L’orticoltura domestica semina i semi dell’ autosufficienza palestinese

I palestinesi zappano la terra nei loro cortili e mettono cassette di piante sui loro tetti per compensare i danni economici causati dalla crisi da coronavirus.

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di Sua Arraf, 20 giugno 2020

 

La disoccupazione e i tassi di povertà sono alle stelle a causa della pandemia del coronavirus, i palestinesi sono tornati a lavorare la loro terra e nei territori occupati degli orti sono apparsi accanto alle case.

Una delle prime iniziative è stata presa dal comune di Beit Sahour, una città ad est di Betlemme, che ha distribuito piante di ortaggi ed erbe aromatiche agli abitanti perché le coltivino nei loro cortili – in particolare pomodori, melanzane, cetrioli, cipolle e patate. Alcuni abitanti hanno già iniziato a raccogliere gli ortaggi per consumarli. Il ministero palestinese dell’Agricoltura sostiene questa iniziativa di autosufficienza e ha già distribuito più di un milione di piantine.

Non è la prima volta che le autorità palestinesi incoraggiano gli abitanti a coltivarsi i propri ortaggi in un periodo di difficoltà economiche. Una situazione simile si era verificata durante la prima intifada, in un contesto di forte disoccupazione e alti tassi di povertà, con i palestinesi che soffrivano anche di lunghi periodi di blocco e coprifuoco. I comitati popolari e altre organizzazioni politiche chiesero ai palestinesi di sostenersi e di coltivare ortaggi, e incoraggiarono coloro che abitavano in aree rurali ad allevare polli, mucche e capre per autoapprovvigionarsi di uova, latte e vari prodotti caseari.

Questo fenomeno non è specifico della Palestina, ricorda iniziative simili adottate nei paesi occidentali durante le guerre mondiali del 20° secolo, quando i cittadini furono incoraggiati a coltivare “orti della vittoria” per combattere la penuria di cibo. Secondo alcune stime, ad un certo punto durante la seconda guerra mondiale, questi orti coprirono circa il 40% del consumo alimentare degli americani.

L’Applied Research Institute (ARIJ) di Betlemme – zona particolarmente colpita dalla crisi da coronavirus a causa del peso del turismo sulla sua economia – ha reagito tempestivamente all’impatto economico della pandemia distribuendo agli abitanti 40.000 giovani piante. Nader Hrimat, vicedirettore generale dell’ARIJ e direttore del programma di agricoltura sostenibile dell’organizzazione, ha affermato che la seconda intifada ha messo in evidenza la necessità di “sostenere i piccoli agricoltori fornendo loro degli orti domestici”.

E’ allora che le persone si sono viste assegnare piccoli appezzamenti di terreno vicino alle loro case, dice Hrimat, oltre a una formazione e ad attrezzi per la coltivazione. “Abbiamo lavorato su tre zone: Hebron, Betlemme e Gerusalemme”, prosegue Hrimat. “A poco a poco, abbiamo iniziato a sostenere l’intera Cisgiordania. Abbiamo messo su anche dei piccoli pollai e permesso a coloro che li avevano di iniziare a vendere ai loro vicini.” E aggiunge: “Ci siamo anche impegnati a proteggere semi palestinesi rari e a coltivare varietà scelte fra quelle del patrimonio tradizionale palestinese, prima di distribuirle agli agricoltori”.

Dalla sua creazione nel 1990, dice Hrimat, uno degli obiettivi principali dell’ARIJ è stato quello di salvaguardare l’agricoltura e sostenere i piccoli agricoltori. “Iniziamo con un sopralluogo, quindi introduciamo una tecnologia semplice e rispettosa dell’ambiente, testandola con un agricoltore. Se funziona, distribuiamo questa tecnologia a tutti gli altri agricoltori”, spiega.

Per quanto riguarda coloro che non hanno terra vicino alla loro abitazione, precisa Hrimat, l’istituto si assicura che possano installare un orto sul tetto di casa. Racconta che dopo aver consultato un esperto irlandese nel 2012, hanno imparato a usare le tubature dell’acqua senza aggiungere troppo peso e hanno iniziato a coltivare, tra le altre cose, cetrioli, pomodori, cavolfiori – questo programma ha funzionato anche meglio del suo predecessore a livello del suolo.

“Dato che non volevamo utilizzare il materiale degli occupanti, abbiamo sviluppato nostri metodi utilizzando materiale che troviamo sul mercato palestinese”, dice. “Stiamo anche cercando di ridurre i costi per il coltivatore utilizzando tutto ciò che è disponibile.”

 

 Il programma dell’ARIJ degli orti sui tetti ha avuto ancora più successo del suo predecessore a livello del suolo; i palestinesi coltivano così, tra le altre cose, cetrioli, pomodori, cavolfiori. (Foto fornita da Nader Hrimat)

 

Nei campi profughi, intanto, l’istituto fornisce assistenza per mettere a punto sistemi di irrigazione più sofisticati e cassette per le piante, in base alle diverse possibilità delle famiglie. Grazie a questi interventi, dice Hrimat, si ottiene una riduzione fino al 60 % del consumo d’acqua. L’istituto ha anche distribuito nylon per serre in modo che gli abitanti del campo profughi possano coltivare tutto l’anno, senza limitarsi alle stagioni. Inoltre, osserva, “tutto è bio”.

Aggiunge che l’agricoltura domestica praticata nei territori palestinesi occupati è sufficiente per soddisfare le esigenze di una famiglia. “Coltivando questo tipo di verdure, non devono comprarle. E ora, sulla scia della crisi da coronavirus, abbiamo il dovere di piantare su ogni centimetro di terra.”

 

“Dobbiamo avere fiducia in noi stessi”

 

Ahmad Zabun, 56 anni, vive nel campo profughi di Al ‘Aza vicino a Betlemme, anche se è originario del villaggio di Alar vicino a Tulkarm nella Cisgiordania occupata. Ha iniziato a coltivare ortaggi 10 anni fa in palloni di plastica, contenitori di polistirolo e tutto quello che poteva recuperare. Ora, nell’ambito dell’iniziativa dell’ARIJ, si serve di cassette e ha imparato come usare l’acqua per la coltivazione.

“Incoraggio tutti a coltivare ortaggi. Da un punto di vista politico, questo è importante. Se Israele domani chiude i confini, moriremo di fame. Dobbiamo fare affidamento su noi stessi.”

Zabun coltiva ortaggi, insalata, frutta, erbe aromatiche sufficienti per la sua famiglia di cinque persone, dice. “Ma i miei fratelli vivono nello stesso edificio – e sono altre cinque famiglie – e loro consumano anche quello che cresce sul mio tetto. Anche i miei vicini mi prendono delle erbe.”

“Non c’è niente come alzarsi la mattina, raccogliere pomodori, cetrioli e zucchine e preparare la colazione”, dice Zabun. “E poi, è meraviglioso vedere crescere le verdure. Ho imparato molte cose da solo, ho anche comprato delle pompe per acquario e le ho adattate per uso agricolo. Sto anche cercando di ridurre i miei costi a zero”, aggiunge precisando che fa il compost e che raramente ha bisogno di usare l’acqua. Interessati al suo approccio, i vicini vengono a vedere il suo orto sul tetto per imparare a coltivare ortaggi per se stessi.

 

Ritorno ai principi fondamentali

 

“Un mese dopo l’inizio della pandemia, ci siamo incontrati con sei ONG e fatto un piano per gli orti famigliari”, racconta Hrimat, dell’ARIJ. “La fame e la frustrazione sono arrivate nel giro di un mese e le persone non sapevano che fare. Avevamo paura che esasperate per essere confinate avrebbero cominciato a uscire propagando il virus”.

“Abbiamo iniziato da Betlemme”, continua Hrimat. “Abbiamo detto al Ministro dell’Agricoltura che iniziavamo a lavorare là, e poi ci siamo messi in contatto con vivai palestinesi. Ci hanno donato 90.000 piantine e 66 libbre di semi. Ogni famiglia ha ricevuto 100 piantine e tre sacchi di semi di diverse varietà, nonché fertilizzanti e sistemi di irrigazione forniti da noi, e li abbiamo formati sui metodi di coltivazione”. I campi hanno ricevuto il 50% di ciò che è stato fornito, aggiunge Hrimat.

 

  “Il nostro obiettivo numero uno è che tutte le famiglie abbiano di che nutrirsi”, afferma Shatha Al’aza, che vediamo qui mentre pianta. (Foto fornita da Lajee Center)

 

Più di 2.000 persone si sono iscritte all’iniziativa dopo che è stata pubblicata su Facebook, racconta Hrimat. I partecipanti hanno ritirato le forniture nei luoghi indicati o tramite volontari che le hanno consegnate direttamente a casa loro.

“Le persone sono tornate ai principi fondamentali, il che le ha aiutate emotivamente”, sottolinea Hrimat. “Tutto ad un tratto c’è un orto sul tetto, c’è un posto dove respirare, qualcosa di cui prendersi cura. Questo rafforza le relazioni familiari e di vicinato. La gente ci ha inviato foto in cui interi edifici erano pieni di vicini che insieme coltivavano ortaggi, ed è stato molto commovente”.

Hrimat racconta di un’altra iniziativa a Beit Sahour, dove giovani volontari hanno piantato ortaggi su terreni appartenenti al waqf cristiano (fondazione religiosa) e poi li hanno distribuiti alle famiglie bisognose.

 

“Abbiamo creato una terra alternativa”

 

Shatha Al’aza, 27 anni, che vive nel campo profughi di Aida a Betlemme ma è originaria del villaggio di Beit Jibrin, a nord-ovest di Hebron, è volontaria presso il Centro Lajee, attivo con i giovani nel campo. Oltre alla musica, al dabke (danza popolare palestinese) e ai corsi di calcio, il centro offre servizi medici e accoglie volontari dall’estero e medici locali. Nel 2014, Al’aza è stata invitata a creare nel centro un’unità di conservazione culturale.

“Prima di tutto, ho tenuto corsi a studenti”, ha detto Al’aza. “Abbiamo installato il nostro primo composter e iniziato a riciclare. Quindi, in collaborazione con l’ARIJ, abbiamo iniziato a insegnare agli abitanti come coltivare ortaggi sul tetto.”

Al’aza e il suo team hanno condotto un periodo di prova sul tetto del Centro Lajee, piantando vari tipi di verdure. Ma, ha detto, il centro è vicino a una base militare israeliana e i soldati “lanciavano continuamente gas lacrimogeni che danneggiavano gli ortaggi”. In risposta, ha detto, il suo gruppo ha protetto le verdure coprendole con nylon per serre.

Dopo questo test, il centro ha distribuito piantine a 40 famiglie del campo profughi, oltre a cassette fornite dall’ARIJ.

“Il nostro obiettivo n°1 è che tutte le famiglie abbiano di che nutrirsi”, ha detto Al’aza. “Il secondo obiettivo, che non è meno importante per dei rifugiati, è quello di rafforzare il loro legame con la terra che hanno perduto. Così abbiamo creato una terra alternativa.”

Al’aza desiderava che anche delle donne fossero coinvolte nel progetto, sottolinea. “Come donna e rifugiata, era importante per me dare forza alle donne qui, in modo che avessero qualcosa di utile da fare, soprattutto perché per la maggior parte sono casalinghe in condizioni di indigenza. Volevo che trasmettessero il loro amore per la terra alla generazione successiva.

“La terra e l’agricoltura sono forme di patrimonio culturale”, continua Al’aza. “La maggior parte dei rifugiati di Aida proveniva da aree rurali e ha perso la propria terra. Non controlliamo né la terra, né l’aria, né i passaggi, né l’acqua – niente. Dovremmo almeno controllare ciò che mangiamo e sapere che stiamo mettendo nel nostro stomaco cibo che abbiamo coltivato noi.”

“Attualmente l’80% del nostro cibo proviene da Israele, e sono i loro avanzi.”

A causa del sovraffollamento del campo profughi di Aida e della mancanza di spazi liberi e cortili, molti tetti non beneficiano di un buon soleggiamento, dice Al’aza. Un altro problema è che molti tetti non sono abbastanza solidi per sostenere il peso delle cassette.

Ciò nonostante, nuove persone hanno contattato il Centro Lajee dalla comparsa del coronavirus e Al’aza ha incoraggiato le persone ad avviare la coltivazione di ortaggi con il lancio di un concorso per il più bell’orto sul tetto. Oggi lancia una nuova iniziativa, dice: “Concedere in locazione terreni perché le donne vi lavorino e redistribuire i profitti che derivano dalla coltivazione e vendita degli ortaggi”.

 

Suha Arraf è regista, sceneggiatrice e produttrice. Nei suoi scritti tratta di società araba, cultura palestinese e femminismo.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

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