Il difficile passaggio dalla soluzione dei due Stati alla decolonizzazione in Palestina / Israele.

Immagine di copertina: Palestinesi segnano la caduta del muro di Berlino rimuovendo un blocco di cemento dalla controversa barriera di separazione di Israele durante una protesta nel campo profughi di Qalandia vicino alla città di Ramallah in Cisgiordania, il 9 novembre 2009. (Foto: di Issam Rimawi / APA Images)

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Jeff Halper  – 17 luglio 2019

 

Sta succedendo,  se pur lentamente. Analizzando  il numero speciale del Palestine-Israel Journal dedicato alla minaccia che la sacra soluzione al conflitto israelo-palestinese dei due Stati possa essere in pericolo – o, come dice il titolo del problema, “a un bivio pericoloso” – si ottiene la sensazione di affermazioni poco convinte, quasi disperate, secondo le quali la soluzione dei due Stati è l’unica plausibile.

“È ipotizzabile che la soluzione dei due Stati sia effettivamente morta, o “nella migliore delle ipotesi in terapia intensiva”, scrive un collaboratore. La soluzione dei due Stati può essere “salvata”, scrive un altro, se Israele si ritira unilateralmente dalla parte nord-occidentale della Cisgiordania o, afferma un altro ancora, se i governi riaffermano la loro aderenza al diritto internazionale. Ma il fatto che il numero speciale di questa rivista liberal-sionista sia stato prodotto in un evidente stato di ansia, con i suoi autori che si arrampicano sugli specchi,  dimostra in modo molto eloquente il lento ma inesorabile cambiamento in atto nell’analisi politica. In effetti, non si poteva evitare di includere scrittori – Gideon Levy di Haaretz e Husam Dajni, il professore palestinese di Gaza,  solo per citarne alcuni – che dichiarano apertamente l’alternativa alla defunta soluzione dei  due Stati, ovvero quella di un solo Stato.

Nel suo pezzo, Tony Klug osserva che “Inserito tra i mantra de ” Non c’è alternativa alla soluzione dei due Stati “e” La soluzione dei due Stati è morta “, il dibattito contemporaneo su come risolvere il conflitto israelo-palestinese è stato ridotto a poco più di uno scontro urlante tra due campi assolutisti, entrambi certi di essere nel giusto. ”

Come uno di quelli che per più di un decennio ha urlato che la soluzione dei due Stati è morta e che dobbiamo andare oltre, direi che il dibattito e la discussione dovrebbero intensificarsi. Ogni “soluzione” implica visioni, piani e aspirazioni fondamentalmente differenti per il futuro dei nostri popoli e se riusciremo a raggiungere un futuro migliore dipende dalla direzione scelta.

L’argomento principale a sostegno della soluzione dei due Stati è che è giusta (entrambi i popoli ottengono l’autodeterminazione nazionale, anche se gli ebrei sono il 78% e i palestinesi meno del 22%), è conforme al diritto internazionale ed è stata accettata a livello internazionale come la soluzione migliore – tutto vero, in un certo senso. Molti membri dello schieramento israeliano favorevole alla pace che si sono gradualmente spostati dalla proposta dei due Stati a quella di uno Stato, come me, non lo hanno fatto perché quest’ultima opzione era migliore, ma perché siamo giunti ​​a capire che semplicemente non è realizzabile. Se avessimo avuto questa discussione nel 1970, quando l’occupazione era ancora agli inizi e la nostra visione di Israele  come paese socialista progressista era ancora innocente, sarebbe stato comprensibile. Ma questo è il 2019, più di mezzo secolo dopo l’inizio dell’occupazione, più di un quarto di secolo dopo il fallito processo di pace di Oslo. Oggi comprendiamo cose che non capivamo allora. Comprendiamo che Israele non ha mai pensato che potesse nascere uno Stato palestinese (durante i colloqui di Oslo , quando i Laburisti governarono per cinque anni e mezzo dei sette in cui durò, i progetti di insediamenti coloniali raddoppiarono); comprendiamo che i diritti umani e il diritto internazionale non hanno alcuna influenza nelle relazioni internazionali; e comprendiamo che la soluzione dei due Stati, che nessun governo al mondo crede davvero sia un risultato plausibile, è diventata semplicemente un meccanismo conveniente per la gestione del conflitto, poiché Israele sta gradualmente prendendo il controllo dell’intero Paese .

Come Gideon Levy scrive nel suo pezzo in questo numero speciale del giornale:

“L’alternativa alla soluzione dei due Stati è, naturalmente, la soluzione di uno Stato. Questo Stato esiste già da 52 anni, dalla guerra del 1967. È giunto il momento di riconoscere anche quello. L’occupazione esiste per rimanere, così come gli insediamenti. E la Green Line è stata cancellata molto tempo fa, che ci piaccia o no. Non stiamo più parlando di una situazione temporanea, ed è dubbio che lo sia mai stata o che si pensasse lo fosse. Chiunque parli dell’occupazione come fenomeno di passaggio non conosce la realtà e i fatti sul campo. Andate in Cisgiordania, guardate gli insediamenti ebraici su ogni collina e poi dte se è così che appare una realtà temporanea. Prestate attenzione al traffico sulle strade, alle costruzioni, alle infrastrutture delle strade secondarie appositamente costruite per rendere permanente l’occupazione e consentire agli insediamenti di prosperare indisturbati. Guardate il Muro di separazione e la realtà che ha creato e capirete cosa resta della Linea Verde. Non  ci sono stati 52 anni di occupazione.  Sono stati i primi 52 anni.

Ecco come appare uno Stato, non le infrastrutture per due Stati. Ecco come appare uno Stato con due  governi… Un unico Stato esiste da tempo. Il destino di tutti gli esseri umani che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è deciso negli edifici governativi di Gerusalemme e negli edifici di sicurezza di Tel Aviv. Ecco come appare uno Stato con un solo governo, punto.

L’unica lotta che resta da svolgere ora è la lotta sulla natura del governo di  questo unico Stato … […]

Questo è il momento di prepararsi per la prossima lotta: la lotta per la parità di diritti per tutti, punto “.

Israeliani sventolano la bandiera nazionale il 1 ° luglio 2011 mentre in circa 40.000 marciano nei quartieri arabi della città nel “Giorno di Gerusalemme” per celebrare la conquista di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni nel giugno 1967. (Foto: Mahfouz Abu Turk / Immagini APA)

Colonialismo, non “conflitto”.

Ma stiamo cominciando a comprendere una realtà di fondo molto più consequenziale: che il sionismo è un movimento colonialista (dei coloni) il cui scopo generale e inevitabile è la redenzione della Terra di Israele, ovvero, la giudaizzazione della Palestina e la trasformazione di un Paese arabo in uno ebraico. L’idea dei due Stati si basa sul fondamentale fraintendimento di “conflitto”. Nel suo articolo presente nel numero speciale e intitolato “La soluzione dei due Stati rimane l’unica via per una risoluzione concordata del conflitto “, Jake Walles, ex console generale e capo missione statunitense a Gerusalemme, coinvolto nei colloqui di Madrid, esprime questo malinteso.

“Fondamentalmente”, scrive, “il conflitto riguarda due gruppi che rivendicano ciascuno la stessa terra come loro terra natale. Ogni parte è attaccata a questo luogo per motivi nazionali e religiosi, e ogni parte fa valide affermazioni storiche per sostenere il proprio caso. [….]

La risoluzione del conflitto richiede la riconciliazione delle aspirazioni nazionali per  una propria patria di entrambe le parti. Per il popolo ebraico, Israele rappresenta il raggiungimento di questo obiettivo e la sua legittimità deve essere riconosciuta come parte della risoluzione del conflitto. Allo stesso modo, le aspirazioni nazionali del popolo palestinese possono essere raggiunte solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese a fianco di Israele “.

Considerare il sionismo come un movimento colonialista che non ha bisogno di essere privato del suo carattere di movimento nazionale, ma che chiarisce semplicemente la strategia utilizzata dagli ebrei nazionalisti per conquistare il Paese, è una sfida alla simmetria dei due popoli, con cui di solito il conflitto viene rappresentato e su cui poggia l’idea dei due Stati. Dal punto di vista sionista, non  esiste  un’altra parte . Tutti i movimenti coloniali inventano storie sul perché la terra appartiene a loro e non agli autoctoni, sul perché hanno il diritto di rivendicare e possedere l’ambita nazione. Il sionismo non ha mai riconosciuto l’esistenza stessa di un popolo palestinese, per non parlare dei suoi diritti nazionali, e continua a non riconoscerlo. Il colonialismo dei coloni è unilaterale. Il Paese appartiene esclusivamente a noi, non ci sono altri legittimi richiedenti e non abbiamo nulla su cui negoziare, tranne i termini della sottomissione dei nativi. E poiché non ci sono “parti”, non c’è “conflitto”.

Il sionismo non ha mai riconosciuto un conflitto israelo-palestinese, solo “terrorismo” (termine coloniale per antonomasia che criminalizza ogni resistenza) che ostacola il riscatto della nostra patria. Ora capiamo perché Israele non ha mai accettato il termine “occupazione” (come puoi occupare il tuo Paese?) E perché non accetterà mai la soluzione dei due Stati.

C’è un altro fatto politico che i sostenitori dei due Stati non vedono o non vogliono vedere: tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano esiste già un unico sistema statale. Da nessuna parte si può entrare nel Paese senza passare attraverso i controlli alle frontiere israeliane. L’intero Paese è governato da un’autorità politica (con il dovuto rispetto per la collaborante Autorità Palestinese e per Hamas assediata nella sua buca infernale) sostenuta da un esercito efficace. Esiste una sola infrastruttura per elettricità, acqua, autostrade etc..E una sola valuta ufficiale. Più di un milione di ebrei israeliani ora vivono nella terra che avrebbe dovuto essere uno Stato palestinese. Ad ogni modo uno Stato esiste già – ed è uno Stato di apartheid. Gli ebrei israeliani (e in misura molto minore i cittadini palestinesi di Israele) vivono sotto un  governo legale, i non cittadini non ebrei vivono in un regime militare / legale completamente diverso. Diversi gruppi nazionali, religiosi ed etnici che vivono sotto sistemi giuridici separati all’interno di un sistema politico comune, questo è apartheid.

Ora, nonostante tutto, le brave persone supportano ancora il sistema dei due Stati. In effetti, l’essenza di questo numero del Palestine-Israel Journal è che, nelle parole dell’ufficiale di carriera Shaul Arieli, “Non esiste altra soluzione”. Sospetto che la ragione di ciò sia l’impegno nei confronti di Israele come Stato ebraico , per il quale i suoi sostenitori sono pronti a sopportare la gestione indefinita del conflitto pur continuando a “parlare” delle oltraggiose violazioni israeliane dei diritti umani. Ma per essere onesti, fino a poco tempo fa i Palestinesi e i loro alleati israeliani non  avevano articolato un’alternativa dettagliata e ponderata alla soluzione dei due Stati, un’alternativa veramente giusta, praticabile e plausibile per un solo Stato . Tuttavia, questa alternativa sta guadagnando slancio, meno a causa della sua intrinseca giustizia, di più perché, per la maggior parte delle persone in Palestina / Israele e per gli analisti e gli attivisti all’estero, la soluzione dei due Stati è chiaramente morta.

Negli ultimi due anni, la One Democratic State Campaign (ODSC), guidata inizialmente da cittadini palestinesi di Israele e dai loro partner ebrei israeliani, ha formulato un programma dettagliato. Riconosce che poiché il problema non è semplicemente l’occupazione israeliana del 22% della Palestina storica o un conflitto tra due parti, ma il colonialismo dei coloni, l’unica soluzione giusta, completa ed efficace è la decolonizzazione dell’intero Paese. Il suo programma in 10 punti può essere sintetizzato in sette elementi fondamentali:

(1) Sostituzione dell’attuale struttura israeliana di separazione delle persone in distinti gruppi etnici, religiosi e nazionali con diversi diritti con una democrazia costituzionale basata sulla cittadinanza comune per tutti e pari diritti civili;

(2) Riconoscimento del diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti di tornare a casa  prendendo provvedimenti concreti per reintegrarli nella società;

(3) Offerta di garanzie costituzionali a tutela dei diritti delle comunità nazionali, etniche, religiose del Paese e di altre identità collettive, associazioni, culture e istituzioni;

(4) Abilitare  e favorire l’emergere di una nuova società civile condivisa;

(5) Liberare palestinesi e israeliani attraverso un processo di decolonizzazione non solo politica ma anche ideologica, compresa una nuova narrazione nazionale inclusiva. Se gli ebrei israeliani riconosceranno i diritti nazionali del popolo palestinese e i precedenti crimini coloniali stabilendo una democrazia egualitaria, i palestinesi li accetteranno come cittadini e vicini legittimi, segnando  così la fine del colonialismo dei coloni sionisti ed entrando in una nuova relazione postcoloniale di intesa, normalizzazione e riconciliazione.

(6) Mettere in atto un’economia post-neoliberista inclusiva che offra sicurezza economica, sostenibilità, occupazione e giustI compensI;

(7) Riconoscere una connessione con le più ampie comunità mediorientali e globali  con la creazione di nuove strutture regionali e globali di uguaglianza e sostenibilità dalle quali dipende in definitiva il successo della decolonizzazione locale.

È una soluzione plausibile? Vediamo come nel suo articolo sul Palestine-Israel Journal il Piano ODSC si oppone alle ragioni fornite da Klug, per  il quale un singolo Stato è impossibile:

“La sua particolare visione di uno Stato si basa sulla nozione semplicistica che le complesse società mediorientali possono essere atomizzate fino a un livello individuale e che lo scontro storico di due movimenti nazionali può essere ridotto a una lotta unidimensionale per i diritti civili. Sconta il bisogno rudimentale di entrambi i popoli di venire a patti con l’imperativo nazionale dell’altro. In effetti, si basa sul fatto che non esiste un tale imperativo nazionale. Questa negazione, che sia dottrinale o semplicemente frutto di disinformazione, è il suo difetto più grave. ”

Le obiezioni alla soluzione dei  due Stati

Il nostro piano ODSC tiene conto non solo delle identità nazionali di palestinesi e israeliani, ma anche di altre importanti identità collettive, siano esse etniche (beduine, mizrahi, samaritane), religiose (i molti rami e denominazioni dell’ Islam, l’ebraismo, il cristianesimo e altre fedi, come i Bahai), genere, classe o comunità di appartenenza . L’articolo 4 del nostro programma recita:

Nel quadro di un unico Stato democratico, la Costituzione proteggerà anche i diritti collettivi e la libertà di associazione, sia essa nazionale, etnica, religiosa, di classe o di genere. Le garanzie costituzionali garantiranno che tutte le lingue, le arti e le culture possano prosperare e svilupparsi liberamente. Nessun gruppo o collettività avrà alcun privilegio, né alcun gruppo o collettività avrà alcun controllo o dominio sugli altri. La Costituzione negherà al Parlamento l’autorità di emanare leggi che discriminino qualsiasi comunità, sia essa etnica, nazionale, religiosa, culturale o di classe.

Riconosciamo che sia in Medio Oriente, patria di palestinesi ed ebrei Mizrahi, sia nell’Europa orientale, dove ebbe origine il sionismo, la società era composta da gruppi collettivi, principalmente religiosi, ma spesso con forti caratteristiche etniche o nazionali e non da semplici individui. Fingere che il nuovo Stato sarà composto solo da singoli elettori, ignorando le identità collettive che in realtà sono le più significative per la popolazione,  porterebbe ad ignorare gli interessi e le agende collettive piuttosto che affrontare apertamente le problematiche da esse poste. Ci aspettiamo che gli arabi palestinesi e gli ebrei israeliani  facciano riferimento a quelle identità, alle loro narrazioni collettive e alle loro istituzioni, ai riti  e ai ricordi comuni anche all’interno della nuova società democratica,  perlomeno nelle prime generazioni.

Prendiamo come esempio i rifugiati palestinesi. Dopo oltre 70 anni, molti di loro e delle famiglie dei loro discendenti vogliono tornare a casa in Palestina, come palestinesi. Coloro che vivono nei campi non hanno però idea o esperienza di una società civile composta da individui uguali e certamente avranno difficoltà a trovare una causa comune con gli ebrei israeliani.  Avranno bisogno  di uno spazio collettivo per tornare a casa, per riorientarsi, avranno bisogno di lavorare per superare i traumi dell’esilio e acquisire le competenze necessarie per un’economia moderna e una politica inclusiva. Questi sono processi che richiederanno generazioni; i rifugiati non possono semplicemente essere spinti a vivere in una società civile non interamente propria.

Allo stesso modo, molti ebrei israeliani, forse la grande maggioranza, in particolare la popolazione dei coloni e degli ultraortodossi, faranno resistenza nell’adattarsi a vivere in una società civile e democratica basata sui cittadini. (Come si adatteranno i Mizrahim, se riusciranno a utilizzare il loro potenziale di essere un “ponte” tra la popolazione dominante Ashkenazi e i Palestinesi, resta tutto da vedere.)

Il piano ODSC offre quindi una via di mezzo. Consentendo e proteggendo spazi collettivi come scuole religiose, istituzioni, festività, musei, veicoli linguistici come  giornali e libri, celebrando il carattere multiculturale della società, incoraggiando cibi etnici, musica e teatro,  condividendo festività e tradizioni di diversi gruppi culturali, la spinta della politica pubblica sarà di  indirizzare verso una società civile comune, seppure pluralistica, basata su uguali diritti individuali.

Klug scrive,

“I sostenitori di questa visione […]emulano una vecchia tradizione occidentale che storicamente ha imposto dall’esterno i propri valori e sistemi su altri popoli. L’istinto di fare questo […] tradisce la  mentalità neocoloniale di base del ” noi sappiamo fare  meglio” che per generazioni ha causato caos in tutto il mondo. Che ci siano pochissimi esempi di questo modello democratico-secolare in stile occidentale nella regione, dovrebbe almeno far riflettere i suoi ardenti sostenitori. ”

Questa è una strana affermazione proprio perché ignora l’eredità del colonialismo occidentale. Chi dice che la democrazia è un sistema occidentale respinto dai popoli del Medio Oriente? Chi dice che i regimi autocratici che governano oggi i Paesi musulmani siano naturali per i loro popoli? I regimi dispotici della regione sono il prodotto del colonialismo, applicato fino ad oggi dai cosiddetti governi occidentali democratici. L’Islam garantiva i diritti delle donne molto prima che esistessero il cristianesimo o l’ebraismo, e già negli anni ’20 in Egitto, Nordafrica e Afghanistan  esisteva un vivace movimento femminista. Le intifade, la primavera araba, la rivolta contro Assad in Siria iniziata dalle forze progressiste, le società altamente secolarizzate e progressiste che hanno caratterizzato l’Iraq, l’Afghanistan e il Libano nella prima metà del Ventesimo secolo, tutto ciò indica che i popoli della regione avevano concetti occidentali di società e governo, molti dei quali furono indeboliti o apertamente contrastati dai governi coloniali occidentali, o addirittura rovesciati, come fece la CIA con il governo di Mohammad Mosaddegh in Iran nel 1953, sostituendolo con il dispotico Shah.

Al contrario, noi in Occidente (e in particolare nell’Israele democratico, dove abbiamo espulso un altro popolo mediorientale e nell’ultimo mezzo secolo l’abbiamo mantenuto sotto occupazione) dobbiamo ai popoli della regione il sostegno alla loro aspirazione alla democrazia. Ironia della sorte, la resistenza a uno stato democratico in Palestina / Israele viene dagli ebrei democratici, secolari, occidentali di Israele, non dai palestinesi.

Klug sostiene che “in uno Stato unitario, per l’inevitabile governo di coalizione israelo-palestinese, in cui il fragile equilibrio demografico sarebbe politicamente critico, sarebbe altamente improbabile raggiungere un accordo su vasta scala sul diritto al ritorno palestinese, un aspetto centrale del programma di quello Stato. ”

Questa affermazione si basa su un malinteso fondamentale: che ci sarebbe una coalizione di partiti simile al Libano basata su motivi etnici, nazionali e religiosi. Questa non è la nostra visione. Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Canada, Sudafrica, Nuova Zelanda, India e molti altri paesi multinazionali hanno democrazie di successo in cui le persone non votano necessariamente in base alle loro identità collettive. Nella stessa Israele, circa 20.000 ebrei votano per i partiti “arabi” (che hanno anche una rappresentanza ebraica), mentre la metà dei cittadini palestinesi israeliani vota per partiti sionisti, da Meretz e Labour a Shas e persino al Likud. In una democrazia, molti altri fattori contribuiscono all’equilibrio oltre a nazionalità, etnia, razza o religione: classe e genere svolgono ruoli chiave, oltre al supporto o all’opposizione a politiche governative e questioni specifiche. “Destra” e “sinistra”, “progressista” e “conservatrice”, “religiosa” e “secolare”, “rurale” e “urbana”, “giovane” e “vecchia” – queste e altre mille variabili si intersecano nella conduzione dell’attività quotidiana del convivere. Mentre emerge una nuova società civile basata sull’inclusione politica, economica e sociale, non vi è alcun motivo per cui un diverso elettorato non potrà diluire, se non sostituire del tutto, le divisioni etno-nazionali e religiose su cui Israele (molto più della Palestina) è fondata.

Il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi (i rifugiati non perdono il loro status civile solo perché fuggono da una guerra o dalla repressione, o sono scacciati, né lo perdono i loro discendenti) è un  punto imprescindibile in qualsiasi risoluzione del conflitto. È anche un diritto sul quale gli israeliani non hanno potere di veto. Mentre il loro reinserimento nella società sarà prolungato e difficile, non c’è motivo di temere il loro ritorno, o persino di temere la popolazione a maggioranza palestinese. In effetti, con buona volontà e buona fede, la ricostruzione della società palestinese / israeliana può essere trasformata da una terribile minaccia in una sfida positiva.

Klug sostiene che “la creazione di un unico Stato non porrebbe fine  alla questione. Gli scozzesi, i catalani, i baschi e altri vivono in stati laici democratici con pari diritti. Ciò non ha impedito a molti di loro di  agire per ottenere l’autodeterminazione e la statualità separata. La Cecoslovacchia è stata uno Stato secolare democratico unito fino a quando nel 1993 una Slovacchia scontenta si è separata. ”

Forse la creazione di un unico Stato democratico  porrà fine alla questione. Forse, come la Cecoslovacchia, da un unico Stato emergerà una soluzione a due Stati, l’opposto di quanto è previsto. Forse quando con gli altri Stati della regione le relazioni si normalizzeranno, emergerà una forma più libera di confederazione; forse si arriverà a un’Unione araba o musulmana – o una qualsiasi delle tante possibilità. E allora? Fintanto che questi sviluppi avvengono in uno spirito di uguali diritti e relazioni di buon vicinato, perché non supporre che le realtà attuali possano cambiere e cambieranno? Non vedo un problema in questo.

Klug prosegue, ” sostenere un unico Stato significa fare il gioco dell’estrema destra israeliana, minando gravemente la campagna mondiale per porre fine all’occupazione attraverso il ritiro fisico di Israele  dalla Cisgiordania e offrendo legittimità agli insediamenti e alla politica di annessione”.

Ancora una volta, questa tesi di  contrapporre la fine dell’occupazione alla fine del colonialismo (dei coloni) è un mero riduzionismo. La semplice fine dell’occupazione non risolve il problema più ampio della colonizzazione sionista della Palestina, né le questioni di potere se e quando emergerà un piccolo e ridotto  Stato palestinese (né la questione dei rifugiati). Affrontare e risolvere il problema generale della decolonizzazione dell’intero Paese pone fine all’occupazione e  pone le premesse per  costruire un rapporto equo e giusto tra i due popoli. In questo modo viene affrontata l’intera gamma di disuguaglianze, con la decolonizzazione che offre un altro vantaggio cruciale per Israele: la normalizzazione. Solo gli autoctoni possono dichiarare la fine del colonialismo dei coloni e la nascita di una situazione in cui, in una società civile comune,  essi possano finalmente “rendere autoctona”  la popolazione coloniale. La semplice fine dell’occupazione non raggiunge questo obiettivo, eppure ciò rappresenta l’unica vera soluzione al conflitto.

Klug scrive,

Nel corso degli ultimi 60 anni ci sono stati nella regione diversi tentativi di unire entità separate, il più noto dei quali è stato la Repubblica Araba Unita (UAR) di Egitto e Siria, che durò, principalmente sulla carta, dal 1958 al 1961 , quando la Siria si ritirò. Se tali tentativi  sono miseramente falliti tra popoli che consideravano avere molti tratti in comune, perché dovremmo anticipare un risultato più positivo tra due popoli che non condividono tali tratti e che sono stati nemici acerrimi per oltre un secolo?

Ancora una volta, gli arabi palestinesi e gli ebrei israeliani sono nemici solo se la loro lotta è concepita come un conflitto tra due parti. Ci sono molte ragioni per cui l’UAR non ha funzionato, in parte perché Egitto e Siria non erano un singolo Paese o una singola popolazione.  Ciò è molto diverso dalla situazione di Palestina / Israele, dove i due popoli (rifugiati ed emigranti che vivono al di fuori del paese a parte) condividono una politica comune – sebbene sia quella della colonizzazione, dell’occupazione, della repressione e dell’apartheid. Molti legami – linguistici, economici, culturali, politici – collegano questi due popoli, nonostante le fondamentali disuguaglianze che entreranno in gioco appena emergeranno le condizioni per una nuova società civile inclusiva, anche nelle nuove generazioni. Abbiamo bisogno di musei e cerimonie commemorative perché, una volta risolto un conflitto, i giovani guardino velocemente al futuro.

Klug sostiene,

La  tesi di un unico Stato è spesso basata sulla premessa che la soluzione dei due Stati è fallita. Ma ciò non è stato dimostrato . Il problema è l’incapacità cronica delle potenze mondiali di applicare una giusta pressione attraverso una combinazione di premi e di sanzioni. Un fine diverso non cambierà questa situaizone. Una campagna più esigente e mirata potrebbe essere una campagna più esigente e mirata. Ricominciare da capo – con un obiettivo più controverso – rischia di rallentare seriamente  se non indefinitamente la lotta per un’equa fine del conflitto. ”

Senza dubbio, in un qualsiasi momento degli ultimi sette decenni e, anzi,  anche  oggi, il sostegno mirato e deciso alla soluzione dei due Stati da parte dei governi avrebbe potuto avere successo. In effetti, il diritto internazionale e le convenzioni sui diritti umani soffiano ulteriore vento in quelle vele. Deve anche essere chiaro: sia i palestinesi che  gli israeliani hanno sostenuto la soluzione dei due Stati. La nostra tesi secondo cui tale soluzione è morta e che dobbiamo quindi  andare  oltre, non deriva da un rifiuto di questo approccio, ma dal fatto che non è accaduto e chiaramente non accadrà. La Realpolitik è troppo forte, come descrivo in dettaglio nel mio libro “La guerra contro il popolo”. Pochi politici, pochi partiti politici e nessun Paese o combinazione di Paesi  faranno pressione o spenderanno il capitale politico necessario per costringere Israele a uscire dai Territori Occupati, dove vivono attualmente oltre un milione di coloni.

Dobbiamo stringere i denti. Affermare semplicemente  che la soluzione dei due Stati è ancora viva, così come fa  Klug e la maggior parte di chi ha contribuito  a questo numero del Palestine-Israel Journal, J Street e tutti gli altri, e ciò nonostante il fatto che i governi USA e israeliano ora la rifiutino – non aiuta. Le risposte di Klug alla domanda che pone: “Quindi cosa si può fare?” non sono convincenti:

“Idealmente”, scrive, “Israele farebbe il punto della situazione e cambierebbe bruscamente rotta dichiarando la sua intenzione di porre fine all’occupazione, accettare i principi generali della Arab Peace Initiative e avviare autentici negoziati con tutte le parti con il preciso scopo di terminare il conflitto una volta per tutte. In caso contrario, la comunità internazionale potrebbe chiedere a Israele di riconoscere immeditamente  uno Stato palestinese o, in attesa della risoluzione del conflitto, di concedere uguali diritti a tutti coloro che sono soggetti al suo dominio “.

Questa non è una soluzione o una strategia.

bambini palestinesi  mostrano manifesti del presidente Mahmoud Abbas durante una manifestazione per sostenere il processo di pace nel campo profughi di Balata vicino alla città di Nablus in Cisgiordania il 17 luglio 2010. (Foto: Wagdi Eshtayah / Immagini APA)

Verso una strategia

Vi sono tre realtà alla base della strategia ODSC: 1. la soluzione dei due Stati è morta e sepolta; 2. né gli ebrei  israeliani, né i governi del mondo coopereranno per cambiare radicalmente l’attuale status quo;  3. la causa palestinese ha raggiunto in tutto il mondo le proporzioni di una lotta anti-apartheid, ma un’efficace mobilitazione  internazionale richiede una fine del gioco. E così l’ODSC segue l’esempio dell’ANC in termini di mobilitazione di tre principali popolazioni target: palestinesi, ebrei israeliani e la comunità internazionale, la società civile e i governi.

La lotta per la decolonizzazione deve essere guidata, ovviamente, dai palestinesi. È la loro lotta e nessun altro può definire per loro ciò che comporta la decolonizzazione, cosa la sostituirà e chi rappresenterà la loro voce collettiva. In apparenza sembra che i palestinesi abbiano poco potere : dopo un secolo e un quarto di implacabile espansione dei coloni, il 60 percento dei palestinesi vive in esilio, Israele è pronto ad annettere la maggior parte della Cisgiordania, è riuscito  a rompere la resistenza armata palestinese nel 2002 (con l’eccezione localizzata di Gaza) e gode del sostegno della stragrande maggioranza dei governi del mondo, compresi molti arabi e musulmani. Ma la repressione israeliana della resistenza palestinese non è in alcun modo completa . Esistono molti spazi di libero arbitrio e di resistenza all’interno di una struttura di colonialismo dei coloni, sia in Palestina / Israele che certamente a livello internazionale. Come sfruttare quegli spazi e generare un’efficace resistenza globale è il compito della strategia politica. La decolonizzazione implica scuotere le convinzioni dei coloni, delineare un avvincente futuro condiviso, alterare fondamentalmente le relazioni di potere, produrre nuove identità, nuove narrazioni, nuovi sistemi di significazione e una nuova politica e società civile.

Un importante alleato politico in questa lotta è la società civile internazionale e, se efficacemente pressati, i governi. Sebbene in Palestina la lotta per la libertà abbia raggiunto le proporzioni mondiali della campagna anti-apartheid, né l’Autorità Palestinese né la leadership di base palestinese, né gli alleati israeliani e internazionali della Palestina hanno organizzato efficaci campagne politiche. È vero, ci sono state campagne e atti di resistenza che nel corso degli anni hanno spostato l’opinione pubblica a favore dei palestinesi: la campagna BDS globale ma politicamente limitata è la più visibile, così come le intifade, la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, il lavoro educativo di organizzazioni per i diritti umani, gli interventi da parte di gruppi di attivisti, ma tali azioni rimangono limitate dalla mancanza di un fine gioco politico, senza il quale non possiamo concentrarci sull’interrogativo più basilare dei nostri sostenitori e avversari: cosa volete? (La risposta che spesso viene fornita, un “approccio basato sui diritti”, è vaga e manca di un target finale e di un piano di decolonizzazione.) Una volta che la nostra campagna si concentra su uno scopo  finale giusto, accettabile e praticabile – che l’OSSS suggerisce essere la decolonizzazione  in quanto porta a un’unica democrazia e a una nuova società civile inclusiva – non c’è motivo per cui non possiamo superare tutti gli ostacoli politici.

Tutto ciò nonostante il fatto che, come in Sudafrica, dove i bianchi non erano – e non ci si aspettava che fossero – agenti attivi nella lotta per smantellare l’apartheid, in Israele anche la popolazione ebraica non può essere considerata come partner. Quando il diritto dei coloni si normalizza e gli autoctoni diventano irrilevanti e criminalizzati, ci sono poche possibilità che la difesa della decolonizzazione abbia una qualche trazione. Ciò non significa che alcuni (piccoli) segmenti della popolazione israeliana non possano essere  coinvolti e, in effetti, possono svolgere un ruolo chiave prestando credibilità alla lotta. Il loro coinvolgimento dimostra anche la possibilità di coesistenza all’interno di una società futura egualitaria e condivisa. Ciò è importante perché, in merito ai pericoli dell’ipotesi di uno Stato, in questo numero del Palestine-Israel Journal Menachem Klein indica la probabilità di una guerra civile tra ebrei israeliani, “a meno che, in una tale eventualità, non affrontiamo la questione di come fare per ridurre il danno potenziale. ”Ritengo che la resistenza condivisa porti alla vita condivisa in una società postcoloniale, anche perché offre ai membri della società dei coloni l’opportunità di acquisire la legittimità e l’indigeneità che cercano così disperatamente, ma che non possono essere ottenute attraverso la forza e la repressione. È l’unico modo in cui gli ebrei torneranno mai a casa in Israele e in Medio Oriente, l’essenza della visione sionista.

Per aiutare a spianare la strada ed evitare conflitti, il Programma ODSC prevede una trasformazione da un regime di apartheid coloniale a uno Stato di pari diritti per tutti i suoi cittadini. Sebbene gli ebrei israeliani non saranno partner nella decolonizzazione della Palestina, la natura inclusiva del nostro programma permetterà loro, una volta reso insostenibile il loro sistema di coloni, di andare avanti per abbracciare una realtà fondamentalmente diversa. Solo l’inclusività della Carta della libertà e della nuova Costituzione hanno permesso che la transizione in Sudafrica avvenisse pacificamente. Questo potrebbe accadere anche in Palestina / Israele.

Grazie a un fine gioco politico che anticipa e affronta le molte paure e obiezioni sollevate da coloro che non possono vedere oltre l’attuale stato delle cose o che si rifiutano di vedere oltre la ormai defunta soluzione dei due Stati, possiamo andare avanti per focalizzare le nostre energie  sul nostro vero compito: raggiungere la mobilitazione politica  per la fine effettiva della decolonizzazione e la creazione di una nuova società democratica inclusiva, che sia veramente una luce per le nazioni.

Jeff Halper

Jeff Halper è il direttore dell’ Israel Committee Against House Demolitions (ICAHD) e membro della One Democratic State Campaign (ODSC). Può essere raggiunto a jeff@icahd.org.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”- Invictapalestina.org

 

 

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