dirà antisemitismo. Ma le prove si accumuleranno.
Quello che è scritto nel rapporto di Amnesty international non è una conseguenza dell’antisemitismo, ma contribuirà a rafforzarlo. Israele oggi è il più grande incentivo alle spinte antisemite nel mondo. fdl