Prigionieri palestinesi nel mezzo dell’epidemia di COVID-19

“Sappiamo che se un prigioniero politico palestinese contrae il coronavirus, Israele non rimuoverà un respiratore da un  israeliano per darlo a un Palestinese, non rimuoverà un israeliano da un letto per darlo a noi. Non fornirà l’assistenza medica richiesta in quanto non la fornisce in circostanze normali e sappiamo che non ci tratteranno come seconda o terza classe ma come ultima classe”.
– Mahmoud, un palestinese venticinquenne di Nablus ora confinato nella prigione israeliana di Nafha.

Fonte – English version

Di Issam A. Adnan – 16 Maggio 2020

Il sistema carcerario israeliano (IPS) ha recentemente rilasciato 500 dei suoi cittadini dalle prigioni nel tentativo di frenare la diffusione del nuovo coronavirus, a questi dovrebbero aggiungersene circa altri 400. Eppure, allo stesso tempo, le autorità israeliane stanno detenendo quasi 5.000 Palestinesi in condizioni difficili e insalubri, tra cui 43 donne, 183 minori (20 di età inferiore ai 16 anni) e 700 con criticità mediche preesistenti. In effetti, il numero ha continuato a crescere, anche dopo che la pandemia è diventata evidente. Da marzo, le forze israeliane hanno arrestato 357 palestinesi, tra cui 48 bambini e quattro donne.

Tuttavia, l’IPS non ha fatto lo stesso per i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Questo, nonostante l’appello dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet di rilasciare “tutte le persone detenute senza una base giuridica sufficiente, compresi i prigionieri politici, e quelli detenuti per opinioni critiche e dissenzienti.” Tutti i prigionieri palestinesi sono stati arrestati per aver commesso atti di resistenza all’occupazione israeliana, e attualmente 432 di loro sono detenuti senza accusa.

Contagio di prigionieri palestinesi 

I prigionieri palestinesi hanno molte più probabilità di contrarre COVID-19 rispetto alla normale popolazione palestinese, anche di quella che vive negli affollati campi profughi. Vivono con una dilagante negligenza medica, sovraffollamento, ventilazione inadeguata, mancanza di accesso ai servizi igienici e cattiva alimentazione. Queste condizioni aggravano i pericoli rappresentati dalle alte percentuali di malattie croniche non trattate dei detenuti, rendendo le prigioni israeliane un terreno fertile per COVID-19.

“Nell’ultimo mese, Israele ha rilasciato centinaia di prigionieri israeliani come misura preventiva e protettiva. Non applicando le stesse identiche misure ai prigionieri palestinesi. Ciò indica un trattamento discriminatorio nei confronti dei prigionieri palestinesi, che costituirebbe una violazione del diritto internazionale”. afferma un gruppo di esperti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani.

Al contrario, Defense for Children International riferisce che il numero di bambini palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane e centri di detenzione è aumentato del 6% da gennaio, nonostante la pandemia di coronavirus e i numerosi appelli per diminuire il numero di persone in stato di detenzione.

“Le autorità israeliane devono rilasciare immediatamente tutti i bambini palestinesi prigionieri”. ha detto Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di responsabilità presso il DCIP. “Il fatto che le forze israeliane continuino a detenere bambini palestinesi e ne detengano la stragrande maggioranza in detenzione cautelativa è inconcepibile dato il crescente rischio rappresentato dal COVID-19 alle persone private della loro libertà”.

Invece, vengono rilevate pratiche opposte: Da marzo, 357 palestinesi provenienti da varie città e villaggi della Cisgiordania, tra cui Betlemme, l’epicentro del COVID-19 nei territori palestinesi, sono stati arrestati. Tra questi c’era Nour al-Din Sarsour, che è stato interrogato nel centro di Ma’bar Ofer, poi rilasciato il 31 marzo. Il giorno dopo, è risultato positivo al coronavirus, provocando paura e confusione tra le famiglie dei prigionieri. I detenuti hanno chiesto che gli investigatori e gli altri con cui erano stati in contatto fossero sottoposti a test e che i loro contatti con il personale fossero ridotti, ad esempio effettuando il controllo dei detenuti tramite telecamera. Tuttavia, l’IPS si limitò a isolare alcuni prigionieri che erano stati in contatto con Sarsour e limitò il loro movimento tra le strutture carcerarie, impedendo così le visite alle cliniche mediche e agli ospedali che erano state programmate molto tempo prima. Sebbene l’amministrazione carceraria abbia promesso di testare i prigionieri, hanno praticato solo il controllo della temperatura.

Un altro caso in questione: la detenzione arbitraria di Mohamed Hasan, 21 anni, uno studente della Birzeit University, è stata estesa di otto giorni anche dopo la diagnosi di COVID-19. Viene trattenuto dagli israeliani in un centro di detenzione a Gerusalemme. Funzionari palestinesi avvertono che Hasan potrebbe mettere a rischio di contrarre il virus centinaia di altri prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

Allo stesso modo, la Palestinian Prisoners ‘Society (PPS), un’organizzazione che sostiene i palestinesi incarcerati da Israele, ha dichiarato che quattro prigionieri palestinesi nelle sezioni 5, 6 e 10 di Megiddo sono stati confermati positivi per aver contratto il virus tramite un investigatore israeliano.

Condizioni di detenzione

Il Servizio penitenziario israeliano ha recentemente rimosso 140 articoli essenziali, tra cui alcuni tipi di generi alimentari, prodotti per la pulizia e forniture di sterilizzazione per la mensa da cui i prigionieri palestinesi devono acquistare i beni essenziali. Ciò che rimane sono prodotti onerosi che costano molto più di quanto costerebbero fuori. Nel frattempo, l’IPS ha anche interrotto i sussidi pagati dall’autorità nazionale palestinese per i prigionieri, rendendo più difficile per loro permettersi anche le forniture essenziali. In contrasto con il modo in cui gli israeliani trattano i propri prigionieri: infatti l’IPS ha versato centinaia di shekel nei conti dei prigionieri israeliani concedendogli un ulteriore versamento di duecento shekel durante le festività della Pasqua ebraica.

Le cliniche mediche nelle carceri israeliane e nei centri di detenzione offrono solo servizi sanitari minimi; le segnalazioni dall’interno indicano che ai malati viene somministrato solo il paracetamolo come antidolorifico, indipendentemente dalla patologia. Quando la malattia dei detenuti si aggrava da necessitare il trasferimento in ospedale, durante il trasporto vengono incatenati  mani e piedi.

Considerate questa testimonianza personale di un prigioniero di venticinque anni di nome Mahmoud, raccolta dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che è stata così sintetizzata:

“In questa sezione notoriamente vecchia della prigione di Nafha dove sono detenuto, ci sono più di sette prigionieri anziani ammalati. Gestiamo la nostra vita quotidiana con grande cura dopo che l’autorità carceraria ha smesso di fornire oltre 140 articoli di generi alimentari e prodotti per la pulizia essenziali di cui abbiamo un disperato bisogno. Hanno iniziato ritirando il cloro igienizzante, restituendolo quando abbiamo protestato. I prezzi di questi articoli a magazzino sono il doppio dei prezzi di mercato, e sappiamo che l’autorità penitenziaria e la società Dadash, che commercializza gli articoli, stanno derubando aumentando i prezzi e approfittando del nostro isolamento”.

“Il personale penitenziario prende precauzioni di sicurezza per proteggersi utilizzando sterilizzatori e indossando maschere e guanti, ma senza fornirci nulla di tutto ciò. Siamo consapevoli che prima o poi potremmo contrarre il virus, specialmente dopo aver saputo che il vicedirettore della prigione di Ofer è stato infettato dal virus. Pertanto, dipendiamo da noi stessi e abbiamo preso misure di protezione usando acqua calda, sapone e cloro, per sterilizzare le stanze, le sezioni e persino il cibo che fornisce il magazzino”.

“Sappiamo che se un prigioniero politico palestinese contrae il coronavirus, Israele non rimuoverà un respiratore da un israeliano per darlo a un Palestinese, non rimuoverà un israeliano da un letto per darlo a noi. Non fornirà l’assistenza medica richiesta in quanto non la fornisce in circostanze normali e sappiamo che non ci tratteranno come seconda o terza classe ma come ultima classe”.

Collegamenti con l’esterno

Dalla prima diffusione del virus a Betlemme il mese scorso, Israele ha cancellato tutte le visite famigliari, oltre a limitare quelle degli avvocati. La maggior parte dei processi sono stati rimandati. Nessun mezzo alternativo, come le videochiamate, per rimanere in contatto con i propri cari sono possibili, rendendo difficile per chi è all’esterno monitorare le violazioni. L’unica ancora di salvezza sono i telefoni cellulari occasionalmente introdotti clandestinamente.

Mahmoud, il prigioniero citato sopra, dice: “Per la prima volta dal nostro arresto, riteniamo di essere noi quelli che dobbiamo preoccuparci delle nostre famiglie e degli amici, e non il contrario. In tali condizioni, è il diritto umano più elementare sapere come stanno, date le limitazioni di movimento e il contagio di molti cittadini in Cisgiordania, dove vivo. È anche loro diritto assicurarsi che stiamo bene”.


Come protestare?

Non ci sono vie legali per questi prigionieri e le loro famiglie per protestare. Disperato, Ayman Al-Sharabati diede fuoco ad una sala di controllo nella prigione di Nafha. Nella prigione di Negev, i detenuti hanno rifiutato i pasti. La risposta è stata più abuso e isolamento. Tuttavia, una settimana dopo, l’IPS ha approvato alcune delle richieste dei prigionieri di misure preventive. Comunque, la loro più grande speranza è uno scambio di prigionieri con Israele, che è ansioso di recuperare quattro dei suoi soldati catturati dalla resistenza palestinese. Ognuno dei quasi cinquemila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane sta pensando ogni notte all’elenco dei nomi messi insieme: “Il mio nome ci sarà?”

Cosa accadrà?

Il governo israeliano opera chiaramente secondo un doppio standard: uno per i propri cittadini, che rispetta le norme internazionali in materia di diritti umani e le libertà civili, e un altro per i palestinesi che imprigiona e occupa. Questo fatto non è nuovo; è evidente dal 1948, quando Israele fu creato in terra palestinese senza la nostra partecipazione.

Oggi, come allora, i palestinesi sono criminalizzati e disumanizzati, accusati anche di essere “ostili” quando proviamo ogni mezzo a nostra disposizione per ripristinare i nostri diritti umani fondamentali. Al contrario, Israele è protetto dal governo degli Stati Uniti  da qualsiasi tipo  di sanzione.

Questa, quindi, è la domanda: cosa resta da fare per i palestinesi?  Come potremo mai ottenere un po’ di sollievo per il nostro popolo imprigionato per aver resistito? Sembra che l’unico modo per costringere il governo israeliano al tavolo dei negoziati sia catturare i soldati israeliani, sia quando ci invadono che quando riusciamo a rapirli oltre il confine.

Se la cosiddetta “comunità internazionale” (si legge Stati Uniti, dal momento che controlla il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) non vuole che ricorriamo a tali tattiche, deve, per una volta, costringere le autorità israeliane a rispettare i loro obblighi in materia di diritti umani e diritto umanitario internazionale. Ciò significa, quanto meno, esercitare tutte le pressioni possibili per porre fine al blocco di Gaza e abbandonare l’intenzione annunciata da Israele di annettere la maggior parte della Cisgiordania. I governi e gli organismi internazionali devono appoggiare il Tribunale penale internazionale per un’indagine completa sulle violazioni dei diritti umani, da parte di Israele.

Nel frattempo, anche i palestinesi devono rivedere le loro strategie. Se il popolo non può costringere i propri leader politici a coalizzarsi, cosa può fare la società civile da sola? La resistenza non violenta, in particolare il movimento internazionale che richiede boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni (BDS), è stata una delle strategie più importanti che hanno contribuito a porre fine al regime di apartheid in Sudafrica.

Il BDS sta guadagnando terreno anche per la causa palestinese. Tuttavia, dobbiamo fare di più. Una via che non abbiamo ancora pienamente sfruttato è la mobilitazione con altri movimenti di popoli che sono ugualmente oppressi: le popolazioni, ad esempio, del Sahara occidentale e del Kashmir. E i neri e i nativi d’America, gli uiguri della Cina e i rohingya in Myanmar. Dopo tutto, ciò che i palestinesi vogliono è universale.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam