Perchè è stato negato l’ingresso in Italia a Leila Khaled

“Il fotomontaggio che segue è ciò che avremmo voluto leggere, è andata diversamente, ancora una volta abbiamo perso.”

 

3 dicembre 2017 – Rosario Citriniti e Simonetta Lambertini – Invictapalestina

Cari amici, cari lettori di Invictapalestina

Martedì 28 novembre è stato negato l’ingresso in Italia alla combattente palestinese Leila Khaled,  riaccompagnata in Giordania con la forza. Su chi sia Leila non c’è bisogno di dilungarsi, le sue immagini sul muro illegale costruito dall’occupante israeliano ne raccontano in modo eloquente le gesta e rimarcano ciò che rappresenta per il popolo palestinese e che non si deve dimenticare: militante della formazione marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), rifugiata dal 1948,  membro dell’Ufficio politico del Consiglio nazionale palestinese, vive ad  Amman (Giordania).

a mural of former PLO militant Leila Khaled. EPA/ATEF SAFADI

Inevitabilmente in seguito alla notizia si è scatenata, soprattutto su Facebook, una pioggia di commenti e di imprecazioni contro le lobby ebraiche, il sionismo nostrano, i giornalisti e i partiti complici di queste operazioni di censura e di supporto alle pubbliche relazioni israeliane.

Stessa reazione alla notizia dell’ANSA, che ha riportato le minacce israeliane al Giro d’Italia, e alle immediate correzioni grafiche del sito ufficiale da parte di uno staff “sportivo” che si abbassa per  raccogliere il denaro  e diventa servizievole fino a perdere la dignità.

Volendo trarre conclusioni non affrettate per valutare la possibilità di creare un fronte antagonista a questi episodi è necessario approfondire e soprattutto mettere a nudo alcune dinamiche del movimento filopalestinese. A nostro parere, infatti, occorre partire dalla considerazione che molta parte di ciò che avviene è ciò che noi permettiamo. Avviene non tanto per una forza terribilmente potente di sostenitori della politica israeliana, ma soprattutto per una debolezza nel nostro fare attivismo.

Sicuramente in un paese democratico, non servo del potere delle lobby, sarebbe prevalsa la democrazia e non la censura, ma ormai non è più una novità che per ogni conquista, anche degli spazi pubblici, sono necessarie la mobilitazione e la lotta. Il governo italiano, giornali, organizzazioni  ebraiche italiane che hanno promosso una petizione contro la presenza di Leila, hanno fatto la loro parte in base agli interessi che rappresentano e all’elettorato che continua a sostenerli, siamo noi a non avere fatto la nostra parte.

In passato e in altri articoli, Invictapalestina ha approfondito l’aspetto autoreferenziale, l’aspetto frammentario delle iniziative arrivando alla conclusione di Enrico Campofreda che: “Cento mani scavano cento buche in cerca di una fonte irraggiungibile. Insieme troverebbero un’acqua sorgiva, da sole sguazzano ciascuna nel proprio stagno”.

Lo sport-washing

Ma il problema che oggi si pone va oltre: il sionismo è organizzato, è economicamente supportato da milioni di euro di donazioni, pianifica i suoi interventi con i Media, studia l’impatto sulle persone, sceglie strategie e investimenti che producono maggiore consenso. La partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme occupata è un esempio fra tanti di intervento nello sport, per sovrapporre nello sguardo di milioni di telespettatori l’immagine di un israele paese-cartolina che offre bellezza e modernità, all’immagine del paese occupante che pratica l’apartheid che è nella realtà.

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La controinformazione

Migliaia di associazioni nel mondo – alcune anche sostenute da attivisti israeliani – contrastano con costanza questa strategia “comunicativa” con video, articoli, libri, dibattiti che mettono in evidenza le violazioni continue dei diritti umani, la situazione dei prigionieri politici, le uccisioni extragiudiziarie, la distruzione delle strutture scolastiche e sanitarie create con fondi internazionali, la politica di insediamento ecc.

Nonostante, però, il forte impegno di “controinformazione” se facciamo un bilancio dei risultati non possiamo dirci ottimisti: le condizioni del popolo palestinese sono ogni giorno più dure, al punto che Ilan Pappe nel suo ultimo libro ha definito la Palestina “La più grande prigione della terra”.

 

 

 

 

Allora cos’è che non funziona? Cos’è che vanifica tanto impegno?

 

Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, né ci permettiamo di analizzare le dinamiche interne ai palestinesi, a partiti, alleanze, accordi che i palestinesi stessi raccontano e denunciano con ricchezza di dettagli. Ci limiteremo a indicare alcuni aspetti riscontrati nell’attivismo filopalestinese che sicuramente non possono essere motivo di alcuna preoccupazione per lo stato sionista finché rimangono tali.

 

A tale proposito facciamo due esempi.

Il primo: la liberazione del prigioniero Samer Issawi. Dopo un lungo sciopero della fame di 277 giorni e una mobilitazione mondiale Samer viene liberato, l’attivismo esulta, migliaia di post su Facebook gridano alla sconfitta del sionismo. Pochi mesi dopo, però, viene riarrestato ed è ancora in carcere nel completo silenzio.

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Il secondo: mobilitazione a sostegno dei prigionieri politici.
Nel mese di maggio, un giornalista su ‘Contropiano’ titola un suo articolo: “Acqua e sale. Hanno vinto i prigionieri palestinesi.” Una campagna serrata con migliaia di selfie di politici, scrittori, attivisti col bicchiere in mano, molti articoli, molti video, interviste.  Alla fine si arrivò ad un accordo tra prigionieri e carcerieri con grande soddisfazione anche degli attivisti.

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Sono passati pochi mesi, il sipario è calato e, a parte le prese di posizione retoriche, non sembra ci sia più tanto interesse. Si parte per altre campagne, altre iniziative, altri progetti e intanto una recente testimonianza dell’ufficio legale di Addameer riporta l’attenzione sulla carcerazione amministrativa, sulla tortura, sugli spostamenti punitivi, sull’uso di armi elettroniche sui prigionieri durante i trasferimenti da una cella all’altra e da un carcere all’altro. Pratiche che non sono mai state interrotte nonostante lo sciopero della fame che ha visto un’alta partecipazione dei prigionieri anche di diversi schieramenti politici.

L’attivismo ai tempi dell’impotenza

Sicuramente stiamo attraversando un periodo storico molto difficile e ogni forma di partecipazione attiva, a partire dal G8 di Genova del 2001, deve fare i conti con una repressione feroce mai vista prima in Italia, è però necessario osservare come il conformismo ha trasformato anche l’attivismo, basta andare sui social per verificare che articoli più lunghi di 10 righe riducono la lettura, così come i video che durano più di qualche minuto. Prevalgono invece individualismo, narcisismo e la continua ricerca di like che va dalle battute da bar ai compleanni, dalle esternazioni mattutine ai cambi d’immagine del proprio profilo, alle foto personali ecc. – questo avviene anche tra gli attivisti. Sul versante palestinese nei commenti leggiamo quasi sempre le stesse cose, poche analisi e tanto sfogo, quante volte abbiamo letto sotto i post “Vergogna, vergogna! Israele fascista, stato terrorista!”, slogan condivisibile, ma a cosa serve urlarlo con la scrittura se non seguono azioni concrete in grado di aggregare persone, informare superando la solita cerchia di amici, portare gli eventi sui media nazionali?

Un altro aspetto da considerare è che durante le nostre iniziative raramente si vedono  giovani, persino Jeff Halper l’ha evidenziato a Roma durante un incontro qualche mese fa, ritenendosi soddisfatto per essere con i suoi settant’anni  il più giovane in sala! Come Invictapalestina abbiamo pubblicato oltre 400 video e  sono deprimenti le notifiche di Facebook che riceviamo con l’avviso che il video appena pubblicato  interessa un pubblico dai 55 ai 65 anni.

La nostra cecità sulle analisi, la mancanza di ricerca di nuovi strumenti, la mancanza di impegno reale e finalizzato  è palpabile per chi spia la rete, controlla i nostri profili, osserva con attenzione le nostre pagine per capire i nostri comportamenti e anticipare eventuali iniziative, peraltro sempre più rare e prevedibili.

 

Ciò che avviene è quello che noi permettiamo!

E’ per questo motivo che legiferare per cercare di arginare in Italia l’impatto del BDS, negare un’aula universitaria o il patrocinio per una manifestazione sulla Palestina (Trieste) è diventato  lecito e possibile. Non c’è nessuna contrapposizione efficace, come dire, non c’è opposizione  e quando si manifesta in qualche forma non è efficace per contrapporsi e favorire i cambiamenti necessari.

Anche il tira e molla dell’Università di Roma per la proiezione di ‘3000 notti’ di Mai Masri, film sulla situazione delle donne nelle prigioni israeliane   è stato possibile perchè era chiara la mancanza  di un movimento organizzato e di opposizione all’atteggiamento autoritario  dell’Università. Tutto ciò  grazie alla nostra debolezza, litigiosità, incapacità di definire obiettivi collettivi e di raggiungerli con efficacia unendo le forze di tutti. Il film alla fine è stato proiettato e la regista è così ritornata in Italia, perchè il flebile tam tam generato dalle associazioni e l’eventuale pubblicità negativa che sarebbe seguita, sono stati  sufficienti per smuovere un ente culturale. Difficilmente avrebbe avuto lo stesso successo contestando con la stessa modalità  un giornale prezzolato o un rettore colluso.

E’ però necessario riconoscere che, da parte delle Associazioni,  qualche sforzo è anche fatto in questa direzione, si è cercato e si cerca anche attualmente di organizzare gruppi di lavoro trasversali alle stesse associazioni e sono proprio questi che hanno raggiunto maggiori risultati e visibilità sia per la maggiore disponibilità economica che per la condivisione di materiale, oltre alle idee e ai progetti maggiormente efficaci perchè risultato di incontri preliminari e mediazioni che hanno allargato la partecipazione. La contestazione del giro d’Italia 2018 va in questa direzione.

In ogni caso è importante fare qualche riflessione anche sulle associazioni, che in linea di massima, agiscono oggi come   piccole imprese individuali con i loro programmi esclusivi e personalizzati spesso persino in concorrenza con altre associazioni.

Noi associazioni che con vari scopi specifici operiamo a sostegno dei diritti del popolo palestinese, restiamo sovente autoreferenziali e resistiamo  a praticare  un fattivo coordinamento: ci piace l’idea , ma ancor più la nostra particolare ragione sociale

Inoltre molti “singoli” anziché collaborare e rafforzare l’esistente col proprio contributo, aprono la loro pagina Facebook sicuramente per essere “più ricca e completa” di quella di un altro, aprono il proprio Blog, il proprio sito, scrivono il proprio libro, relazionano il proprio viaggio, senza dare un contributo alla rete complessiva, anche perchè non si pongono l’obiettivo  di aumentare, migliorare, arricchire l’informazione, ma quello molto riduttivo e narcisistico di rapportarsi con la propria rete personale di amici e godere dei propri “like”.

In questi casi è evidente la ricerca di una soddisfazione personale che mal si coniuga con un impegno civile che possa incidere minimamente nelle vite delle persone che si vorrebbero “salvare” dall’oppressione. 

Il rimpatrio di Leila Khaled è una chiara dimostrazione pubblica della nostra incapacità di agire in modo collettivo, di rivendicare obiettivi, ma soprattutto dell’incapacità di gestire il nostro ego. Il fotomontaggio che segue è ciò che avremmo voluto leggere, è andata diversamente, ancora una volta abbiamo perso perché preferito usare il mouse piuttosto che scendere in piazza in massa, abbiamo preferito urlare il nostro sdegno tra le mura domestiche anziché contaminare le piazze con le ragioni dei popoli che vogliamo sostenere.

Che fare?

Non è facile indicare soluzioni, ma si può provare indicando  una via da intraprendere. Le associazioni, i singoli, gli attivisti, sono risorse importanti e sicuramente la base per ogni cambiamento possibile. Secondo noi è importante chiedersi  quanto siamo disposti a cedere per la realizzazione di un progetto collettivo. Progetto collettivo che non deve essere appiattimento delle idee e/o delle singole identità. Progetto che non deve neanche avere la pretesa di essere globale, ma potrebbe includere di volta in volta  argomenti condivisi e ricevere la forza di ciò che ci unisce.

A livello di attivismo nelle piazze, quando la pochezza dei risultati ottenuti farà riflettere maggiormente gli organizzatori sulla necessità di spostare il focus dalle  proprie posizioni personali alla Palestina, la soluzione verrà da sola.

Nel campo dell’informazione siamo di fronte all’Hasbarà israeliana, ai giornali “associati”, alle televisioni. Dall’altra parte cosa c’è? Migliaia di profili personali (importanti) centinaia di pagine sulla Palestina (importanti), alcune pagine storiche (ancora più importanti) ma abbiamo mai pensato a chi si rivolgono? Quante persone raggiungono? Quali contributi accettano?

Finché non facciamo una riflessione onesta su questo ultimo punto, anche l’informazione che proponiamo sarà limitata e inefficace, perchè non riuscirà mai a superare il muro che ci separa per raggiungere ed informare la gente comune.

Da segnalare come novità lo sforzo di alcune associazioni di ritrovarsi sotto la sigla di Società Civile per la Palestina che sarà rilanciata anche durante la Giornata per i diritti del popolo palestinese il prossimo 9 dicembre a Firenze: Palazzo Vecchio ore 9.  A questo sforzo anche noi vogliamo partecipare per superare noi stessi.

 

 

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