Dieci anni dopo la rabbia esplosiva della Primavera Araba e dei suoi sogni infranti

La straordinaria scossa del potere popolare ha lasciato  il posto a un aspro contraccolpo. Dove stiamo andando adesso?

Fonte:English Version

Martin Chulov – corrispondente dal Medio Oriente – 14 dicembre 2020

Immagine di copertina: Gli egiziani celebrano la caduta di Hosni Mubarak in piazza Tahrir nel febbraio 2011. Foto: Tara Todras-Whitehill / AP

Una decina di anni fa, questa settimana, un giovane fruttivendolo di nome Mohammed Bouazizi si  diede fuoco davanti alla sede provinciale della sua città natale in Tunisia, per protestare contro i funzionari della polizia locale che avevano sequestrato il suo carretto con tutta la merce.

La scioccante notizia del suicidio del 26enne si diffuse velocemente in tutto il paese, con centinaia di migliaia di persone che, anch’esse vessate da uno stato atrofizzato e dai suoi funzionari, trovarono il coraggio di alzare la voce.

Nei 18 giorni tra l’auto-immolazione di Bouazizi, il 17 dicembre 2010, e la sua morte, il 4 gennaio, in Tunisia si verificarono i disordini sociali più drammatici mai visti da decenni, mettendo in ginocchio il governo del dittatore Zine al-Abidine Ben Ali e costringendolo a cedere il potere dieci  giorni dopo la morte del fruttivendolo. Eppure, un cambiamento molto più grande doveva ancora avvenire, poiché gli eventi di questo piccolo Paese costiero scatenarono rivolte in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente: la morte solitaria di un venditore in difficoltà divenne il simbolo di una rabbia collettiva che ha definito un’era.

I parenti di Mohammed Bouazizi in preghiera sulla sua tomba. Fotografia: AFP / Getty Images

Le proteste diventarono rapidamente rivoluzioni, mettendo radici negli stati di polizia della regione. In Egitto, Bahrain, Yemen, Libia e Siria, le dittature ritenute come un immodificabile modo di vivere dai loro cittadini sofferenti, furono improvvisamente schiacciate  come gusci vulnerabili. In ogni angolo della regione, la storia di Bouazizi, che guadagnava circa 2 sterline al giorno per sfamare una famiglia di otto persone e che era stato umiliato da funzionari irrispettosi, ebbe grande risonanza. In mezzo a straordinarie scene di proteste di massa, sembrava che l’autodeterminazione non fosse più fuori portata. Prendere parte al processo decisionale, non importa quanto difficile o sanguinoso, sembrava possibile, dopotutto.

Il movimento, che presto divenne noto come la Primavera Araba, fu uno shock straordinario, scuotendo decenni di torpore ed evidenziando il potere  delle piazze in rivolta, che fino ad allora si pensava non potessero competere con le dinastie feudali e gli stati onnipotenti abituati a trattare cittadini come sudditi e a schiacciare  regolarmente le loro aspirazioni.

Le rivolte furono aiutate dalla capacità delle persone di organizzarsi rapidamente, spesso su smartphone e applicazioni web facilmente accessibili che sconfiggevano facilmente le strutture di sicurezza dello stato. Le sfide furono particolarmente potenti per i regimi postcoloniali, come l’Egitto e la Libia, e successivamente la Siria, dove il potere si era consolidato nel corso di decenni sulle basi delle imprese coloniali europee rimaste insensibili ai cambiamenti demografici.

Un egiziano alza un cartello che elogia Facebook, mentre si unisce ad altri nella piazza Tahrir del Cairo nel febbraio 2011. Fotografia: Khaled Desouki / AFP / Getty Images
Manifestanti egiziani caricano i loro telefoni in piazza Tahrir. Fotografia: Khaled Desouki / AFP / Getty Images
Un tappeto con l’immagine di Muammar Gheddafi. Fotografia: John Moore / Getty Images

Nel 2010, una convergenza di circostanze aveva reso più difficile mantenere lo status quo. Le crescenti  sperequazioni negli standard di vita, un’élite sempre più irresponsabile e una gioventù irrequieta in rapida crescita con scarso accesso alle opportunità lavorative e ancor meno alla compensazioni delle ingiustizie, portarono molti a credere di non avere nulla da perdere protestando.

“Questi sistemi sono progettati per governare un livello specifico di componenti demografiche. Non sono affatto impostati per stare al passo con i cambiamenti “, ha detto il dottor H A Hellyer, un membro anziano del thinktank del Royal United Services Institute. ” Nel  2010 questi sistemi esplosero, con i regimi che cercavano incredibilmente da un lato di stare al passo con questi cambiamenti demografici e dall’altro di assicurarsi che la distribuzione della ricchezza rimanesse limitata ai vertici. Se si combina questo con il patto autocratico – “Non insistete  sulle libertà politiche, perché siamo i vostri  protettori contro il terrorismo” –  si avrà la  ricetta per un disastro perfetto “.

Una manifestazione di massa contro il  decreto del presidente Mohamed Morsi che si attribuva ampi poteri nel novembre 2012 in piazza Tahir al Cairo. Fotografia: Gianluigi Guercia / AFP / Getty Images

A metà gennaio, il tunisino Ben Ali fuggì in esilio in Arabia Saudita mentre le strade dell’Egitto stavano per esplodere in una rivoluzione che rovesciò il suo autocrate di quattro decenni, Hosni Mubarak. Anche la Libia, dove Muammar Gheddafi aveva governato spietatamente per 40 anni, stava cominciando a vacillare, così come la Siria, dove Hafez al-Assad aveva lasciato in eredità lo stato di polizia più strettamente gestito della regione a suo figlio Bashar, che ora doveva affrontare una minaccia reale e prolungata al governo dinastico della sua famiglia.

In tutti e quattro i regimi, una patina di istituzioni e una costituzione mascheravano i veri detentori del potere: una famiglia, un partito o un esercito. Mentre questi regimi vacillavano, gli allarmi suonavano anche in Arabia Saudita e Iran, che temevano che il potere del loro stesso popolo si scatenasse – nel caso di Teheran per la seconda volta in meno di due anni.

Attivisti antigovernativi si scontrano con la polizia antisommossa al Cairo nel gennaio 2011. Fotografia: Ben Curtis / AP

Nancy Okail, attivista per i diritti umani e studiosa egiziana, stava terminando un dottorato di ricerca presso l’Università del Sussex quando le scene di centinaia di migliaia di manifestanti che scendevano per le strade del Cairo verso piazza Tahrir iniziarono a lampeggiare sugli schermi di tutto il mondo il 25 gennaio 2011. “Mia sorella era in visita da me . Dissi che  il giorno successivo ci sarebbe stata una rivoluzione in Egitto. Era scettica, ma avevo ragione. ”

In poche settimane, Barack Obama  ritirò il sostegno a Mubarak, recidendo l’ancora di salvezza del principale sostenitore del presidente egiziano e mettendosi fermamente dalla parte di coloro che avevano  sostenuto la campagna per cacciarlo. Mubarak cadde e le piazze egiziane esultarono.   L’avvenimento venne registrato altrove. In Siria e Libia, il sostegno degli Stati Uniti ai manifestanti anti-regime  fu visto come un segno che anche le loro rivolte sarebbero state sostenute. In poche settimane, la rivolta libica si trasformò in una guerra più ampia, con gli stati arabi che fornirono sostegno diplomatico a un intervento militare pro ribelli anti-Gheddafi guidato da Francia, Regno Unito e Danimarca e sottoscritto da Washington.

 

Libici cantano una canzone patriottica davanti alla Casa Bianca a Washington nell’aprile 2011. Fotografia: Nicholas Kamm / AFP / Getty Images
Attacco aereo delle forze fedeli a Gheddafi vicino a un posto di blocco dei ribelli su una strada fuori Ras Lanuf, in Libia, nel marzo 2011. Foto: Sean Smith / The Guardian
Manifestanti egiziani trasportano un ferito mentre manifestanti pro e anti-Mubarak si scontrano al Cairo nel febbraio 2011. Fotografia: Khaled Elfiqi / EPA

Entro la fine dell’anno, anche la Siria  entrò in guerra,  dopo che l’esercito di Assad attaccò i manifestanti e le forze di opposizione iniziarono a schierarsi contro di lui. In un’intervista con una rete televisiva russa nel 2012, Assad lanciò un avvertimento: “Il prezzo di un’invasione straniera  in Siria, se dovesse accadere, sarebbe più grande di quanto il mondo intero potrebbe sopportare”, aggiungendo che le conseguenze dell’abbattimento del suo regime si sarebbero sentite “dall’Atlantico al Pacifico”.

Otto anni dopo, Assad rimane nominalmente al potere, con Russia, Iran e Turchia che hanno una posta in gioco di primo piano nel conflitto che da allora ha distrutto gran parte del paese e costretto metà della sua popolazione ad attraversare i confini, o a spostarsi al suo interno. Anche l’Egitto, dopo la rivoluzione che  aveva visto la fine di Mubarak, sostituito dal breve e disastroso governo del presidente islamista Mohamed Morsi,  vide il compiersi di un colpo di stato militare guidato da Abdel Fatah al-Sisi per cacciare Morsi, colpo di stato  che ha ripristinato l’autorità delle strutture di sicurezza egiziane e strangolato gran parte della vita civile.

Sia in Siria che in Egitto, il dissenso fiorito nei primi mesi delle rivolte è stato regolarmente soffocato e ora ci sono molto più detenuti politici nelle carceri di sicurezza di entrambi gli stati  che non all’inizio del 2011. Gruppi per i diritti umani hanno descritto le condizioni in entrambi i paesi come intollerabili e condannato il numero sempre crescente di detenuti, spesso rastrellati per motivi irrisori o inesistenti e scomparsi per anni.

” Abbiamo cominciato a vedere i segni dalla fine del 2011, “, ha detto Okail. “La chiave per me  fu che erano sempre i militari a gestire le cose. Fin dall’inizio, quando i carri armati entrarono in piazza Tahrir per sostenere teoricamente le manifestazioni, altri  dissero “no, no, sono dalla nostra parte”. Ma conosco queste persone, so come gestiscono le cose.

“E mentre le manifestazioni andavano scemando, l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, diceva di attenersi alla road map della democrazia e che entrambe le parti avrebbero dovuto praticare l’autocontrollo – come se il rapporto di potere fosse uguale. Il messaggio era “non preoccupatevi, quando ci sarà un presidente eletto, sarà tutto finito”. ”

Siriani con i ritratti del presidente Bashar al-Assad su una nave da trasporto militare nel maggio 2011. Fotografia: Louai Beshara / AFP / Getty Images

In Siria, che rimane distrutta e non riconciliata dopo quasi un decennio di disordini, il potenziale scatenato dai primi giorni della rivoluzione sembra ora irriconoscibile. L’impatto della guerra e delle rivolte hanno lasciato in subbuglio una regione che non si era mai ripresa dall’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003. A molti lo spettro dell’autodeterminazione sembra più lontano che mai e il mondo un posto molto diverso.

“La guerra in Iraq e la primavera araba hanno portato all’Isis e alla guerra civile siriana, che ha creato la crisi dei rifugiati in Europa, contribuendo all’ascesa del populismo in Occidente e al voto del Regno Unito per lasciare l’UE”, ha detto Emma Sky, ex consigliere al comando dei generali statunitensi in Iraq. “Riprendere il controllo dei nostri confini per limitare l’immigrazione è stato un fattore chiave della Brexit. La guerra in Iraq ha anche contribuito alla perdita della fiducia del pubblico negli esperti e nell’establishment. Il trionfalismo americano del dopo guerra fredda si è schiantato e ha incendiato il Medio Oriente. La guerra in Iraq è stata il catalizzatore. L’incapacità di fermare lo spargimento di sangue in Siria le prove “.

Rifugiati sbarcano sull’isola greca di Lesbo. Fotografia: Jillian Edelstein

Hellyer ha detto che i regimi hanno imparato ben poche lezioni, “tranne quelle sbagliate” e che  pensano di avere due opzioni. “La prima è quella di aprirsi, lentamente o non lentamente, e iniziare il lungo e arduo compito di costruire Stati sostenibili nel 21 ° secolo, cosa che include la sicurezza globale – e i diritti ne fanno parte – per le loro popolazioni.

“La seconda è decidere che aprirsi un po’ significa che la popolazione caccerà le élite postcoloniali. Quindi, per impedire che ciò accada, occorre aumentare  il controllo il più possibile ed eliminare il dissenso “.

Manifestanti libanesi sventolano bandiere nazionali durante le proteste antigovernative nel novembre 2019. Fotografia: Anwar Amro / AFP / Getty Images

Okail, che ha trascorso gran parte degli ultimi otto anni in esilio dopo essere stata accusata di aver ricevuto finanziamenti stranieri nel suo ruolo di direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Freedom House, ha detto che, nonostante le battute d’arresto, era “valsa la pena” combatter per tutto ciò in cui aveva creduto.

“Abbiamo avuto alcune piccole vittorie e stiamo ancora combattendo battaglie”, ha detto. “Anche se più a lungo le cose restano così, più difficile sarà salvare il Paese. Per il bene dei diritti umani e della democrazia, non dovremmo fare affidamento sui governi per cambiare le cose. Abbiamo bisogno di resistenza e abbiamo bisogno di approcci diversi. È qui che avviene il vero cambiamento. ”

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam