Anche se Israele si veste di rosa, resta apartheid

BDS COMISIÓN PINK WATCHING 29/06/2017

“Quando la gente vede che Israele è molto progressista in questo aspetto, penserà che non può esserlo solo in questo aspetto ma in tutto”

Negli anni ottanta, mentre il governo sudafricano si auto definiva democratico e definiva terrorista la lotta per i diritti umani della popolazione nera, l’intero mondo occidentale – società civile, istituzioni e governi – si trasforma nel movimento Anti-Apartheid per difendere l’uguaglianza di tutte le persone in Sudafrica.
In Israele, oggigiorno, si ripete la stessa situazione. É democratico uno stato che si dichiara esclusivamente (ed escludentemente!) ebreo, con decine di leggi che discriminano il popolo palestinese e ledono diritti basilari come quello all’educazione, alla casa, alla proprietà, alla cultura, alla libertà, al lavoro, o alla giustizia? Una etno-teocrazia che non ha né una costituzione né frontiere stabili e riconosciute? I cui coloni arrivano senza interruzione da tutto il mondo per occupare quotidianamente nuove terre dove vivono e lavorano i palestinesi, utilizzando la Torah come atto di proprietà e rinnegando il diritto internazionale e le molteplici risoluzioni e sanzioni delle Nazioni Unite? E’ veramente questa l’unica democrazia del Medio Oriente, un paese che si è annesso parte del territorio palestinese con un muro dichiarato illegale dal tribunale della giustizia dell’Aia? É questo Paese un modello da seguire per la lotta per i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer e intersessuali (LGBTQI+), una società dove si riconosce solo il matrimonio religioso e non si permettono matrimoni misti, né tra persone dello stesso sesso? Seriamente?
I mezzi di propaganda sionista – Hasbarah – riconoscono con molto orgoglio quanto la difesa dei diritti LGBTQI+ sia cruciale per migliorare l’immagine di Israele verso tutto il modo. Nel 2009 ad esempio – ma lo stesso si ripete continuamente – l’organizzazione statunitense filo-israeliana StandWithUs, con l’appoggio del Ministero degli Esteri israeliano, ha portato leader, attivisti e giornalisti LGBTQI+ di tutto il mondo in Israele. L’organizzatrice dell’iniziativa, Noa Meir, nel sottolineare l’importanza del programma, ha dichiarato:
“I diritti LGBT sono parte dei diritti umani e quando si osserva Israele, si vede un paese che è molto avanzato in questo settore. Quando la gente vede che Israele è molto progressista in questo aspetto, penserà che non può esserlo solo in questo aspetto ma in tutto”.
E così in cambio di viaggi e denaro, la sua immagine di pulizia “rosa” o propaganda del pinkwashing, giunge in molte parti del mondo dove il collettivo LGBTQI+, ancora oppresso, discriminato, perseguitato (alcuni membri persino assassinati o imprigionati), necessita di appoggio e protezione, da qualsiasi parte arrivi. Però, fino a quando permettiamo che colonizzino anche la nostra lotta , strumentalizzandola per legittimare un sistema di oppressione, occupazione, apartheid e, almeno a Gaza, di pulizia etnica?
Noi, persone LGBTQI+ che viviamo in società le cui leggi ed istituzioni hanno fatto passi in avanti per il riconoscimento dell’uguaglianza giuridica, abbiamo il dovere di alzare la nostra voce contro uno Stato che a oggi, non ha dimostrato di rispettare né il diritto internazionale, né i diritti umani, tanto meno i diritti delle persone LGBTQI+ che, ricordiamolo, possono sposarsi solamente se possiedono i privilegi legali ed economici per farlo all’estero e richiedere in seguito la trascrizione. In pratica, senza Paesi come la Spagna, ad esempio, non ci sarebbe possibilità di matrimonio per le coppie israeliane dello stesso sesso.
L’impegno di Israele per i diritti umani in generale e i diritti del collettivo LGBTQI+ in particolare, è falso, tanto che Israele non solo non concede asilo alle persone LGBTQI+ palestinesi che lo richiedono ma addirittura persegue, cattura e deporta alla frontiera quelle che stanno facendo le pratiche di asilo per altri Paesi terzi, in totale assenza di rispetto del diritto internazionale e di tutto il senso comune rispetto a una nazione che vuole promuoversi come leader dei diritti LGBTQI+ e della democrazia.
Chi ha rappresentato per quattro anni questa facciata di Israele alle Nazioni Unite -come diplomatico responsabile di difendere il “grande” lavoro israeliano in favore dei diritti umani in generale e del collettivo LGBTQI+ in particolare-, difendendo il proprio paese anche durante l’attacco alla striscia di Gaza nel quale morirono più di 200 persone, proporrà il suo discorso ingannevole nel Summit per i Diritti Umani organizzato da Aegal nell’Università Autonoma di Madrid, nonostante i molteplici avvisi sull’incongruenza di invitare una persona con questo profilo.
Ma come può un diplomatico che difendeva che Israele boicottasse il Consiglio dei Diritti Umani o che appoggiava la detenzione amministrativa di un prigioniero politico supportato da Amnesty International, parlare senza causare problemi etico-politici agli attivisti e alle attiviste che difendono i Diritti Umani e condividono il tavolo con lui?
Inoltre, nel Galà di chiusura del World Pride, sempre organizzato da Aegal è prevista la partecipazione di Israele e della sua Ambasciata in relazione alla commemorazione del World Pride di Gerusalemme, città che “Non fa parte, stando al Diritto Internazionale, dello Stato di Israele”, come ci ricorda Mauricio Valiente Ots, terzo vice-sindado di Madrid, nella sua lettera a Aegal.
Per queste e molte altre ragioni, inclusa la solidarietà con tutte le persone LGTBQI+ palestinesi che non hanno potuto partecipare al World Pride di Gerusalemme, sia perché rinchiuse a Gaza o trattenute in Cisgiordania, sia perché non hanno il permesso di viaggiare in Israele in quanto “esiliati a vita” dalla Legge israeliana del Ritorno – che permette di ‘ritornare’ alle persone ebree che mai hanno vissuto in quelle terre ma no ai rifugiati palestinesi che lì vivevano e nemmeno ai loro discendenti, sia perché hanno preferito protestare e non contribuire ad un ulteriore “pulizia dell’immagine”, la Piattaforma 28J, la Rete di solidarietà contro l’Occupazione della Palestina, associazioni LGBTQI+, e altre organizzazioni sociali e politiche hanno inviato una lettera al Comitato organizzatore del World Pride e del Galà di chiusura ed in concreto ad AEGAL e FELGTB (dato che COGAM si è già pronunciata come membro della piattaforma 29J firmataria della lettera) in cui si chiede che non si normalizzi la annessione illegale di Gerusalemme al Galà World Pride.

Traduzione dell’articolo di Roberto Solone Boccardi di BDS Comisón Pinkwatching (@BDSpinkwatching) in 1 de cada 10

Trad. Fioriso- Invictapalestina.org

Fonte: https://www.bdscomisionpinkwatching.org/anche-se-israele-si-veste-di-rosa-resta-apartheid/

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