Bilancio dell’anno: il 2018 inaugurerà una nuova strategia palestinese?

Copertina – Bambini palestinesi reggono immagini di Gerusalemme durante una protesta nella città di Gaza contro la decisione del Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, 6 dicembre 2017 [Ashraf Amra / Apaimages]

di Ramzy Baroud, 26 dicembre 2017

Il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui si è concluso il cosiddetto “processo di pace”, almeno nella sua formulazione americana. E con la sua scomparsa è crollato anche il contesto servito da base per la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente.

La leadership palestinese e i suoi alleati arabi e internazionali ora si imbarcano in un nuovo anno con il difficile compito di creare una formula politica tutta nuova che non includa gli Stati Uniti.

L’Autorità palestinese è entrata nel 2017 con la flebile speranza che gli Stati Uniti si stessero allontanando, anche se di poco, dalla loro propensione filoisraeliana. Questa speranza veniva da una decisione, presa dall’Amministrazione Barack Obama nel dicembre 2016, di non porre il veto alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con cui si dichiarava nullo lo status degli insediamenti ebraici illegali nei Territori Occupati.

Ma la nuova amministrazione Donald Trump, non appena ha preso la direzione della Casa Bianca, ha soffocato ogni ottimismo con la sua promessa di trasferire l’Ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo così, a dispetto del diritto internazionale, la Città Santa come capitale di Israele.

I messaggi contrastanti del presidente Trump non avevano reso chiaro se avrebbe portato a termine le promesse della campagna elettorale e le prime della sua presidenza, o se sarebbe rimasto fedele alla tradizionale politica estera degli Stati Uniti. La nomina di politici estremisti del calibro di David Friedman come ambasciatore degli Stati Uniti in Israele era stata abbinata a costanti riferimenti ad un “accordo definitivo” che dovrebbe coinvolgere palestinesi, Israele e paesi arabi.

La “pace regionale” americana, tuttavia, non ha portato a nulla e Trump alla fine ha soddisfatto la sua promessa fatta a Israele e ai suoi alleati firmando il Jerusalem Embassy Act del 1995.

In tal modo ha posto fine al ruolo un tempo da protagonista del suo paese nel “processo di pace” sposato dagli Stati Uniti, che propugnava una “soluzione a due stati” basata su una “formula terra per la pace”.

I paesi europei avevano anticipato la ritirata americana dagli sforzi per la pace già nel gennaio 2017, ma avevano ancora spinto per la Conferenza di pace di Parigi il 15 gennaio. La conferenza riunì circa 70 paesi ma, senza il sostegno degli Stati Uniti e con il rifiuto di Israele, è stata semplicemente una piattaforma per un linguaggio rimaneggiato su pace, coesistenza e così via.

Ora che Trump ha declassato il ruolo del suo paese è probabile che le potenze europee, in particolare la Francia, tenteranno di salvare i colloqui di pace. Tale possibilità, tuttavia, rischia di rivelarsi altrettanto infruttuosa da quando il governo israeliano di destra di Benjamin Netanyahu ha chiarito che né il congelamento degli insediamenti illegali, né una Gerusalemme condivisa né uno stato palestinese sono nell’agenda israeliana. Senza l’applicazione del diritto internazionale, Israele non cambierà volontariamente la sua posizione.

Infatti il 2017 è stato un anno di sfrenata espansione degli insediamenti ebraici con la costruzione di migliaia di nuove unità abitative – o in fase di completamento – mentre sono in vista nuovi insediamenti.

L’intransigenza di Israele e la fine della manovra di pace statunitense hanno rinnovato l’interesse per la lotta palestinese, messa da parte per anni a causa dei conflitti regionali e della guerra in Siria; ne è risultato un maggiore sostegno al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni Palestinese (BDS). Modellato sul movimento di boicottaggio anti-apartheid sudafricano, BDS chiede un’azione diretta da parte della società civile mondiale per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina.

Tuttavia, l’ascesa del BDS ha anche significato un forte impegno israelo-americano per bandire il movimento e punire i suoi sostenitori. Circa due dozzine di stati americani hanno approvato leggi per criminalizzare il BDS, mentre il Congresso degli Stati Uniti sta mettendo a punto la propria legge che rende il boicottaggio di Israele un atto punibile con una pesante multa e una pena detentiva.

Sfidando sia l’occupazione israeliana che l’Autorità Palestinese, i palestinesi nei Territori Occupati hanno continuato con la loro Intifada anche se è mancata la mobilitazione di massa di precedenti insurrezioni.

Centinaia di palestinesi sono stati uccisi e feriti, compresi molti bambini, negli sforzi di Israele di soffocare qualsiasi protesta contro il suo governo militare.

L’assedio di Gaza è rimasto in piedi nonostante gli sforzi di Hamas di porvi fine attraverso la riscrittura della sua costituzione e le varie aperture verso il partito Fatah di Mahmoud Abbas, che guida il governo dell’AP a Ramallah.

Un accordo di unità tra Hamas e Fatah è stato firmato al Cairo in ottobre: è stata fissata una data per le elezioni e migliaia di funzionari dell’Autorità Palestinese hanno potuto tornare a Gaza attraverso i valichi di frontiera e popolare vari ministeri e uffici governativi.

I quasi 2 milioni di palestinesi nella striscia assediata, tuttavia, nella loro vita quotidiana devono ancora assaporare il frutto di quell’unità.

Sebbene l’accordo di riconciliazione sia stato motivato da opportunismo politico in entrambe le fazioni, la necessità di una vera unità tra i palestinesi è più urgente che mai, e non solo a causa della decisione di Trump riguardo a Gerusalemme.

La Knesset israeliana ha approvato, o sta per approvare, varie leggi che sigillano il destino dei palestinesi, indipendentemente dalla loro posizione geografica o appartenenza politica. Uno è il Disegno di legge dello Stato ebraico che definisce Israele come la “nazione patria del popolo ebraico”, rendendo così milioni di indigeni arabi palestinesi degli emarginati nella loro stessa patria.

La “Legge sulla Grande Gerusalemme” è stata solo temporaneamente accantonata, nonostante il fatto abbia il sostegno di una maggioranza nella Knesset. Il Disegno di legge prevede l’espansione dei confini di Gerusalemme per includere i principali insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania, annettendo così illegalmente vaste aree di terra palestinese e riducendo la popolazione palestinese di Gerusalemme ad una minoranza ancora più piccola.

La leadership palestinese deve capire che le sfide a portata di mano sono molto più grandi del suo egoistico bisogno di conferma politica e supporto finanziario. C’è urgente necessità di rivitalizzare tutte le istituzioni dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). La nuova strategia dovrebbe mettere i palestinesi al primo posto e deve sfruttare le energie del popolo palestinese in patria o nella ‘shatat’ – diaspora.

Il 2018 promette di essere un anno decisivo per il futuro di tutti i palestinesi e sarà un anno difficile. Non solo gli Stati Uniti hanno abbandonato il “processo di pace”, ma si prevede che faranno tutto il possibile per mettere a repentaglio qualsiasi iniziativa palestinese volta a giudicare Israele responsabile per la sua occupazione militare illegale di 50 anni.

Se la leadership palestinese fallisce nel cambiamento per un ruolo nuovo, è probabile che si troverà ad uno scontro diretto con il popolo palestinese pronto a passare a un tipo di lotta completamente nuova; una lotta che non sia legato alla farsa di una “soluzione a due stati”, che non è mai stata veramente all’ordine del giorno fin dall’inizio.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

Fonte: https://www.middleeastmonitor.com/20171226-year-in-review-will-2018-usher-in-a-new-palestinian-strategy/#.WkKxDmP2GGg.facebook

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