Come Amazon e Google aiutano Israele a sostenere il suo sistema di apartheid

ll servizio web esterno di Google e Amazon aiuterà Israele a espandere i suoi insediamenti illegali per soli ebrei “supportando i dati per l’Autorità della Terra Israeliana, l’agenzia governativa che gestisce e assegna la terra statale”.

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Ramzy Baroud – 21 marzo 2022

Le parole: “Siamo anonimi perché temiamo ritorsioni”, facevano parte di una lettera firmata da 500 dipendenti di Google lo scorso ottobre, quando denunciavano il sostegno diretto della loro azienda al governo e all’esercito israeliano. Nella loro lettera, i firmatari protestavano contro un contratto da 1,2 miliardi di dollari (1,1 miliardi di euro) tra Google, il Servizio Web Amazon e Tel Aviv che fornisce servizi web esterni per l’esercito e il governo israeliani che consentono “un’ulteriore sorveglianza e la raccolta illegale di dati sui palestinesi e facilita l’espansione degli insediamenti illegali di Israele in terra palestinese”.

Questo si chiama Progetto Nimbus. Il progetto è stato annunciato nel 2018 ed è entrato in vigore nel maggio 2021 nella prima settimana della guerra israeliana su Gaza assediata, che ha causato la morte di oltre 250 palestinesi e ne ha feriti molti di più.

I dipendenti di Google erano turbati dal fatto che, stipulando questo accordo con Israele, la loro azienda fosse stata coinvolta direttamente nell’occupazione israeliana della Palestina. Ma erano ugualmente indignati dal “modello inquietante di militarizzazione” che aveva visto contratti simili concordati da Google, Amazon, Microsoft e altri giganti della tecnologia con le forze armate statunitensi, il Servizio di Immigrazione e Controllo Doganale e altre agenzie di polizia.

In un articolo pubblicato sul quotidiano The Nation lo scorso giugno, tre rispettati accademici statunitensi hanno rivelato la componente finanziaria della decisione di Amazon di coinvolgersi in un affare così immorale, sostenendo che tali contratti legati all’esercito sono “divenuti una delle principali fonti di profitto per Amazon”. Hanno riferito che nel 2020 il Servizio Web Amazon da solo era fonte del 63% dei profitti della società.

La massima: “Le persone prima del profitto” non può essere più appropriata che nel contesto palestinese e né Google né Amazon possono dire di non saperlo. L’occupazione israeliana della Palestina è in atto da decenni e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite hanno condannato Israele per la sua occupazione, espansione coloniale e violenza contro i palestinesi. Se tutto ciò non bastasse a far svanire l’entusiasmo di Google e Amazon nell’impegnarsi in progetti che mirano specificamente a proteggere la “sicurezza nazionale” di Israele, ovvero la continua occupazione della Palestina, un rapporto schiacciante del più grande gruppo israeliano per i diritti umani, B’Tselem, avrebbe dovuto fungere da campanello d’allarme.

B’Tselem lo scorso gennaio ha dichiarato Israele uno Stato di apartheid. Il gruppo internazionale per i diritti umani Human Rights Watch l’ha seguito ad aprile. Erano passate solo poche settimane prima che il Progetto Nimbus fosse dichiarato. Era come se Google e Amazon dichiarassero di proposito il loro sostegno all’apartheid. Il fatto che il progetto sia iniziato durante la guerra israeliana a Gaza la dice lunga sul completo disprezzo da parte dei due giganti della tecnologia del diritto internazionale, dei diritti umani e della libertà del popolo palestinese.

La situazione è peggiorata. Proprio la scorsa settimana, centinaia di lavoratori di Google hanno firmato una petizione accusando l’azienda di “ingiusta ritorsione” contro una dei loro colleghi, Ariel Koren, che aveva partecipato alla stesura della lettera di ottobre. Koren era una responsabile commerciale del prodotto di Google for Education e lavora per l’azienda da sei anni. Tuttavia, è il tipo di dipendente che sembra non essere più gradita da Google, poiché l’azienda è ora direttamente coinvolta in vari progetti militari e di sicurezza.

“Per me, come dipendente ebrea di Google, provo un profondo senso di intensa responsabilità morale”, ha scritto in una dichiarazione lo scorso ottobre. “Quando lavori in un’azienda, hai il dovere di essere scrupoloso del modo in cui il tuo lavoro viene effettivamente utilizzato”, ha aggiunto. Google ha risposto rapidamente a tale affermazione. Il mese successivo, il suo responsabile “le ha presentato un ultimatum: Trasferirsi in Brasile o perdere la sua posizione”.

Koren non è stata la prima dipendente di Google, o Amazon, ad essere apparentemente punita per aver difeso una buona causa, né sarà l’ultima. In quest’epoca di militarismo, sorveglianza, riconoscimento facciale ingiustificato e censura, esprimere la propria opinione e osare lottare per i diritti umani e altre libertà fondamentali non è più un’opzione.

L’anno scorso, Amazon si è scusata per aver negato che alcuni dei suoi lavoratori dovessero urinare nelle bottiglie d’acqua. Le scuse sono seguite alla pubblicazione di prove dirette da parte del sito web di giornalismo investigativo The Intercept. Tuttavia, l’azienda, che è accusata di numerose violazioni dei diritti dei lavoratori, incluso il suo impegno in “attività antisindacali”, non si prevede invertirà la rotta in tempi brevi, soprattutto quando sono in gioco enormi profitti.

Ma i profitti generati da un monopolio di mercato e dal maltrattamento dei lavoratori sono diversi dai profitti generati contribuendo direttamente ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità. Sebbene le violazioni dei diritti umani dovrebbero essere evitate ovunque, indipendentemente dal loro contesto, la guerra di Israele al popolo palestinese, che ora ha l’aiuto di questi giganti della tecnologia, rimane una delle ingiustizie più gravi che continua a sfregiare la coscienza dell’umanità. Nessuna giustificazione di Google o razionalizzazione di Amazon può cambiare il fatto che stanno facilitando i crimini di guerra israeliani in Palestina.

Per essere più precisi, secondo The Nation, il servizio web esterno di Google e Amazon aiuterà Israele a espandere i suoi insediamenti illegali per soli ebrei “supportando i dati per l’Autorità della Terra Israeliana, l’agenzia governativa che gestisce e assegna la terra statale”. Questi insediamenti, ripetutamente condannati dalla comunità internazionale, sono costruiti su terra palestinese e sono direttamente collegati alla pulizia etnica in corso del popolo palestinese.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il progetto Nimbus è stato “forse la gara d’appalto più redditizia indetta da Israele negli ultimi anni”. Il progetto, che ha innescato una “guerra segreta” che ha coinvolto i massimi generali dell’esercito israeliano, tutti in lizza per una quota del profitto, ha anche stuzzicato l’appetito di molte altre società tecnologiche internazionali. Vogliono tutti far parte della spinta tecnologica israeliana, che ha l’obiettivo finale di mantenere i palestinesi segregati, occupati e oppressi.

Questo è precisamente il motivo per cui il movimento di boicottaggio palestinese è assolutamente critico, poiché prende di mira le compagnie internazionali che stanno migrando in Israele in cerca di profitto. Israele, nel frattempo, dovrebbe essere boicottato, non abilitato e sanzionato, non premiato. Mentre la generazione di profitto è comprensibilmente l’obiettivo principale di aziende come Google e Amazon, questo obiettivo può essere raggiunto senza richiedere la sottomissione di un intero popolo, che è già vittima di un regime di apartheid.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org