‘Non ho denunciato il mio stupro perché avevo 7 anni. Potrei essere uccisa per questo, ma non posso rimanere in silenzio.’

Quando scrisse poesie contro l’occupazione, pagò con la sua libertà. Adesso che l’israelo-palestinese Dareen Tatour ha deciso di parlare degli stupri a cui è stata sottoposta da bambina, teme di dover pagare con la propria vita.

Di Netta Ahituv, Haaretz, 04 novembre 2018

Come tutti i detenuti, Dareen Tatour doveva subire una perquisizione ogni volta che entrava dal cancello della prigione. Per prima cosa doveva tenere le braccia alzate mentre le guardiane, che lavoravano a  turno, le passavano addosso il metal detector, dopodiché doveva spogliarsi di fronte a loro. La procedura era per lei insopportabile. Ogni volta il contatto forzato sbloccava un ricordo, chiuso nel profondo, di ciò che aveva subito durante l’infanzia. Una volta, quando il ricordo la sconvolse più del solito, raccontò alla guardiana dell’esperienza subita da ragazzina e chiese se poteva saltare il controllo, giurando alla donna che non portava con sé niente di proibito. La guardiana esitò per un momento, poi disse: “Va bene, allora alzati solo la camicetta e abbassati i pantaloni.” Naturalmente anche quell’azione innescò  il doloroso ricordo che portava con sè.

Alcuni mesi dopo, a seguito di un’udienza,  mentre Tatour veniva spostata dall’aula alla prigione accompagnata da una guardiana diversa,   mentre stava aspettando la perquisizione, accadde qualcosa di inaspettato. La  guardia le bisbigliò, “Non preoccuparti, ho sentito cosa ti è successo quand’eri ragazzina e non ti controllerò.” Stordita, Tatour la ringraziò e giurò che non avrebbe mai dimenticato quel gesto umano. Questi piccoli momenti di grazia, insieme con  lo scrivere incessante, l’aiutarono ad andare avanti durante i tre  difficili i anni del processo e dell’incarcerazione con l’accusa di incitamento alla violenza e sostegno ad un’organizzazione terroristica.

Quando arrivò in prigione per iniziare a scontare i due restanti mesi della condanna a cinque  (era già stata in carcere per tre mesi durante il processo), Tatour cercò quella stessa guardiana gentile e la ringraziò di nuovo. Non aveva dimenticato nemmeno per un istante né lei né ciò che aveva fatto, le disse Tatour. La guardiana disse che neanche lei aveva dimenticato Tatour.

Effettivamente Dareen Tatour, 36 anni, non è una donna di cui ci si dimentica facilmente. Ben oltre il carisma e l’ampio sorriso, che guizza costantemente sul suo volto e le fa socchiudere leggermente i verdi occhi fiammeggianti, c’è qualcosa di incantevolmente contraddittorio in lei. Sembra così fragile – minuta quasi all’estremo, con strani movimenti e un linguaggio del corpo che sembrano esprimere un desiderio di scomparire e attrarre meno attenzione possibile – ma allo stesso tempo proietta un’essenza solida e tenace che scaturisce dalla forza e dal coraggio.

Per di più, c’è la discordanza tra la visione che lo Stato ha di lei – “una criminale terrorista,” secondo il Ministro della Cultura Miri Regev; “pericolosa,” secondo l’accusa al processo; “un’incitatrice alla violenza,” secondo l’imputazione – e la bontà d’animo che mostra quando la si incontra di persona, la compassione e l’amore per l’umanità che evoca.

La discrepanza tra quella sensazione e la sua immagine pubblica sembra ancora più pronunciata quando le chiedo direttamente, “Dimmi, Dareen, vuoi che gli ebrei muoiano, che siano feriti, che soffrano? È quello che cercavi di ottenere con le tue poesie e i tuoi post di Facebook?”

Presa alla sprovvista dalla domanda, fa delle smorfie e inizia a tremare – come se volesse scrollarsi di dosso le parole che le ho appena scagliato contro. Dopo essersi ripresa, mi chiede se io mi senta minacciata nello star seduta da sola con lei in casa di amici, dove avevamo deciso di incontrarci. No, le dico, neanche per un momento durante le nostre conversazioni ho sentito anche solo un pizzico d’odio provenire da lei o alcuna sensazione che fosse minacciosa.

“Senti che io sia capace di fare del male a te, ai membri della tua nazione, o a chiunque?” chiede.

Di certo le sue maniere gentili non possono cancellare le dure parole che questa cittadina israeliana di origine araba ha scritto in alcune delle sue poesie, tra cui quella che ha condotto al suo arresto (“Resisti, Mio Popolo, Resisti Loro”) e il relativo clip su YouTube, in cui recita la poesia contro uno sfondo visivo che ritrae come eroica la violenza palestinese contro i soldati . Oltre alla poesia, i capi d’accusa citano due altri post di Facebook pubblicati da Tatour. In uno scrisse, “Dio è grande, il Jihad Islamico dichiara la continuazione dell’intifada in Cisgiordania e la sua estensione a tutta la Palestina. Dobbiamo iniziare all’interno della Linea Verde” – un riferimento al confine israeliano pre-1967.

Il secondo conteneva una fotografia di Asra’a Zidan Abed, di Nazareth, colpita e ferita dalla polizia nell’ottobre 2015 quando estrasse un coltello nella stazione centrale degli autobus di Afula, con la didascalia, “Sono la prossima shahid [martire].” (Si scoprì poi che Abed voleva suicidarsi, ma le sue azioni furono inizialmente viste come un attacco terroristico). L’imputazione affermava che “il contenuto, il livello di esposizione alle sue [di Tatour] pubblicazioni e le circostanze della loro comparsa hanno determinato una possibilità concreta di perpetrazione di atti di violenza o terrorismo.”

Tatour. “L’occupazione maschile e l’occupazione israeliana pensavano che mi avrebbero zittita, ma è accaduto il contrario. Mi hanno dato più forza.” Meged Gozani.

Eppure hai condiviso post del Jihad Islamico, un’organizzazione che ha mandato attentatori suicidi ad uccidere civili, e hai invitato a espandere la lotta nazionale dentro Israele. Non è irragionevole vedere quel testo come un appello al massacro.

“La polizia lo ha travisato. Ho accettato la loro traduzione [dall’arabo all’ebraico], ma non la loro interpretazione. Ho condiviso un bollettino di notizie dal Jihad Islamico, ma appena hanno visto il nome Jihad Islamico, hanno immediatamente pensato che li sostenessi. Non significa che sostengo la loro attività.”

Dai, Dareen. Non condividerei il post di un gruppo terroristico ebraico, non potrebbe mai succedere. Non è casuale.

“A che serve la mia spiegazione, nessuno nella società israeliana sta a sentire, ad ogni modo. Ognuno vuole interpretarla secondo la versione della destra israeliana. Gli israeliani non vedono l’occupazione, il muro, la sofferenza del popolo palestinese. E se una poetessa prova a mostrarlo nella sua poesia, è un’incitatrice.”

Hai l’opportunità di spiegarlo con le tue parole, senza la mediazione della polizia o dei politici che stanno strumentalizzando il tuo caso.

“Il post è stato scritto in risposta a un divieto di preghiera nella Moschea di Al-Aqsa. Ho esortato alla resistenza contro quel divieto.”

Parliamo di questo passaggio nella tua poesia, “Resisti, Mio Popolo, Resisti Loro”: “E ho portato l’anima nel mio palmo. / Per una Palestina araba / Non soccomberò alla ‘soluzione pacifica’ / Non abbasserò mai i miei vessilli / Finché non li espellerò dalla mia terra” [traduzione da Tariq al Haydar]. Cosa intendi per “Non soccomberò alla ‘soluzione pacifica’” e con “li espellerò dalla mia terra”?

Sto seduta accanto a te, e sono impressionata dalla tua sensibilità – ma capisci che un ebreo che legga quel testo in maniera letterale concluderà che vuoi che se ne vada via da qui e che non c’è spazio per il compromesso?

“È strano per me interpretare ogni parola nelle mie poesie. Comunque, per ‘soluzione pacifica’, intendevo gli accordi di Oslo, che non aiutarono realmente i palestinesi. L’accordo di pace per cui sto lottando è quello di uno stato per due popoli, uno stato egalitario.”

‘Foresta di lupi’

Dareen Tatour è nata nel villaggio di Reineh, vicino Nazareth, nel 1982, una fra cinque figli. Suo padre è un falegname e sua madre una casalinga. Era una studentessa eccezionale. Ricorda che, crescendo, amava scrivere poesie e storie, dipingere, scattare foto e suonare l’oud e la chitarra. All’Università Aperta, si laureò inizialmente in ingegneria informatica e programmazione, prima di passare agli studi di media e cinema; continuò a impegnarsi nella scrittura, nella pittura, nella fotografia e nella musica. Nel passato è stata proprietaria di un negozio di scarpe e amministratrice di un’altra attività di vendita al dettaglio.

Al di là dei semplici fatti biografici, Tatour ha conosciuto due formative esperienze traumatiche nella sua vita. La seconda è il suo ben noto processo, che è durato tre anni, 97 giorni dei quali passati in custodia, in aggiunta a due anni e mezzo di arresti domiciliari e due mesi a scontare in prigione ciò che rimaneva della pena.

Il primo trauma ebbe luogo nel periodo in cui aveva tra 7 e 12 anni. Iniziò il giorno in cui un tema che aveva scritto per il corso di letteratura fu elogiato dall’insegnante e le fece guadagnare uno speciale adesivo di eccellenza, che attaccò orgogliosamente sul suo quaderno. Mentre tornava a casa, emozionata e felice, col quaderno in mano, s’imbatté in un familiare. Lui le chiese perché fosse così contenta e, dopo che lei glielo raccontò, le disse che voleva comprarle un regalo in onore del suo successo.

All’improvviso la trascinò dentro una stanza in un edificio abbandonato, dove le strappò via i vestiti e iniziò a palpeggiarla. Quando finì, accese la luce, le mise un coltello vicino la lingua e la minacciò di tagliargliela in due se avesse rivelato qualcosa. Quest’atto, che includeva la penetrazione, si ripeté continuamente, alle volte anche quotidianamente. L’impatto dello stupro sistematico su Tatour fu brutale. Aveva paura di andare da qualunque parte da sola, anche in bagno a scuola, nel caso che lui fosse lì in agguato; per un lungo periodo smise di parlare completamente. Manteneva un silenzio costante. I suoi genitori dicevano a tutti che era timida, ma la verità era più terribile di quanto chiunque potesse immaginare.

Continuò ad essere violentata per cinque anni.

“Ho posto fine alla cosa quando avevo 12 anni,” racconta adesso Tatour, acciambellata sul divano, fissando la finestra dietro di me. “Imparai il karate e sentivo di avere una certa forza. Un giorno lo colpì e lui si spaventò. Ebbe paura della mia voce e del fatto che l’avessi colpito, e smise.”

Hai sporto denuncia contro di lui?

“Qualche anno fa, mi sono consultata con un avvocato al riguardo. Lei mi disse, ‘Soffrirai solo di più e non ne otterrai nulla; c’è un termine di prescrizione e non hai prove inconfutabili. Faresti meglio a non sporgere denuncia.’ Iniziai a pensare a cosa volevo gli accadesse e mi resi conto che volevo fosse ostracizzato dalla società. Scrissi una storia su Facebook chiamata ‘La ragazza in una Foresta di Lupi.’”

Questa settimana, Tatour è riuscita ad accedere al suo account Facebook per la prima volta da quando la polizia l’ha bloccato, tre anni fa. (Stranamente, non hanno toccato “Resisti, Mio Popolo, Resisti Loro” e altri post, nonostante l’accusa che fossero pericolosi e provocatori). Abbiamo fatto scorrere il suo feed fino ad arrivare alla storia, che aveva pubblicato poco prima del suo arresto.

La storia prende la forma di un dialogo tra una Tatour adulta e la ragazzina Dareen, come appare nella foto d’infanzia che è stata postata vicino al testo – che porta sempre con sé nella borsa. Alla fine della triste storia, Tatour fornisce a Dareen alcuni dettagli riguardo al “lupo.” Non lo nomina, ma chiunque abbia familiarità con la specifica comunità probabilmente conosce colui a cui si riferiva. Tatour si aspettava che la storia scatenasse un terremoto nella sua famiglia e nel suo villaggio, ma con suo dispiacere la maggior parte dei suoi parenti e conoscenti ha continuato a parlarle come se niente fosse accaduto.

Dareen Tatour da bambina. Si aspettava che la storia che ha scritto scatenasse un terremoto, ma è rimasta delusa.

Poche ore prima di essere arrestata, il “lupo” passò sotto la sua finestra, imprecò contro di lei e gridò, “Non sai cosa ti aspetta.” Il fatto è che una linea di difesa presentata durante il processo dall’avvocato di Tatour, Gaby Lasky, ha effettivamente affrontato la connessione tra i due casi. La polizia ha scelto di non rispondere a questa affermazione. La storia dello stupro è emersa nei diversi interrogatori che lei ha subito come sospettata.

“Gli ufficiali di polizia che l’hanno sentita hanno detto che un’investigatrice vi avrebbe indagato e poi avrebbe parlato con me, ma finora non ho avuto notizie da loro,” dice Tatour. Un portavoce della polizia israeliana ha detto ad Haaretz, in risposta: “Se l’accusata sente che le sue dichiarazioni di tre anni fa non sono state adeguatamente esaminate, ha il diritto di contattare gli investigatori competenti in qualunque momento.”

Alla mia domanda se lei sia a conoscenza di altre donne che il “lupo” ha attaccato, dice, con mia sorpresa, che lei stessa è stata in grado di rintracciarne altre otto. Per un certo periodo ha lavorato come un’autoproclamata investigatrice, ha raccolto indizi e interrogato della gente, raggiungendo in tal modo le otto donne. È certa che ce ne siano altre. “Ho chiamato ognuna di loro e ho raccontato che ci ero passata anche io, proponendo di andare insieme alla polizia. Erano spaventate, quindi ho detto che ero disposta ad essere io la vittima e occuparmi di ogni cosa, affrontarlo, tutto ciò che dovevano fare era essere d’accordo ad andare avanti con me con la denuncia. Ma ognuna di loro ha la propria vita, il proprio posto, la propria reputazione in società. Sono così spaventate.”

Forse queste rivelazioni daranno loro il coraggio?

“Lo spero. Ho detto loro che insieme abbiamo una forza enorme, ma erano ancora spaventate. Le capisco, perché conosco i danni che lui mi ha inflitto. L’occupazione maschile e l’occupazione israeliana pensavano che mi avrebbero zittita, ma è accaduto il contrario. Mi hanno dato più forza. Per tutta la mia vita qualcuno ha provato a zittirmi, ma non ce la faccio più a stare in silenzio.”

Sei preoccupata che ti ucciderà dopo aver letto quest’articolo?

“Potrei essere uccisa in qualunque momento, ma non posso più rimanere in silenzio. Voglio incoraggiare altre donne a parlare apertamente. Io me ne sto assumendo la responsabilità, sto parlando apertamente e so che sarò in pericolo. Lo stato ha permesso ai veri terroristi – quelli che stanno perpetuando il proprio terrore contro le donne – di rimanere liberi. Il problema principale è che si sono concentrati sulla mia poesia, come se fosse la cosa più pericolosa che sta succedendo qui intorno.”

Il peccato di scrivere

Segui i movimenti #MeToo e #WhyIDidntReport? Cosa te ne pare?

“Ogni giorno sento una donna che ne parla, sono davvero felice per lei e per le altre. Sono sicura che ci sono moltissime altre donne e so che ci vorrà tempo per raggiungere quelle arabe – ma accadrà. Il mio progetto è di creare una ONG che si occupi di questo problema, per dir loro in arabo ‘Ana Kaman’ [Me Too, Anch’Io]. Non è un problema di Dareen Tatour, ma di tutte le donne. Non ho sofferto per tre anni per poi rimanere in silenzio. Combatterò contro tutti i poteri che vogliono imporre gli strumenti del silenzio su di me – l’occupazione, gli uomini, la famiglia. La società araba uccide le donne, non permette loro di farsi strada, accumula ostacoli sul loro cammino. Di certo non l’intera comunità araba, ma grosse parti di essa. Ciò che ho visto in prigione e ascoltato dalle donne è terribile. Nonostante ciò, e nonostante la soluzione sia ancora molto lontana, sono ottimista perché proprio come io ho iniziato a parlare, a rompere il silenzio, a non aver paura di nulla – altre donne faranno lo stesso in futuro.”

Questa è la prima volta che parli con un giornale del violento abuso che hai subito, ma non la prima volta che la tua famiglia l’abbia ascoltata. Come hanno reagito quando l’hai detto loro da bambina?

“All’inizio non mi hanno creduto e, come ogni donna che subisce uno stupro o un abuso sessuale, sono stata sia la vittima sia quella da incolpare. Mi chiesero come fosse accaduto, come avessi potuto lasciarglielo fare. La mia risposta è stata, ‘Avevo 7 anni! Non capivo cosa stesse accadendo.’”

Descrivici il momento in cui l’hai detto loro. Cosa dissero?

“Col tuo permesso, non voglio parlarne. È stato difficile, ma non dirò altro, per proteggere la mia famiglia. Devi capire: nella società araba, è sempre la donna che viene incolpata. Non fa differenza cosa gli uomini facciano alle donne, sarà sempre colpa di queste. Il punto di svolta per alcuni miei familiari è stato il mio arresto; allora hanno capito qualcosa, hanno visto qualcosa. Ma ci sono molte donne arabe che credono che gli stupri e gli abusi che subiscono siano colpa loro.”

Dareen Tatour al momento del suo rilascio dal carcere. Rami Shllush

Come pensi che quella visione si possa cambiare?

“Prima di tutto educando i nostri ragazzi.”

La scorsa settimana la storia di Tatour è stata raccontata in un’opera teatrale, “Io, Dareen Tatour”, messa in scena al Festival del Teatro di Tmuna a Tel Aviv. L’opera, ideata dall’attrice Einat Weizman e diretta da Nitzan Cohen, ha debuttato sabato sera non lontano dalla grande manifestazione degli artisti contro il “disegno di legge sulla lealtà culturale”, che è stato recentemente approvato dalla commissione ministeriale per la legislazione. Il disegno di legge permette al Ministro della Cultura, Miri Regev, di negare fondi statali ad istituzioni la cui attività non è coerente con ciò che lei considera lealtà nei confronti di Israele.

Diverse personalità del mondo del teatro ben informate sui particolari ipotizzano che lo spettacolo di Weizman sarà il soggetto del primo processo-farsa della legge. Regev ha già preso di mira la produzione in una lettera che ha mandato al Ministro delle Finanze Moshe Kahlon per chiedergli di negare i fondi al Tmuna per via dello spettacolo. Non sarebbe il primo precedente legale che coinvolge Tatour. Il processo derivante dai suoi post di Facebook fu il primo ad essere tenuto ai sensi della legge anti-terrorismo entrata in vigore nel novembre 2016 e che prevede il carcere per chiunque manifesti sostegno al terrorismo o si identifichi con un’organizzazione terroristica.

Weizman scrisse l’opera a seguito della sua amicizia con Tatour e dopo aver letto i suoi diari ed essersi incontrata con lei frequentemente durante gli arresti domiciliari della poetessa. La scena che mostra la violenza su Tatour è difficile da guardare, opprimente, densa, e lascia lo spettatore tremante di tristezza e rabbia.

“Sono evidenti due tipi di repressione nella storia di Dareen, e in un certo modo si fanno eco l’una con l’altra,” afferma Weizman. “Dareen è stata punita per aver cercato di rivelare pubblicamente un crimine. Rivelando che era stata stuprata, ha minacciato di rompere il muro di omertà nella società che la circondava. Attraverso il post per cui è stata punita dallo stato di Israele ha anche cercato di esprimere una voce proibita, questa volta contro la repressione dei palestinesi. Ultimamente stiamo vedendo ripetutamente i segni della repressione di ogni voce che sia critica nei confronti dell’occupazione e degli abusi di Israele contro i palestinesi. La gente viene punita per i post e per far parte di organizzazioni nonviolente di resistenza, e gli autori vengono minacciati e privati dei finanziamenti per via delle opinioni che esprimono. Invece di agire con risolutezza, mostrare rammarico e punire chi commette il crimine, [le autorità] stanno punendo chi ne parla. È importante per me, e per Dareen, che a questo doppio silenziamento e repressione si dia voce.”

Dareen Tatour and Einat Weizman. Credit: Oren Ziv

Tatour è afflitta dall’atteggiamento tenuto nei suoi confronti durante i tre anni delle sue traversie giudiziarie. Iniziarono quando la polizia entrò a casa sua alle 4 del mattino, l’11 ottobre del 2015, ad armi spianate, come se fosse una pericolosa criminale e non qualcuno il cui unico reato consistesse nell’aver digitato delle parole su un computer. La polizia israeliana ha affermato, alla richiesta di commenti da parte di Haaretz: “L’accusata è stata arrestata per sospetto incitamento alla violenza e sostegno ad una organizzazione terroristica, nell’effettivo sospetto che fosse capace di commettere un attacco terroristico.”

La portarono alla stazione di polizia di Nazareth e la fecero stare in cortile per due ore, mentre gli ufficiali di polizia le passavano accanto chiamandola, come ricorda, “sporca araba”, “terrorista” e così via. Quando fu portata dentro, venne legata con manette e catene alle caviglie. L’avvocato difensore d’ufficio che era stato nominato come suo consulente legale, le consigliò di mentire, lei dice, e di sostenere che qualcuno avesse hackerato il suo account Facebook. L’avvocato le raccontò di come un’altra donna araba di Nazareth che era stata accusata di incitamento via Facebook, fosse sparita qualche mese prima e nessuno sapesse che cosa ne era stato di lei.

Secondo Tatour, l’avvocato la fece davvero spaventare e lei decise effettivamente di negare ogni collegamento con i post. Solo dopo aver nominato come suo difensore l’avvocato privato Lasky, lei dice, si rese conto di aver commesso un errore e che avrebbe dovuto riconoscere di essere l’autrice della poesia, sebbene ad oggi continui veementemente a sostenere che la poesia sia stata tradotta impropriamente dall’accusa. Nel suo resoconto, l’accusa sostenne che il fatto che lei avesse cambiato la propria testimonianza riguardo ai post fosse sospetto: “Chiunque sia certo della correttezza dei propri modi e che sia in buona fede nelle proprie intenzioni, riconoscerebbe in maniera coerente la pubblicazione di ciò che gli viene attribuito e ne spiegherebbe le intenzioni di fondo,” scrisse l’accusa.

Tatour e Lasky al momento stanno ricorrendo in appello contro le sue condanne – sia quella per sostegno ad un gruppo terroristico sia quella per incitamento alla violenza – davanti alla Corte Suprema.

“La sentenza è un rozzo tentativo da parte della corte di interpretare la poesia nel modo in cui si fa con un contratto,” dice Lasky ad Haaretz. “Senza profondità, senza il relativo contesto, come se fosse un testo bidimensionale con un unico significato, non poesia. Chiunque interpreti la poesia in quel modo sta perdendo di vista la verità, e quando un governo mette sotto processo i cittadini per la poesia, danneggia la ricchezza culturale di un’intera società. Mi sono rammaricata nel vedere come la cultura sia stata sminuita nel tentativo di giustificare una condanna.”

Tatour conferisce il discutibile titolo di “esperienza più difficile” che abbia subìto negli ultimi tre anni alle corse in furgone che portano i detenuti dai rispettivi luoghi di detenzione al tribunale e ritorno. I viaggi sono lunghi, poiché includono fermate a diverse prigioni, e i passeggeri sono stipati nel veicolo oscurato, con mani e piedi incatenati. Una delle corse peggiori ebbe luogo un giorno che si era fatta male alla gamba, nel dicembre 2017, nel periodo in cui era in detenzione durante il processo.

Si era fatta male nella sua cella, dove dormiva nella parte superiore di un letto a castello che non aveva la scala. Doveva salire e scendere dal letto per mezzo di una sedia di plastica. Un giorno la sedia le scivolò e Tatour cadde con essa, atterrando dolorosamente sulla sua gamba sinistra.

Passarono dodici ore prima che le guardiane accordassero di portarla in ospedale. Si trovò nuovamente nel furgone e la guardiana insisteva nell’incatenarle i piedi. Tatour le disse che aveva un dolore terribile e che non c’era pericolo che fosse in grado di fuggire, data la sua condizione. La guardiana nondimeno le incatenò il piede buono al sedile.

Da quando è uscita di prigione circa sei settimane fa, Tatour sta cercando di crearsi una nuova vita. Sta cercando lavoro (“Gli ebrei non vogliono assumermi e gli arabi hanno paura di farlo”), lavorando alla pubblicazione delle molte poesie che ha scritto in prigione – “Sono stata arrestata per una poesia e ne sono uscita con 105” – e correggendo il romanzo che ha scritto, basato sulle 305 pagine di ricordi che ha scritto riguardo l’intero periodo.

“Devo abituarmi alla nuova gente e alla nuova realtà della mia vita,” dice. “L’intera famiglia è cambiata. Tutto è cambiato. Niente rimane com’era – i sentimenti, la vita. Molti amici mi hanno abbandonata. La gente ha paura di stare con me, perché adesso sono una ‘terrorista.’ Nessuno ci crede veramente, ma sono comunque spaventati. Durante questo periodo ho anche incontrato persone che non avrei mai pensato di poter incontrare – molti ebrei e palestinesi che mi hanno aiutato lungo il cammino e che adesso sono i miei migliori amici. Per quello sono grata alla polizia e all’accusa, grazie ai quali li ho incontrati.”

Sei anche diventata famosa a seguito del processo, nel bene e nel male.

“Così tanta gente in Israele e all’estero conosce oggi le mie poesie dopo la mia carcerazione. Ricevo decine di lettere ogni giorno da ogni parte del mondo. Quando mi fu permesso di riconnettermi a internet [il cui utilizzo le era proibito durante i tre anni di interrogatorio, processo e carcerazione], sono rimasta sbalordita dal numero di email ricevute e da quanto era stato scritto su di me in tutto il mondo.”

So che sei vegetariana – puoi dirmi perché?

“Sono vegetariana da quando ero piccola. Penso che gli animali meritino di vivere e che noi umani possiamo andare avanti senza mangiarli. Non sopporto di veder soffrire un animale e anche di pensare che sono gli esseri umani che lo stanno facendo soffrire.”

Dareen Tatour. Credit: Meged Gozani

Posso immaginarmi le reazioni ciniche al tuo vegetarianismo: “Vuole che gli vivano gli animali, ma non gli ebrei.”

Tatour si fa seria: “Io non voglio che muoia nessuno. È questa la verità. Il mio intento nella poesia era una sollevazione, sollevarsi contro l’ingiustizia, contro l’occupazione stessa. Ecco tutto.”

Vuoi costruirti una famiglia?

“Non voglio figli finché qui viviamo questo tipo di vita. Non posso mettere al mondo un altro bambino per farlo soffrire. Non posso neanche vivere con un uomo dopo quello che ho passato. All’inizio la famiglia spingeva per un matrimonio combinato, ma ho lottato contro di questo. È difficile nella società araba, perché una donna nubile è una vergogna. Viene sempre accudita, come se l’uomo le desse sicurezza e senza di lui fosse in pericolo, anche se molte volte è l’esatto contrario. Ho buoni rapporti con i miei fratelli e voglio bene ai loro bambini. Sarei felice di lavorare coi bambini, ma chi chiamerebbe una terrorista a lavorare in un asilo?” dice, ridendo. “In realtà io piaccio ai bambini. Mi connetto con loro e loro si connettono con me.”

Che cosa hai pensato del giudice, Adi Bambilia-Einstein, e del verdetto che ha pronunciato?

“Se avesse un po’ di logica e compassione, avrebbe potuto condannarmi senza rimandarmi in prigione. Sapeva quante sofferenze ho patito in quei tre anni e degli episodi dell’infanzia. Sono stata sorpresa dal fatto che, come donna, non abbia compreso i sentimenti di un’altra donna che sta lottando per la libertà d’espressione e per la propria libertà personale. C’è una cosa che non dimenticherò mai – il sorriso del giudice. Da quello ho capito che anche lei è imprigionata, anche più di me. Si è imprigionata lei stessa. Credo che abbia fatto ciò che non voleva fare. Voleva liberarmi, ma la decisione non era nelle sue mani. La mia sensazione è stata che lei abbia fatto qualcosa che non voleva fare.”

Che cos’è responsabile della tua coscienza politica?

“Ho sempre scritto poesie politiche, ho scritto riguardo ciò che provavo e di come vedevo il mio popolo. Anche io subisco l’occupazione, perché tutti i miei parenti sono rifugiati che non possono far ritorno ai propri villaggi. Mia nonna mi raccontava sempre della conquista dei villaggi e di come vide gli ebrei sparare alla sua famiglia nel 1948. La sento, la vivo.”

Che soluzione vedi? Sei a favore di due stati per due nazioni?

“Sono per uno stato di tutti i suoi cittadini, senza differenza di religione e razza. Palestinesi ed ebrei, ebrei e palestinesi. Uno stato democratico. Ho amici poeti all’estero. Prima del mio arresto, uno di loro, un poeta egiziano, lesse una delle mie poesie e mi disse che mi invidiava. Gli chiesi di cosa precisamente fosse invidioso. Replicò, ‘Tu puoi scrivere qualunque cosa voglia, anche se sei in Israele e c’è un’occupazione. Se io scrivo cose critiche contro il mio governo, vado dritto in prigione.’ È davvero una fortuna, pensai: io posso scrivere. Concludemmo che, nonostante le cose negative di Israele, è un posto in cui puoi scrivere poesie liberamente. Un paio di settimane dopo lui era libero, ma io ero stata arrestata.”

Il processo di Tatour ha anche avuto a che fare con il potere delle parole. La questione quasi filosofica è stata sollevata in tribunale in merito a che cosa le parole siano capaci di fomentare, e se scrivere parole poetiche sia un crimine. Tatour, alla richiesta di una sua opinione su questo argomento, come qualcuno che ha pagato un caro prezzo per le proprie parole, risponde adesso con risolutezza: “Credo nella poesia ora più che mai. Prima del mio arresto, mi chiedevo se le parole potessero modificare la realtà. In seguito ad esso, sento che il mondo intero si sia connesso con le mie parole. Ho scoperto che questa è la forza più potente che ci sia. Le parole sono l’unico mezzo per trasmettere una certa cultura agli altri. I poeti sono coloro i quali trasportano momenti da un luogo all’altro, e rivelano delle verità. Ecco cos’è accaduto nel mio caso. Adesso è stata rivelata la verità sulla democrazia israeliana.”

trad. Claudio Cappadona per Invictapalestina.org

Fonte: https://www.haaretz.com/israel-news/.premium.MAGAZINE-i-didn-t-report-my-rape-because-i-was-7-i-can-no-longer-stay-silent-1.6615112?fbclid=IwAR1SJgW6fgQy5yAGHh1NXa2x_gtH8qosgIQXoBbYPjUzixVBSTgNDBCvsQ8

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam