La guerra dei sei giorni: il “mito” di un Davide israeliano contro un Golia arabo

 

Figlio di un generale israeliano, Miko Peled riflette sul diabolico intento celato dietro quello che è stato presentato al mondo come l’eroico trionfo di un grande Israele contro i suoi bellicosi vicini arabi.

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Di Miko Peled – 5 Giugno 2020

Il 2 giugno 1967 è stata una giornata agitata nel quartier generale dell’esercito israeliano a Tel Aviv. Per settimane, i generali dell’IDF avevano spinto il governo ad intraprendere una guerra e l’atmosfera era tesa. Il primo ministro israeliano Levi Eshkol, che fu anche ministro della difesa, si è recato al centro di comando dell’IDF. Erano presenti tutti i generali che costituivano l’alto comando IDF. Questo incontro divenne noto come la resa dei conti. Anni dopo, alcuni avrebbero accusato l’esercito di aver tentato un  colpo di stato.

Un falso storico

Uno dei più grandi inganni architettati dall’esercito israeliano è l’invenzione che la guerra dei sei giorni fu iniziata da Israele a causa di una minaccia alla sua esistenza. La realtà è che nel 1967 l’esercito israeliano ha dovuto confrontarsi con un governo civile eletto che era meno entusiasta delle prospettive di guerra di quanto lo fossero i generali. Quindi, come si vede chiaramente nei verbali degli incontri tra i generali dell’IDF di quei giorni, verbali disponibili negli archivi dell’IDF, visto che il governo era indeciso, i militari decisero di seminare il panico, e lo fecero in modo molto efficace, sostenendo che lo stato ebraico doveva affrontare una minaccia esistenziale e che l’esercito doveva agire con decisione.

L’inganno funzionò e nei tre giorni successivi Eshkol fu costretto a cedere. Si dimise dal suo incarico di ministro della difesa e lo cedette al capo di stato maggiore dell’esercito in pensione, il generale Moshe Dayan. I generali israeliani hanno così ottenuto la guerra che tanto desideravano. Hanno iniziato un massiccio attacco contro l’Egitto, riducendo l’esercito egiziano in cenere e conquistando l’intera penisola del Sinai. Come risultato, l’IDF fu in grado di acquisire il più grande arsenale di materiale militare russo al di fuori dell’Unione Sovietica.

Il primo ministro israeliano Levi Eshkol  ritratto con il generale Peled, a destra, verso il 1967. Foto | Courtesy | Miko Peled

Israele avrebbe fatto buon uso delle conoscenze conseguite con questa operazione.

Catturò anche migliaia di soldati egiziani che erano schierati nel deserto del Sinai cogliendoli impreparati. Secondo le testimonianze degli ufficiali israeliani, almeno duemila prigionieri di guerra egiziani furono giustiziati sul posto e sepolti tra le dune.

Ma i generali non furono soddisfatti. Colsero l’opportunità che gli era stata data decidendo di sfruttarla al meglio. Senza alcuna discussione, e ancor meno l’approvazione del governo civile eletto, l’esercito procedette a prendere la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e qualcosa che i generali avevano ambito per anni, le fertili alture del Golan siriano, ricche di acqua, triplicando così le dimensioni dello Stato di Israele. Avevano finalmente completato la conquista della Palestina e spinto il confine orientale di Israele fino al fiume Giordano.

L’esercito si mosse come un bulldozer, distruggendo città e paesi nelle alture del Golan e in Cisgiordania. Di conseguenza, innumerevoli siriani che vivevano nelle alture del Golan e centinaia di migliaia di residenti palestinesi della Cisgiordania e Gerusalemme est divennero profughi.

Il mito della minaccia

Come i generali stessi dichiararono durante i loro incontri prima della guerra, l’intera faccenda riguardava cogliere l’opportunità di iniziare una guerra che sapevano avrebbero vinto, e non per evitare qualche minaccia incombente. Infatti, la parola “opportunità” è ripetuta più volte nelle loro discussioni mentre la parola “minaccia” non è mai nominata.

Un generale presente alla riunione del 2 giugno era mio padre, il generale Matti Peled. Secondo i resoconti di alcuni dei suoi compagni presenti, resoconti che in seguito ho verificato leggendo i verbali delle riunioni, si alzò e disse al Primo Ministro Eshkol che l’esercito egiziano era un esercito mal preparato e quindi Israele doveva cogliere l’occasione per distruggerlo. Dichiarò che l’esercito egiziano, che all’epoca si stava riprendendo da una guerra in Yemen, avrebbe avuto bisogno di almeno un anno e mezzo o due prima di essere efficiente. Gli altri generali concordarono. Mio padre andò oltre e disse che: “il comando dell’IDF chiede di sapere perché questo esercito che non ha mai perso una battaglia viene frenato”. Non disse nulla di una eventuale minaccia.

Generale Matti Peled in campo, giugno 1967. Foto | Courtesy | Miko Peled

Gran parte dei verbali della riunione del generale Peled sono inclusi nel mio libro, “Il figlio del generale”, ma è chiaro che Israele iniziò la guerra, non preoccupato per la propria sicurezza, ma per desiderio di dimostrare il suo potere usandolo per ottenere conquiste territoriali. Per chiunque prestasse attenzione, il risultato della guerra dimostrò che non poteva esserci una minaccia militare per Israele. Tuttavia, la gente era così infatuata dalla leggenda del piccolo Davide che si difendeva dall’assalto del malvagio Goliath da lasciarsi ingannare.

Intervento divino

C’è una storia che ho sentito dal rabbino Moishe Beck, un venerato rabbino ultra-ortodosso che viveva a Gerusalemme e che successivamente  si trasferì a New York. Gli ho chiesto perché avesse deciso di andarsene dopo la guerra dei sei giorni. Mi disse di essersi riparato in un rifugio antiaereo nel quartiere Me’a Sha’Rim di Gerusalemme da dove si poteva udire il fragore di bombardamenti poco lontani. A un certo punto, si sentirono gli aerei dell’aviazione israeliana volare sopra il rifugio e le persone iniziarono a fare riferimento ai successi dell’esercito israeliano come un segno di intervento divino. Trovava orrendo che la gente vedesse la forza militare dello stato sionista, che considerava criminale, come un intervento divino. Non appena ne fu in grado, prese la sua famiglia e con pochissimi mezzi, lasciò Gerusalemme. Non voleva che i suoi figli crescessero in un paese che idolatrava l’esercito israeliano, o qualsiasi altro esercito.

Molti anni dopo, mentre mi trovavo con amici ultra-ortodossi a New York, mi fu chiesto se era vero che la vittoria del 1967 era così imprevedibile che perfino i profani la vedevano come un intervento divino. Non c’era nulla di divino nell’assalto israeliano e nel furto di terre arabe. Non nel 1967 né in nessun altro momento. L’esercito israeliano era ben preparato, ben armato e ben addestrato e i generali sapevano che la vittoria era sicura.

Inciso nella pietra

Israele, infatti, aveva intenzione di occupare la Cisgiordania e le alture del Golan molto prima del 1967 e la guerra rappresentava l’occasione perfetta. Nelle sue memorie il secondo primo ministro di Israele, Moshe Sharet, descrive un incontro svoltosi a Gerusalemme nel 1953, dove erano presenti autorità di tutto il mondo. Era presente anche il primo primo ministro israeliano, David Ben-Gurion.

Uno degli interventi tenuti a questo incontro fu di mio padre, allora un giovane e promettente ufficiale dell’esercito. Fece il discorso in inglese, che parlava bene, e, tra le altre cose, dichiarò senza mezzi termini che l’IDF era preparato per il momento in cui avesse ricevuto l’ordine di “portare il confine orientale di Israele nel suo luogo naturale, il fiume Giordano”.

In altre parole, prendete la Cisgiordania e portate a termine la conquista della Palestina storica.

1967 Generali IDF. Rabin, a sinistra, Bar-Lev, al centro, Peled, a destra. Foto | Cortesia | Miko Peled

Oggi sappiamo che Israele aveva pianificato di occupare e imporre il proprio governo militare in Cisgiordania all’inizio del 1964. È anche ben noto che Israele iniziò scontri con l’esercito siriano nei primi anni ’60 nella speranza di trascinare la Siria in un guerra.

La USS Liberty

La mattina dell’8 giugno 1967, nel bel mezzo della guerra, la USS Liberty si trovava a circa 17 miglia dalla costa di Gaza, in acque internazionali. Essendo una nave che raccoglieva informazioni, non aveva capacità di battaglia ed era armata solo con quattro mitragliatrici calibro cinquanta come dissuasori. Per diverse ore durante la giornata, gli aerei da ricognizione dell’aviazione israeliana sorvolarono la Liberty in quelli che sembravano tentativi di identificazione. L’equipaggio non avvertì alcuna minaccia: al contrario, Israele era un alleato degli Stati Uniti.

Poi, alle 14:00 (ora locale) e senza alcun preavviso, i caccia israeliani lanciarono un attacco contro la USS Liberty. L’attacco comprendeva missili, artiglieria e persino napalm, una combinazione tossica e infiammabile di gel e petrolio che si attacca alla pelle e provoca gravi ustioni.

L’attacco si  concluse con 34 marinai statunitensi morti e 174 feriti, molti dei quali gravemente. Mentre i feriti venivano evacuati, un ufficiale dell’Intelligence della Marina ordinò agli uomini di non parlare con la stampa dell’accaduto.

Nelle tre settimane successive l’attacco, la Marina americana pubblicò un rapporto di 700 pagine che scagionava gli israeliani, sostenendo che l’attacco era stato accidentale e che gli israeliani si erano ritirati non appena resisi conto del loro errore.

Il segretario alla Difesa Robert McNamara suggerì che l’intera faccenda doveva essere dimenticata. “Questi errori si verificano”, concluse McNamara. Il desiderio degli Stati Uniti di vedere le armi sovietiche che Israele aveva in suo possesso era collegato alla facilità con cui il Pentagono insabbiò la faccenda.

Nel 2003, quasi quarant’anni dopo il fatto, fu istituita la “Commissione Moorer”, una commissione indipendente presieduta dall’ammiraglio in pensione Thomas H. Moorer, della marina degli Stati Uniti, per indagare sull’attacco. La commissione comprendeva un ex presidente dello Stato Maggiore Congiunto, un ex assistente comandante del Corpo dei Marines, ammiragli in pensione e un ex ambasciatore. Tra le sue conclusioni ci sono le seguenti:

“Le torpediniere israeliane hanno mitragliato i pompieri della Liberty, i barellieri e le scialuppe di salvataggio che erano state calate in acqua per salvare i feriti più gravi”.

“Temendo un conflitto con Israele, la Casa Bianca ha deliberatamente impedito alla Marina Americana di difendere la USS Liberty richiamando il supporto militare di soccorso della Sesta Flotta mentre la nave era sotto attacco, come mai era successo prima nella storia della marina americana, che una missione di salvataggio fosse stata annullata lasciando una nave americana indifesa”.

“I membri dell’equipaggio sopravvissuti sono stati minacciati di “corte marziale, reclusione o peggio” se avessero rivelato la verità”.

“A causa delle continue pressioni esercitate dalla lobby filo-israeliana negli Stati Uniti, questo attacco rimane l’unico grave incidente navale che non è mai stato investigato a fondo dal Congresso”.

 

In cinque giorni era finita. La guerra finì come previsto, con una imponente vittoria israeliana. Le Forze Armate Israeliane distrussero gli eserciti dei paesi arabi circostanti. Il bilancio delle vittime fu di 18.000 soldati arabi e 700 soldati israeliani.

Col senno di poi, si farebbe bene a smettere di chiamare ciò che avvenne nel giugno del 1967 una guerra, ma piuttosto un deliberato assalto israeliano ai paesi vicini. Il nome Guerra dei sei giorni non era una coincidenza. Israele prese il nome dalle scritture ebraiche, più specificamente dal libro di preghiera, dove si vedono, citazione dopo  citazione, riferimenti ai sei giorni della creazione divina.

Miko Peled è un autore e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme. È autore di “The General’s Son. Viaggio di un israeliano in Palestina “e” L’ingiustizia, la storia della Terra Santa Foundation Five”.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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