I diritti umani dei palestinesi non sono negoziabili

I palestinesi stanno subendo un attacco razzista e occidentale, ma non possono scendere a compromessi sul diritto all’autodeterminazione e alla liberazione.

Fonte: english version

Di Haidar Eid – 25 aprile 2022 

Immagine di copertina: Manifestanti palestinesi si scontrano con le forze israeliane a seguito di una protesta contro l’espansione degli insediamenti ebraici nel villaggio di Beit Dajan in Cisgiordania il 22 aprile 2022. (Foto: Stringer/APA Images)

L’Apartheid di Israele ha messo in chiaro che, poiché non può sbarazzarsi di noi completamente, dobbiamo diventare per sempre i suoi sudditi colonizzati e subordinati. La maggior parte degli ebrei israeliani sostiene la politica genocida del proprio governo perché, in quanto sionisti che vivono in uno Stato suprematista ebraico, sono indottrinati a credere di avere diritto a determinati privilegi che devono essere negati ai “goyim” (gentili o non ebrei), che casualmente sono la popolazione nativa della terra.

Per attuare questa ideologia razzista, nel 1948 la pulizia etnica fu la soluzione. E nel 1967, una combinazione di colonizzazione e occupazione militare divenne l’unica opzione. Il comandante delle forze israeliane in Cisgiordania, non appena le forze di occupazione sioniste riuscirono a occupare ciò che restava della Palestina, disse: “Tutta l’autorità di governo, legislazione, nomina e amministrazione relativa all’area o ai suoi residenti sarà ora esclusivamente nelle mie mani e sarà esercitata solo da me o da qualsiasi persona da me nominata o che agisca per mio conto”.

Non sorprende quindi che quasi tutte le principali organizzazioni per i diritti umani, incluso il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e il prestigioso Centro Internazionale per i Diritti Umani presso la Facoltà di Legge di Harvard, siano recentemente giunte alla conclusione che Israele è uno Stato di Apartheid.

L’Apartheid israeliano, in questo contesto, è una parola eufemistica usata per descrivere un regime di oppressione multiforme, che nega l’umanità del soggetto colonizzato, vale a dire i nativi palestinesi. Ma a Gaza e a Jenin, ci rifiutiamo di marciare verso le camere della morte di Israele con rassegnazione. Non siamo come i leader arabi che normalizzandosi hanno accettato il loro status di inferiorità perché si rifiutano di riconoscere la loro oppressione come ingiustizia, accettandola invece come l’ordine naturale delle cose.

A Gerusalemme, a Gaza e in altre parti della Palestina storica, abbiamo chiarito che combatteremo il regime coloniale e di Apartheid esistente tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Si tratta di un regime che è riuscito, con successo, a creare sul campo una realtà statale non democratica, grazie alla Naksa del 1967 e ai disastrosi accordi di Oslo del 1993. Crediamo che sia nostro diritto pretendere che la comunità internazionale sostenga la nostra lotta per la giustizia e la libertà, esattamente nello stesso modo in cui sostiene la resistenza ucraina contro l’invasione russa.

Tuttavia, siamo anche consapevoli che la testimonianza della nostra lotta e della nostra emancipazione è, purtroppo, divenuta un automatismo da parte di organizzazioni storicamente dedite alla liberazione della Palestina.

Ancora una volta, il popolo palestinese si sta dimostrando più consapevole della realtà sul campo e più ansioso per i nostri diritti rispetto alla nostra dirigenza, di destra e di sinistra, e della cosiddetta comunità internazionale. La crisi ucraina ha dimostrato che è nostro dovere come palestinesi creare l’alternativa di cui abbiamo bisogno quando, in realtà, non esiste un reale spazio politico che possa accogliere la nostra liberazione, come ho sostenuto in un articolo che ho scritto il mese scorso. Stiamo subendo un attacco razzista e occidentale, ma non possiamo scendere a compromessi sui nostri diritti fondamentali. Questi includono il diritto all’autodeterminazione e alla liberazione anche quando tutto ciò che ci viene offerto è la parvenza di parlare di indipendenza  con soluzioni razziste camuffate.

La domanda che si pone ogni palestinese (ma non l’élite politica) è: cosa faremo ora che è diventato assolutamente chiaro che il cosiddetto processo di pace ha consentito nuovi progressi israeliani sul campo e nuove pratiche repressive che hanno reso sostanzialmente non praticabile uno Stato palestinese funzionante?

Come ha sostenuto il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), coloro che subordinano il loro sostegno al BDS e alle sue tre rivendicazioni, ovvero Libertà, Uguaglianza e Giustizia, all’adozione da parte del movimento del cosiddetto “consenso internazionale” (che non è altro che una soluzione ingiusta dettata da Israele e dall’unica superpotenza mondiale attuale, gli USA), ci chiedono di rinunciare ad alcuni dei nostri diritti fondamentali di esseri umani, il che rivela una posizione profondamente falsa. I nostri diritti fondamentali non sono negoziabili; le soluzioni lo sono.

E una di queste soluzioni, che sta riemergendo,è uno Stato laico-democratico per tutti i suoi cittadini. Questo Stato laico-democratico si istituirebbe in seguito allo smantellamento dell’esistente sistema di oppressione a più livelli tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa soluzione garantirebbe l’uguaglianza politica indipendentemente dalle origini religiose ed etniche. Questo è esattamente ciò che riguarda l’attuale sconvolgimento in Palestina, guidato dai giovani rivoluzionari. Gli stessi slogan vengono usati nel Negev, a Gaza, a Jenin, a Gerusalemme, a Umm Al-Fahm e in altre città palestinesi, slogan che rappresentano una nuova coscienza che la vecchia generazione non è in grado di comprendere.

Haidar Eid è Professore Associato di Letteratura Postcoloniale e Postmoderna all’Università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto ampiamente sul conflitto arabo-israeliano, inclusi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato articoli su studi culturali e letteratura in numerose riviste, tra cui Nebula, Journal of American Studies in Turkey, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org