In Libano, la pandemia non modifica i sentimenti anti- palestinesi

La decisione di vietare il rimpatrio ai palestinesi che vivono in Libano evidenzia le radicate discriminazioni presenti nel Paese.

Fonte: English version

Kareem Chehayeb – 8 maggio 2020

Come molti altri libanesi bloccati all’estero a causa dell’epidemia di Covid-19, Tarek Abu Taha aveva firmato per essere rimpatriato dagli Emirati Arabi Uniti .

Abu Taha era a Dubai, in cerca di lavoro,  a causa della disoccupazione dilagante che continua a devastare il Libano. Ma il 3 maggio, dopo aver pagato il biglietto aereo ed essere  salito a bordo, non si aspettava ciò che sarebbe successo.

Un funzionario della General Security Organization (GSO) lo ha separato dagli altri dopo aver visto che aveva in mano documenti di viaggio libanesi, ma non un passaporto. Tarek Abu Taha è palestinese.

Nato e cresciuto nella città costiera meridionale di Saida, Abu Taha non ha alcuna  possibilità di ottenere la cittadinanza libanese. Suo nonno, dice, ha sposato una libanese, ma le leggi sulla nazionalità gli impediscono di avere un passaporto.

Alla fine gli è stato negato il volo, e ora deve aspettare indefinitamente senza sapere quando potrà rivedere sua moglie e suo figlio di tre anni.  Abu Taha quella sera  ha scritto un sentito post su Facebook, lamentando ciò che gli era successo, in particolare il trattamento razzista e denigratorio di quel funzionario della sicurezza a bordo.

Una dichiarazione della GSO ha rivelato che i lavoratori domestici migranti e i palestinesi dovevano essere esclusi dai rimpatri fino a un non specificato  periodo successivo, ma né Abu Taha né l’ambasciata libanese negli Emirati Arabi Uniti ne erano stati informati.

“Onestamente, se avessi trovato lavoro, non avrei avuto problemi a rimanere a Dubai”, ha detto a The New Arab. “Ma ora non ho altra scelta che aspettare.”

Il Libano ha rimpatriato  per tutto un mese i suoi cittadini bloccati  in diversi paesi in Europa, Africa e Medio Oriente. Mentre finora il Paese ha registrato poco più di 740 casi positivi di Covid-19 e 25 decessi, i medici temono che i test effettuati siano stati pochi.

La storia  di Abu Taha racconta  un aspetto di ciò che molti descrivono come pratiche istituzionali razziste e discriminatorie contro la popolazione palestinese del Libano, che conta circa 200.000 persone.

“La discriminazione sistematica nei confronti dei palestinesi sta peggiorando”, ha detto a The New Arab Nadine Kheshen, ricercatrice libanese di Synaps, aggiungendo che essa  si mostra soprattutto quando si tratta di opportunità di lavoro e diritti del lavoro. “Vengono bloccati da qualsiasi ambito lavorativo che abbia un sindacato.”

Kheshen ha riferito di una sua intervista a un palestinese che si era laureato in ingegneria e che avrebbe dovuto lavorare come assistente con un salario molto più basso di quello che gli sarebbe spettato.

 La storia  di Tarek Abu Taha  evidenzia ciò che molti descrivono come pratiche istituzionali razziste e discriminatorie contro la popolazione palestinese del Libano.

“Potremmo  incartare i falafel, con i nostri diplomi” le aveva detto l’ingegnere.

Nel giugno 2019, l’allora ministro del lavoro Camille Abousleiman decise di contrastare il lavoro straniero informale, in particolare quello dei i rifugiati siriani. Alle imprese fu concesso un periodo di un mese per la registrazione dei permessi di lavoro.

Tuttavia, nell’applicazione della norma, i palestinesi  ritennero di essere stati presi particolarmente di mira, e ciò portò a proteste e manifestazioni. I palestinesi, che da generazioni vivono in Libano come rifugiati, sostengono che per loro dovrebbero esserci deroghe e facilità di accesso ai mezzi di sussistenza.

“Improvvisamente, si sono trovati quasi completamente estromessi dal mercato”, ha  detto Kheshen. Abousleiman dichiarò in un editoriale che la stretta non era intesa a colpire i palestinesi e che il diritto del lavoro imponeva loro di ottenere un permesso proprio come gli altri cittadini non libanesi.

Il Libano  sta probabilmente soffrendo la  peggiore crisi economica della sua storia. Dal settembre 2019 la sua valuta locale si è indebolita di circa il 60 percento. La sua discesa è stata poi accelerata solo dallo scoppio del Covid-19.

Le difficoltà economiche del Paese hanno ovviamente riguardato anche i 12 campi profughi palestinesi gestiti dall’UNRWA. In un webinar con la stampa su Zoom, il direttore dell’UNRWA in Libano ha affermato che la disoccupazione tra i palestinesi è superiore al 90%.

Con i test Covid-19 che non raggiungono i campi profughi palestinesi, il primo caso confermato è stato segnalato alla fine di aprile nel campo di Al-Jalil vicino a Baalbek, dopo che il paziente aveva mostrato sintomi del virus ed era stato portato all’ospedale universitario Rafic Hariri di Beirut. Il giorno seguente un team di medici ha condotto diversi  test, confermando almeno altri cinque casi nel campo.

Inoltre, i finanziamenti per l’UNRWA, che gestisce essenzialmente i campi, nonché le sue strutture e servizi, continuano a essere limitati. Già limitata nelle risorse, l’agenzia delle Nazioni Unite ha visto aumentare le sue difficoltà da quando a fine  agosto 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha interrotto i finanziamenti all’organizzazione. L’UNRWA a fine gennaio aveva  fatto appello per 1,4 miliardi di dollari.

 La discriminazione sistematica nei confronti dei palestinesi sta peggiorando, soprattutto quando si tratta di opportunità di lavoro.

L’incidente di Abu Taha ha riaperto il dibattito su questi temi, ma lui non sembra risentito. “Non si può generalizzare, questa è stata l’azione di un singolo individuo”, ha detto a The New Arab. “Alcuni  libanesi mi hanno procurato  un posto dove stare con cibo e tutto, e grazie a Dio va tutto bene”.

Dopo l’incidente, la parlamentare indipendente Paula Yacoubian ha espresso la sua rabbia per la situazione. “Non posso crederci … alcuni di noi sono razzisti nella misura in cui hanno perso la loro umanità e ogni senso di moralità”, ha twittato.

Il giorno seguente, Yacoubian ha twittato che  si era sentita con il capo della GSO Abbas Ibrahim sulla questione e che questi aveva giudicato la situazione “inaccettabile”, promettendo di seguirla personalmente.

Mercoledì, Tarek Abu Taha ha condiviso un video messaggio ringraziando tutti coloro che lo avevano sostenuto, ma ha anche criticato chi aveva  cercato di “creare divisioni tra libanesi e palestinesi”.

“La signora Paula Yacoubian, una libanese, senza alcuna discriminazione mi ha fatto da portavoce  presso il governo libanese”, ha detto. “L’ambasciata libanese a Dubai, sapendo che ero palestinese, ha registrato il mio nome e, nonostante  in elenco ci fossero 3.500 libanesi, sono stato inserito tra i primi nella lista per il volo”.

Ma a lungo termine, è sostenibile dover fare affidamento sulla gentilezza e sulla buona volontà di una manciata di persone? L’attivista palestinese Sara Kaddoura dice a The New Arab che è giunto il momento  di fare degli sforzi per organizzarsi in modo più  strutturato e per lavorare fianco a fianco con le controparti libanesi.

“Durante le manifestazioni la maggior parte del lavoro è stato svolto da gruppi palestinesi, in particolare  con i club giovanili  e con i comitati dei genitori nei campi”, ha spiegato Kaddoura, aggiungendo che la maggior parte dei gruppi politici libanesi sono restii a partecipare. “E anche i partiti tradizionali hanno solo addotto giustificazioni  o si sono  dissociati dalla legge.”

Durante il giro di vite sul lavoro, attivisti libanesi, palestinesi e siriani  diedero vita a una campagna intitolata “Il Paese ha spazio per tutti” che sosteneva  una politica del lavoro più inclusiva. “Volevano  ampliare la solidarietà con il movimento e far luce su ciò che il diritto del lavoro significa per i rifugiati”, ha detto Kaddoura a The  New Arab.

Kaddoura crede che ci vorrebbe un più ampio supporto da parte dei simpatizzanti libanesi.  Bisognerà vedere cosa accadrà nel prossimo futuro.

Detto questo, la disoccupazione dilagante a livello nazionale e la povertà potrebbero essere il terreno fertile per  una maggiore comprensione reciproca e, forse, per una reciproca cooperazione

Kareem Chehayeb è una giornalista libanese che vive a Beirut  e che ha condotto inchieste per The Public Source.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”- Invictapalestina.org

 

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