Le Nazioni Unite renderanno finalmente giustizia alla Palestina?

L’attuale modello di potere delle Nazioni Unite le consentirà di correggere finalmente questo storico “passo falso” rendendo ai palestinesi giustizia e libertà a lungo negate?

Fonte: english version

Di Ramzy Baroud – 23 settembre 2022

Immagine di copertina: Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas si rivolge all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. (Foto: tramite il sito web delle Nazioni Unite)

Nel suo discorso previsto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 settembre, il leader palestinese Mahmoud Abbas dovrebbe, ancora una volta, fare un appassionato appello per il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo.

Non sarebbe la prima volta che nel suo “discorso di apertura” il Presidente dell’Autorità Palestinese fa pressioni per un tale status. Nel settembre 2011, la richiesta dell’Autorità Palestinese per il pieno riconoscimento è stata ostacolata dall’amministrazione di Barack Obama, costringendo i palestinesi a optare per la successiva migliore opzione, una vittoria “simbolica” all’Assemblea Generale l’anno successivo. Nel novembre 2012, la Risoluzione 67/19 all’Assemblea Generale ha concesso allo Stato di Palestina lo status di osservatore non membro.

In un certo senso, la Risoluzione si è rivelata, in effetti, simbolica, in quanto non ha modificato nulla sul campo. Al contrario, l’occupazione israeliana è peggiorata da allora, un contorto sistema di Apartheid si è accentuato e, in assenza di qualsiasi orizzonte politico, gli insediamenti ebraici illegali di Israele si sono espansi come mai prima d’ora. Inoltre, gran parte della Cisgiordania palestinese occupata viene attivamente annessa a Israele, un processo che ha avviato una lenta ma sistematica campagna di espulsione, che si fa sentire dalla Gerusalemme Est occupata a Masafer Yatta nelle colline a Sud di Hebron.

I sostenitori della diplomazia di Abbas, tuttavia, citano fatti come l’ammissione della Palestina in oltre 100 trattati, organizzazioni e convenzioni internazionali. La strategia palestinese sembra essere basata sul raggiungimento dello status di piena sovranità presso le Nazioni Unite, in modo che Israele venga poi riconosciuto come un occupante, non solo dei “Territori” palestinesi ma di uno Stato reale. Israele e i suoi alleati a Washington e in altre capitali occidentali lo capiscono bene, da qui la loro costante mobilitazione contro gli sforzi palestinesi. Considerando le dozzine di volte in cui Washington ha usato il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere Israele, è probabile l’uso del veto anche nel caso i palestinesi dovessero ripresentare al Consiglio di Sicurezza la loro richiesta di adesione a pieno titolo.

La diplomazia internazionale di Abbas, tuttavia, sembra mancare di una componente nazionale. Il Presidente palestinese di 87 anni non è molto popolare tra il suo stesso popolo. Tra le ragioni che hanno portato alla sua impopolarità, a parte la corruzione diffusa, c’è il continuo “coordinamento per la sicurezza” dell’Autorità Palestinese con la stessa occupazione israeliana contro cui Abbas si infuria nei suoi discorsi annuali all’ONU. Questi “coordinamenti”, generosamente finanziati da Washington, si traducono nell’arresto quotidiano di attivisti palestinesi anti-occupazione e dissidenti politici. Anche quando l’amministrazione di Donald Trump ha deciso di interrompere tutti gli aiuti, compresa l’assistenza umanitaria ai palestinesi nel 2018, i 60 milioni di dollari/euro stanziati per finanziare il coordinamento della sicurezza dell’Autorità Palestinese con Israele sono stati riconfermati.

Una contraddizione così grande ha insegnato ai palestinesi a rivedere le loro aspettative riguardo alle promesse di piena indipendenza del loro Presidente, anche se simboliche.

Ma le contraddizioni non sono iniziate con Abbas e l’Autorità Palestinese, e di certo non finiranno con loro. Il rapporto della Palestina con la più grande istituzione internazionale del mondo è segnato da contraddizioni.

Sebbene la Dichiarazione Balfour del novembre 1917 rimanga il principale quadro storico di riferimento alla colonizzazione della Palestina da parte del movimento sionista, la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite è stata ugualmente, e in una certa misura, anche più importante.

Il significato della Dichiarazione Balfour deriva dal fatto che la Gran Bretagna coloniale, a cui in seguito fu conferito un “Mandato” sulla Palestina dalla Società delle Nazioni, predecessore dell’odierna ONU, ha preso il primo impegno ufficialmente scritto al movimento sionista di concedere loro la Palestina.

“Il governo di Sua Maestà vede con favore l’istituzione in Palestina di una Patria per il popolo ebraico”, si legge in parte nel testo. Questa ricerca, o “promessa”, come molti sanno, non sarebbe culminata in nulla di reale, se non fosse stato per il fatto che gli altri alleati coloniali occidentali del movimento sionista sono riusciti con successo a trasformarla in realtà.

Ci vollero esattamente 30 anni perché la missione sionista traducesse in realtà la promessa del Ministro degli Esteri britannico dell’epoca, Arthur James Balfour. La Risoluzione 181 delle Nazioni Unite del novembre 1947 è la base politica su cui è fondato Israele. Sebbene gli attuali confini dello Stato di Israele superino di gran lunga lo spazio assegnatogli dal piano di spartizione delle Nazioni Unite, la Risoluzione è comunque spesso utilizzata per fornire una base legale per l’esistenza di Israele, mentre rimprovera gli arabi per essersi rifiutati di accettare quello che giustamente percepivano allora come un accordo ingiusto.

Da allora, i palestinesi continuano ad avere un rapporto difficile con le Nazioni Unite, un rapporto governato da numerose contraddizioni.

Nel 1947, le Nazioni Unite “erano in gran parte un consorzio di Paesi europei, Stati anglosassoni di coloni bianchi e Paesi latinoamericani governati da élite coloniali di discendenti spagnoli”, ha scritto l’ex Relatore Speciale delle Nazioni Unite Michael Lynk sulla situazione dei diritti umani in Palestina, in un recente articolo sulla spartizione della Palestina storica.

Sebbene la composizione geografica e demografica delle Nazioni Unite sia notevolmente cambiata da allora, il vero potere continua a essere concentrato nelle mani degli ex regimi coloniali occidentali che, oltre agli Stati Uniti, includono Gran Bretagna e Francia. Questi tre Paesi rappresentano la maggioranza dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il loro sostegno politico, militare e di altro tipo a Israele rimane più forte che mai. Fino a quando la distribuzione del potere alle Nazioni Unite non rifletterà i veri desideri democratici della popolazione mondiale, i palestinesi rimarranno svantaggiati presso il Consiglio. Anche i discorsi infuocati di Abbas non cambieranno questo.

Nelle sue memorie, citate nell’articolo di Lynk, l’ex diplomatico britannico, Brian Urquhart, “uno dei padri fondatori dell’ONU”, ha scritto che “la spartizione della Palestina è stata la prima grande decisione delle nascenti Nazioni Unite, la sua prima grande crisi e, senza dubbio, il suo primo grande passo falso”.

Ma l’attuale modello di potere delle Nazioni Unite le consentirà di correggere finalmente questo storico “passo falso” rendendo ai palestinesi giustizia e libertà a lungo negate? Non subito, ma i cambiamenti geopolitici globali in corso potrebbero presentare un’apertura che, se cavalcata correttamente, potrebbe servire come fonte di speranza che ci siano alternative ai pregiudizi occidentali, ai veti statunitensi e alla storica intransigenza di Israele.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org