In un solo decennio, Israele ha trasformato i richiedenti asilo in criminali

Imprigionando e deportando i richiedenti asilo, Israele ha delegittimato il concetto stesso di rifugiato.

Fonte:English Version

Oren Ziv – 31 dicembre 2019

Immagine di copertina: Richiedenti asilo del Sudan e dell’Eritrea organizzano finte aste di schiavi al di fuori della Knesset, durante una protesta contro il piano del governo israeliano di deportare i richiedenti asilo africani in paesi terzi in Africa, Gerusalemme, 22 gennaio 2018 (Oren Ziv / Activestills.org)

Se  si volesse usare un’unica parola  per descrivere l’ultimo decennio nella lotta dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi in Israele, sarebbe “infiltrati”. Razzista e dispregiativa: la trasformazione di decine di migliaia di persone in criminali da parte del governo israeliano racchiude l’intera storia. Negli ultimi 10 anni Israele non solo ha rifiutato di riconoscere come rifugiati coloro che sono fuggiti dai loro paesi d’origine, ma ha anche delegittimato il concetto stesso di rifugiato.

In Israele, le decine di migliaia di richiedenti asilo eritrei e sudanesi fuggiti dalla dittatura, dalla tortura e dalla probabile morte si sono rassegnati a una vita di instabilità, prigionia e deportazione. Le politiche di Israele hanno trasformato le loro vite in una lotta per la sopravvivenza, sia in senso personale, cercando di provvedere alla propria famiglia, sia politicamente, contro i tentativi israeliani di espellere i rifugiati attraverso il “consenso” o la coercizione.

La loro lotta è soprattutto per il riconoscimento, a cui molti richiedenti asilo hanno rinunciato a favore dell’organizzazione politica all’interno delle varie comunità di rifugiati. Migliaia di persone sono partite per il Canada e altri paesi attraverso programmi di ricongiungimento familiare o altre iniziative umanitarie, mentre altri – anche per tutto il 2019 – sono tornati “volontariamente” in paesi terzi, spesso come un’altra tappa del loro viaggio verso l’Europa.

Secondo le statistiche pubblicate alla fine del 2019 dalla Administration of Border Crossings, Population and Immigration sulla base dei numeri forniti dal Central Statistics Bureau, nel paese ci sono attualmente 109.000 persone residenti senza status. Di loro, 52.000 sono lavoratori stranieri, 31.800 richiedenti asilo e 17.400 turisti senza visto valido.

Profughi africani ammanettati siedono in un furgone dopo essere stati arrestati dalle autorità preposte all’immigrazione nel sud di Tel Aviv, Israele, il 22 dicembre 2012. (Oren Ziv / Activestills.org)

Solo 13 richiedenti asilo eritrei e sudanesi sono stati riconosciuti come rifugiati da Israele, il tasso più basso tra i paesi occidentali (meno dello 0,1% contro l’80-90% di riconoscimento o protezione per gli eritrei e 60-70% per i sudanesi). Inoltre, solo 1.000 richiedenti asilo hanno ricevuto lo status di residente temporaneo per scopi umanitari; le loro richieste di asilo non sono mai state elaborate.

L’insistenza di Israele nel rifiutare di processare la maggior parte delle richieste di asilo e il suo rifiuto di riconoscere coloro che arrivano nel paese come rifugiati, consente al paese di continuare il suo trattamento crudele nei confronti dei richiedenti asilo. Eppure riconoscere meno di 32.000 persone, consentirebbe ai richiedenti asilo di iniziare a condurre una vita normale, anche dopo 10 anni di permanenza nel paese.

“Non sono fuggito per essere per sempre un lavapiatti “, mi ha detto questa settimana un richiedente asilo. Si è laureato con lode in un’università in Eritrea e da quando è arrivato in Israele nel 2011 ha lavorato nelle cucine di ristoranti. “Niente è stabile qui,  immagino che se fossi cittadino o residente sarei in grado di studiare e di andare avanti”.

“Un cancro nel nostro corpo”

Guardando indietro, il 2012 è stato l’anno fatidico per i richiedenti asilo in Israele. Il 2011 aveva visto un numero record di richiedenti asilo africani entrare in Israele (16.000), portando la Knesset ad approvare un terzo emendamento alla legge sulla prevenzione “dell’infiltrazione” nel gennaio dell’anno successivo.

La legge, approvata per la prima volta nel 1954 per impedire il ritorno dei profughi palestinesi in Israele, entrò in vigore nel giugno 2012. Stabiliva che chiunque fosse entrato in Israele senza autorizzazione attraverso il confine con l’Egitto, sarebbe stato  detenuto nella prigione di Saharonim, situata nel  mezzo del deserto del Negev, per tre anni. L’Alta Corte di giustizia annullò la legge, ma un governo israeliano di destra sempre più ostinato ha escogitato nuovi modi per punire i richiedenti asilo.

Richiedenti asilo africani senzatetto dormono mentre i fuochi d’artificio esplodono a Capodanno, Levinsky Park, a sud di Tel Aviv, Israele, 1 gennaio 2012. (Oren Ziv / Activestills.org)

Nello stesso anno, l’incitamento contro i rifugiati raggiunse il culmine. Nel maggio 2012, centinaia di residenti e attivisti di destra organizzarono una manifestazione nel quartiere Hatikva a sud di Tel Aviv, in cui il MK Miri Regev del Likud salì sul palco e definì i richiedenti asilo “un cancro nel nostro corpo”.

Quando i discorsi finirono, centinaia di giovani israeliani iniziarono a marciare per le strade; quando  vennero bloccati dalla polizia, iniziarono ad attaccare i richiedenti asilo e a sfondare  le vetrine delle aziende di proprietà dei rifugiati. Ero lì quella notte ed è stato uno degli eventi più difficili che abbia mai coperto. La vista di israeliani che attaccavano i richiedenti asilo era rara all’epoca; l’incidente  rivelò che l’intenso odio nei loro confronti era il risultato diretto dell’incitamento da parte di leader politici e di partiti.

Un mese prima dell’ormai famigerata protesta, Haim Mula, un residente del quartiere Shapira a sud di Tel Aviv, fu sospettato di aver lanciato molotov negli appartamenti in cui si pensava vivessero richiedenti asilo. All’epoca vivevo in un appartamento sopra quello di un gruppo di richiedenti asilo, alcuni dei quali erano costretti a dormire nel cortile sul retro per mancanza di spazio.

Una notte mi svegliai sentendo delle grida e correndo fuori  vidi uno dei loro letti in fiamme. Quando  arrivò la polizia,sentii gli agenti parlare di altre case che erano state attaccate. Li seguii e scoprii che Mula aveva appiccato il fuoco a un asilo e a un altro appartamento nel quartiere. Quando  tornai a casa all’alba, fui sorpresa nello scoprire che la polizia non aveva rilasciato un comunicato sugli attentati, probabilmente per paura delle ripercussioni.

Le conseguenze di un attacco molotov a una scuola materna per bambini immigrati nel quartiere Shapira a sud di Tel Aviv, Israele, 27 aprile 2012. (Oren Ziv / Activestills.org)

Nel 2012, il figlio di uno dei miei vicini eritrei morì nel deserto del Sinai mentre  cercava di raggiungere Israele. La famiglia fu costretta a pagare il riscatto, proprio come un numero imprecisato di richiedenti asilo rapiti e torturati dai trafficanti beduini.

In quegli anni, nel sud di Tel Aviv i richiedenti asilo tenevano veglie ogni sabato per coloro che morivano durante la fuga. Durante una di queste veglie, attivisti anti- richiedenti asilo di Shapira  organizzarono una festa di compleanno, ma non perché qualcuno stesse effettivamente compiendo gli anni. Gli attivisti volevano disturbare la veglia, che in seguito si spostò in varie chiese e cortili. Questo fu uno degli eventi più tristi a cui abbia assistito. Vedere attivisti che rappresentavano i quartieri meridionali diseredati di Tel Aviv interrompere un momento così dooroso per la comunità eritrea, fu veramente troppo da sopportare.

Nel 2012  fu completata la barriera di sicurezza al confine con l’Egitto, che portò a una forte diminuzione dei richiedenti asilo che entravano in Israele. Quell’anno, 20 rifugiati, tra cui donne e bambini,  furono bloccati tra i due lati della recinzione mentre cercavano di entrare nel paese.  Rimasero lì per un’intera settimana senza riparo, cibo o acqua. Alla fine di quella settimana, l’esercito israeliano usò gas lacrimogeni e forza fisica per rimandarli in Egitto, permettendo a solo due donne e a un bambino piccolo di entrare in Israele. Secondo le convenzioni internazionali, uno stato deve accettare i richiedenti asilo ed elaborare le loro richieste di asilo, anche se hanno solo raggiunto il confine e non sono ancora entrati nel paese.

Verso l’estate del 2012, dopo che il Sud Sudan  dichiarò l’indipendenza, Israele iniziò a deportare circa 1.000 richiedenti asilo sud-sudanesi, metà dei quali bambini. Nonostante i significativi avvertimenti che i rifugiati avrebbero affrontato un pericolo imminente a causa della guerra civile scoppiata poco dopo, le deportazioni continuarono. Secondo gli attivisti rimasti in contatto con i deportati, almeno il 90 per cento di loro fuggì dal Paese e tra il 70 e il 90  rimasero uccisi. Vale la pena ricordarlo, ogni volta che la situazione cambia in Eritrea o in Sudan, quando il governo israeliano inizia a parlare di un frettoloso ritorno dei richiedenti asilo.

Bambini rifugiati del Sud Sudan si preparano a salire su un autobus dalla stazione centrale degli autobus di Tel Aviv all’aeroporto Ben Gurion, prima della loro deportazione in Sud Sudan, il 17 giugno 2012. (Oren Ziv / Activestills.org)

La fine del 2013 e l’inizio del 2014 hanno ruotato in gran parte intorno alla lotta contro l’apertura del centro di detenzione di Holot, situato vicino al valico di Nitzana sul confine egiziano, dove  un gran numero di richiedenti asilo sudanesi ed eritrei fu detenuto dopo essere entrato nel paese. A Holot, che era designata come struttura di detenzione “aperta”, i migranti  erano trattenuti a tempo indeterminato,  con l’obbligo  di presentarsi tre volte al giorno e  con la proibizione di lavorare.

Decine di migliaia di richiedenti asilo parteciparono alle proteste contro le detenzioni a Holot, compresi coloro che già vivevano a Tel Aviv quando la struttura fu aperta, temendo di essere i prossimi della  lista. Mentre i paesi occidentali spesso imprigionano i richiedenti asilo, la decisione di trattenere i rifugiati africani dopo che erano già entrati nel paese e avevano ricevuto lo status di residente temporaneo era senza precedenti. Inoltre,  l’operato fu utilizzato dal governo per mostrare agli israeliani medi che stava facendo il possibile per “sostenere” i quartieri poveri del sud di Tel Aviv.

L’unico problema? Israele  iniziò a imprigionare la maggior parte dei richiedenti asilo che vivevano fuori Tel Aviv, e i 3.000 posti designati per i richiedenti asilo a Holot difficilmente  intaccavano le condizioni di vita di quei quartieri meridionali. Eppure, Holot ha avuto un ruolo molto più importante che semplicemente imprigionare i corpi dei richiedenti asilo: fu costruito per rompere i loro spiriti.

Una guerra per le menti

Il 15 dicembre 2013, 150 richiedenti asilo iniziarono una marcia di protesta contro la loro prigionia a Holot, chiedendo che Israele li riconoscesse come rifugiati. Quando seppi della marcia, partii immediatamente da Tel Aviv, incontrando i manifestanti esausti nella stazione centrale degli autobus di Be’er Sheva dopo che avevano già camminato per ore. La storia doveva ancora essere pubblicata quando la fotografa di Activestills Shiraz Grinbaum, che era lì a fotografare la manifestazione, decise spontaneamente di chiamarla “Freedom March”. Il nome divenne virale e la protesta raggiunse i principali organi di stampa e i social media.

Dopo una notte insonne nella stazione centrale degli autobus, i manifestanti si  diressero a Gerusalemme. Ricordo che diversi israeliani cercavano di convincere i richiedenti asilo che a Gerusalemme  faceva molto freddo (in città aveva nevicato) e che la polizia li avrebbe arrestati – il che alla fine fu  ciò  che successe. Eppure erano decisi: “Non siamo scappati di prigione per andare a Tel Aviv. Andremo a Gerusalemme per rivendicare i nostri diritti ”, dicevano.

Richiedenti asilo africani durante la marcia di protesta sull’autostrada da Be’er Sheva, nel sud di Israele, diretti a Gerusalemme dopo essere fuggiti dal centro di detenzione di Holot, 16 dicembre 2013 (Oren Ziv / Activestills.org)

La marcia fu una delle cose più spettacolari che abbia mai documentato. Nonostante i partecipanti fossero nel paese solo da breve tempo, compresero la necessità di influenzare l’opinione pubblica e di chiedere il riconoscimento del governo israeliano. Dopo aver marciato per ore, i manifestanti  dormirono la notte in un kibbutz vicino a Gerusalemme. Il giorno successivo  andarono alla Knesset dove  tennero la loro protesta. Al tramonto,  furono arrestati con la forza da agenti dell’immigrazione e dalla polizia antisommossa. Furono rimandati a Saharonim, una prigione chiusa,  e non più a Holot.

Dopo gli arresti, e quando fu chiaro che le autorità avevano iniziato a convocare i richiedenti asilo che si trovavano da tempo nel paese, la comunità dei richiedenti asilo a Tel Aviv  iniziò a organizzarsi. Il passo più significativo fu uno sciopero generale di tre giorni tenuto da decine di migliaia di richiedenti asilo, che manifestarono a Rabin Square, davanti all’ambasciata degli Stati Uniti e alla Knesset. I proprietari dei ristoranti erano in preda al panico totale e furono costretti, insieme ai loro camerieri, a lavare i piatti da soli.

I richiedenti asilo africani incarcerati nel centro di detenzione di Holot protestano dietro il recinto della prigione, il 17 febbraio 2014. I manifestanti chiedevano di chiudere la prigione e di riconoscere i diritti dei rifugiati dei richiedenti asilo africani che vivono in Israele. (Oren Ziv / Activestills.org)

Nell’estate del 2014, dopo essere stati trattenuti per mesi a Holot e stanchi di aspettare che Israele li riconoscesse come rifugiati, centinaia di richiedenti asilo marciarono verso il confine con l’Egitto, chiedendo che le Nazioni Unite e altri organismi internazionali venissero in loro aiuto. Sembrava che l’incitamento dei ministri, dei membri della Knesset e persino dello stesso Netanyahu avesse spezzato con successo lo spirito dei richiedenti asilo.

“Posso sopravvivere alla prigione, ma essere chiamato cancro mi ha spezzato. Ho capito che non abbiamo futuro in Israele ”, mi  disse Jack Tigi, un richiedente asilo sudanese, al campo di protesta di Nitzana. Ore dopo l’intervista, gli agenti dell’immigrazione fecero irruzione nel campo e arrestarono  i manifestanti, mandandoli a Saharonim.

“Abbiamo iniziato a marciare perché abbiamo capito, e ai miei occhi avevamo ragione, che il governo non vuole processare le nostre richieste di asilo. Volevano separarci dalla società israeliana – ecco perché ci hanno messo a Holot. Siamo andati al confine sperando che le Nazioni Unite venissero ad aiutarci. Sapevamo che c’era una minima possibilità che l’esercito aprisse il confine e ci facesse entrare in Egitto. Ma abbiamo voluto provare. ”

Richiedenti asilo africani prendono parte a una protesta silenziosa davanti all’Ambasciata degli Stati Uniti a Tel Aviv chiedendo di essere riconosciuti come richiedenti asilo, il 22 gennaio 2014 (Oren Ziv / Activestills.org)

Linciaggio a Be’er Sheva

Nel dicembre 2014, la Knesset legiferò  il quinto emendamento alla legge sulla prevenzione dell’ingresso, consentendo alle autorità di imprigionare per tre mesi a Saharonim i richiedenti asilo che entravano nel paese e per 20 mesi quelli che già vivevano in Israele. Questa volta, tuttavia, l’Alta Corte non annullò l’emendamento, ma nell’agosto 2015 ne stabilì  la sproporzione e ordinò al governo di ridurre il periodo di incarcerazione a un massimo di 12 mesi. Nel febbraio 2016, la Knesset  approvò un altro emendamento in conformità con la direttiva dell’Alta Corte.

Passai gran parte del 2015 e del 2016 guidando avanti e indietro tra Tel Aviv e Holot per visitare gli amici e documentare la vita nella struttura. A nessun giornalista  fu concesso il permesso di entrare nel centro di detenzione, ma i richiedenti asilo lì imprigionati ci  raccontavano tutto della vita all’interno. Nonostante il fatto che Holot fosse una struttura “aperta”, i detenuti  dovettero lottare per ottenere stufe o materiale educativo, che le guardie spesso confiscavano.

Poliziotti israeliani e agenti dell’immigrazione arrestano i richiedenti asilo africani vicino al confine israelo- egiziano, costringendoli a tornare in carcere nel centro di detenzione di Holot, deserto del Negev, 29 giugno 2014 (Oren Ziv / Activestills.org)

Migliaia di persone che erano  state incarcerate o erano a rischio di reclusione  lasciarono Israele “volontariamente”. Nel settembre 2015 c’erano 64.000 richiedenti asilo in Israele; oggi ne rimangono solo 32.000. Più di 6.400  rimasero nel 2014, quando  fu aperto Holot. Nel 2015, tre eritrei che  avevano lasciato Israele cercando di raggiungere l’Europa furono rapiti e giustiziati da militanti dello Stato islamico in Libia.

Il 18 ottobre 2015, un cittadino beduino di Israele sparò e uccise un soldato israeliano nella stazione centrale degli autobus di Be’er Sheva.  Prese quindi il fucile del soldato e aprì il fuoco contro i civili. Le guardie di sicurezza  spararono ad Habtoum Zarhum, un richiedente asilo eritreo che si trovava sul posto. Mentre giaceva morente, Zarhum fu  linciato da un gruppo di israeliani che lo scambiarono per il tiratore. Quattro degli aggressori di Zarhum  ricevettero condanne lievi.

Il linciaggio, che  arrivò al culmine di un’ondata di attacchi con coltello da parte di palestinesi,  scioccò la comunità dei richiedenti asilo e fu il risultato di una combinazione di animosità generale contro i rifugiati unita a dichiarazioni rese all’epoca da politici e rabbini secondo i quali i “terroristi ”non dovevano rimanere in vita.

Netanyahu  apre la strada alla deportazione

Nel maggio 2017, la Knesset  approvò una legge che consentiva ai datori di lavoro di detrarre il 20% del salario mensile dei richiedenti asilo, somma che avrebbero ricevuto indietro solo dopo aver lasciato Israele. La legge  a tutt’oggi colpisce gravemente i richiedenti asilo, costringendo molti di loro a una povertà ancora più profonda. Secondo le organizzazioni umanitarie per i richiedenti asilo, la legge ha anche spinto molte donne a dedicarsi alla prostituzione.

Nell’agosto 2017, dopo che l’Alta Corte stabilì che Israele non poteva imprigionare i richiedenti asilo a tempo indeterminato, ma poteva deportare in un “paese terzo” coloro che non avevano presentato richieste di asilo o le cui richieste erano state respinte, Netanyahu  visitò il sud di Tel Aviv per un servizio fotografico. In seguito avrebbe annunciato che, a seguito della sentenza dell’Alta Corte, il Ruanda avrebbe accettato di accettare i richiedenti asilo che non erano interessati a lasciare Israele, aprendo la strada alla deportazione forzata.

Nel 2018, il governo escogitò un piano per deportare con la forza decine di migliaia di richiedenti asilo in Ruanda e Uganda. Il piano scatenò proteste di massa in tutto Israele. Alla fine, l’Alta Corte ordinò il congelamento delle deportazioni e l’intero schema crollò quando Netanyahu raggiunse un accordo sulla questione con le Nazioni Unite. Poco dopo, a seguito delle pressioni dei gruppi di destra, Netanyahu annullò l’accordo. La struttura di detenzione di Holot, che era in funzione dalla fine del 2013,  fu chiusa.

Nel gennaio 2018, l’Amministrazione dei valichi di frontiera, della popolazione e dell’immigrazione, inizò a distribuire lettere di espulsione. Parallelamente, iniziò uno sforzo ampio e multiforme per fermare le deportazioni – nelle strade così come nei tribunali.  Nacquero movimenti come “Fermare la deportazione” e “Tel Aviv sud contro la deportazione”: quest’ultimo gruppo in particolare riuscì a trovare un delicato equilibrio tra i bisogni dei residenti dei quartieri sud di Tel Aviv e quelli dei richiedenti asilo.

In quei mesi,  entrai a far parte di una delegazione di membri di Meretz della Knesset in Ruanda e Uganda, dove apprendemmo in prima persona la sorte di coloro che erano stati costretti a partire. Penso ancora alle conversazioni che ebbi lì con i richiedenti asilo, che dissero che non si aspettavano certo che la vita fosse perfetta, ma che speravano almeno in un nuovo inizio – libero dalla paura dell’incarcerazione senza processo e dal razzismo che avevano vissuto in Israele.

Richiedenti asilo prendono parte a una massiccia protesta nel sud di Tel Aviv contro  il progetto israeliano per deportare i rifugiati africani in Uganda e Ruanda, gennaio 2018 (Oren Ziv / Activestills.org)

Incontrai persone che erano state ingannate dalla falsa promessa di un visto. Poiché le autorità di quei nuovi paesi  rifiutavano di riconoscere i richiedenti asilo che provenivano da Israele, le persone  dovettero mentire sul fatto di venire da quel paese, in modo che non venissero derubate delle piccole somme di denaro che  avevano risparmiato.

Questa a modo suo era un’idea “nuova”. Nei paesi occidentali, i migranti che non vengono riconosciuti come richiedenti asilo  vengono rimandati nei loro paesi d’origine, nonostante i pericoli che spesso hanno dovuto affrontare per lasciarli. La deportazione in un paese terzo è un’invenzione israeliana e un giorno speriamo di scoprire che tipo di accordo è stato offerto a questi paesi.

Nello stesso anno, i richiedenti asilo provenienti dall’Eritrea si stavano organizzando per unire le fazioni dell’opposizione e sconfiggere la dittatura nel loro paese d’origine. Ciò  portò alla violenza intracomunitaria, poiché i gruppi che  sostenevano il regime  litigavano con coloro che erano contrari. L’ambasciata eritrea in Israele non solo era coinvolta negli affari della comunità, ma addebitava ai richiedenti asilo un’imposta sul reddito del 2%, una tassa che altri paesi avevano vietato.

Nel 2018, alcuni dei richiedenti asilo rinchiusi a Holot  furono trasferiti in una prigione in attesa della deportazione. Furono tutti rilasciati quando lo Stato  annunciò il fallimento ufficiale del piano di espulsione.

Tigi, il richiedente asilo che avevo incontrato alla protesta fuori da Holot, disse all’epoca che “Israele è impegnata in una guerra emotiva e psicologica contro di noi, per spezzarci. Quando le persone raggiungono il punto di rottura, se ne vanno di loro spontanea volontà. Vogliono deportarci indirettamente in questo modo. ”

Lo stesso Tigi è stato imprigionato a Holot per due anni e, sebbene sia stato rilasciato,  non se n’è ancora andato. “Fino ad oggi, sono nella stessa situazione in cui mi trovavo quando sono arrivato in Israele per la prima volta. Le persone non lasciano Israele a causa della brutalità della polizia. Se ne vanno perché capiscono che gli israeliani hanno chiuso il loro cuore e hanno deciso di chiudere un occhio. L’unica cosa che ci dicono è: “vattene e basta”. Accettiamo di partire, ma dove? Come? Chiediamo aiuto e nessuno ascolta la nostra richiesta “.

‘Il meglio che hanno avuto’

Nel 2019 le elezioni nazionali hanno avuto la precedenza su tutto il resto. La questione dei richiedenti asilo è scemata e quasi nessuna delle parti l’ha affrontata nelle proprie campagne.

La scorsa settimana, l’autorità israeliana per l’immigrazione ha organizzato un tour mediatico in una struttura di detenzione nella città di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv. Il capo dell’autorità, Shlomo Mor-Yosef, ha detto: “Non vorrei cambiare il mio posto con il loro, ma questo è il meglio che hanno da quando sono arrivati ​​in Israele”. Ha continuato: “Di questo passo, tra pochi anni, Israele non avrà più richiedenti asilo da Eritrea e Sudan, anche senza un piano di espulsione”.

Anche senza ordini ufficiali di espulsione, il fatto che l’autorità per l’immigrazione non stia elaborando le richieste di asilo e si rifiuti di riconoscere il loro status di richiedenti asilo garantisce che la vita dei richiedenti asilo in Israele rimarrà difficile.

Richiedenti asilo si mettono in fila per rinnovare il visto fuori da un ufficio del ministero dell’Interno nel sud di Tel Aviv nel 2018 (Oren Ziv / Activestills.org)

Anche quest’anno migliaia di richiedenti asilo  se ne sono andati (2.266 eritrei e 209 dal Sudan). Alcuni sono andati in Canada come parte di un piano di ricongiungimento familiare, mentre altri si sono diretti in paesi terzi, compresa l’Africa, dove inizieranno nuovamente il loro viaggio verso l’Europa. Lì hanno maggiori possibilità di ottenere lo status di rifugiati.

Non tutti gli eventi che si sono verificati nell’ultimo decennio sono stati trattati sopra. Ciò include la decisione del governo di chiudere le filiali del ministero dell’Interno in tutto il paese, costringendo i richiedenti asilo a recarsi in un unico ufficio a Bnei Brak per rinnovare il visto e costringendo molti ad aspettare fuori al freddo durante la notte.

Non è citata neppure la storia del bambino eritreo pugnalato alla testa da un uomo squilibrato che ha dichiarato di “odiare i neri”. Inoltre, non ho coperto i momenti quotidiani dei richiedenti asilo, molti dei quali sono arrivati ​​a Tel Aviv all’inizio del decennio e non sono riusciti a trovare un lavoro o una sistemazione e sono stati costretti a rimanere senza casa.

Non si può terminare, tuttavia, senza menzionare tutti coloro che hanno sostenuto e protestato insieme ai richiedenti asilo, comprese le organizzazioni umanitarie, gli attivisti e molti volontari. Coloro che hanno combattuto le battaglie legali e la burocrazia, nonostante  gli insulti contro di loro e le accuse che stavano trascurando la propria gente  per stare al fianco dei richiedenti asilo. La loro mobilitazione ci ha dato speranza e quella comunità di attivisti è diventata una famiglia per le migliaia di rifugiati che sono fuggiti in questo paese.

 

Oren Ziv è una fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills e scrittrice dello staff  di Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, lotte contro il razzismo e la discriminazione e la lotta per la liberazione animale.

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”- Invictapalestina.org

 

 

 

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