Richard Falk: analizzando il rapporto di B’Tselem sull’Apartheid israeliano

Quello che dice B’Tselem, e lo trovo molto convincente, è che la situazione dal 1989, al momento della loro istituzione iniziale e quando hanno limitato il loro mandato, che tale situazione non esiste più. E che non si può più distinguere in modo significativo tra l’occupazione e lo stesso Israele.

Fonte: english version

Di Richard Falk – 7 agosto 2021

Immagine di copertina: una donna palestinese con in braccio il suo bambino passa davanti ai carri armati israeliani nella città di Jenin, in Cisgiordania, il 9 marzo 2004. Una giovane madre palestinese è stata uccisa da soldati israeliani in questa città della Cisgiordania durante un’operazione per arrestare un leader locale del movimento della Jihad islamica. (SAIF DAHLAH/AFP TRAMITE GETTY IMAGES)

Ho visitato il Sudafrica nel 1968, cioè circa 53 anni fa, di essere l’osservatore ufficiale di un processo politico contro gli africani del sud-ovest, come venivano chiamati al tempo, ora namibiani, che venivano perseguiti per le loro attività di resistenza. Fu John Dugard, che allora era un giovane giurista emergente in Sudafrica, che mi mostrò sul campo cosa significasse vivere realmente in un regime di apartheid. Ho beneficiato nel corso degli anni della sua conoscenza, saggezza ed esperienza.

Commenterò il recente rapporto di B’Tselem sull’apartheid israeliano. B’Tselem è una delle principali ONG israeliane per i diritti umani che gode della stima di molte persone in tutto il mondo per i suoi rapporti obiettivi sulle violazioni dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. Il rapporto chiarisce che la sua intenzione originale non era quella di occuparsi di questioni diverse da ciò che stava accadendo sotto l’occupazione.

Credo che sia piuttosto interessante che questa rispettata ONG abbia pubblicato il 12 gennaio di quest’anno un rapporto dal titolo “Questo è l’Apartheid: Un Regime di Supremazia Ebraica dal Fiume Giordano al Mar Mediterraneo”. È significativo, penso, che questa concezione dell’apartheid sia espressa nel titolo stesso perché quello che dice B’Tselem, e lo trovo molto convincente, è che la situazione dal 1989, al momento della loro istituzione iniziale e quando hanno limitato il loro mandato, che tale situazione non esiste più. E che non si può più distinguere in modo significativo tra l’occupazione e lo stesso Israele. E questa è una concezione piuttosto radicale che va oltre al dire che sotto l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est è stata imposto un regime di apartheid.

Uno dei motivi addotti nella relazione per ampliare il proprio mandato oltre i Territori Palestinesi Occupati e per la conclusione radicale che lo stesso Israele è soggetto a un’analisi dell’apartheid è capire la situazione della minoranza palestinese, che conta circa il 17% della popolazione al di là della Linea Verde.

Le due ragioni che adducono sono, prima di tutto, che per una questione di pubblico riconoscimento, l’istitutivo israeliano non rispetta più la natura temporanea dell’annessione o dell’occupazione. Devo dire che Netanyahu e altri leader israeliani parlano apertamente di annessione formale, come hanno fatto a Gerusalemme e in parti significative della Cisgiordania, e hanno già annesso in modo formale Gerusalemme Est.

Quindi, l’implicazione nel rapporto è che l’annessione rende artificiale e non veramente soddisfacente la distinzione tra l’occupazione e lo stesso Israele. In altre parole, che Israele stesso comprende il territorio che rimane formalmente sotto occupazione. Hanno rafforzato quell’analisi con la relativa comprensione che anche senza un’annessione formale, la realtà per le persone che vivono in Cisgiordania è il totale controllo israeliano. E che Israele e i coloni ebrei operano come se, per gli ebrei, non ci fosse una vera differenza tra Israele vero e proprio e le circostanze delle diverse centinaia di migliaia di coloni che vivono in questi insediamenti armati che sono illegali dal punto di vista del diritto umanitario internazionale.

Quindi, l’annessione, di fatto, prende il sopravvento, in questo senso, dalla nozione, che risale alla partizione, che si debba trattare il territorio del mandato storico della Palestina come diviso tra i due popoli. Ciò che è alla base di questa conclusione è l’idea che i palestinesi sotto occupazione e in Israele vivano all’ombra di ciò che il rapporto B’Tselem chiama supremazia ebraica, e che l’essenza della supremazia ebraica è una struttura di discriminazione basata sull’identità etnica.

Tale analisi è ulteriormente rafforzata nel rapporto sull’adozione, da parte della Knesset israeliana nel 2018, di una cosiddetta legge fondamentale che corrisponde in realtà a una valutazione costituzionale del rapporto tra ebrei e palestinesi. È diventato molto chiaro che solo gli ebrei, è affermato molto chiaramente nella legge fondamentale, hanno il diritto all’autodeterminazione all’interno di Israele. E che solo l’ebraico è una lingua ufficiale e che l’estensione degli insediamenti nella Palestina occupata è parte integrante dell’identità territoriale di Israele.

E così, la Knesset stessa fornisce una conferma sufficientemente forte all’accusa di apartheid che ora è diventata così normalizzata nella comprensione della situazione esistente e che deve essere affrontata dal popolo palestinese. E non è più solo qualcosa che è applicabile alla relazione tra l’amministrazione militare dei palestinesi occupati e il modo in cui sono governati gli insediamenti e i coloni.

La domanda che vorrei porre in relazione al rapporto B’Tselem è se sia davvero appropriato limitare la nozione di apartheid nel modo in cui lo fanno; a uno spazio allargato piuttosto che al popolo palestinese nel suo insieme. Ho collaborato a uno studio delle Nazioni Unite, pubblicato nel 2017, che ha adottato l’idea che l’essenza del tipo di regime di apartheid a cui è sottoposto il popolo palestinese sia meglio compresa in termini di politiche e pratiche di Israele in riferimento alle persone non allo spazio, e, quindi, ingloba i profughi palestinesi che da decenni sono confinati nei campi profughi e ai quali è negata la possibilità di rimpatrio nei luoghi di residenza che originariamente avevano abbandonato nel 1948 e nei periodi successivi compreso il ’67.

Quindi, il punto che penso sia importante capire concettualmente è se si pensa all’apartheid, come è stato fatto più convenzionalmente, come una caratteristica o una dimensione del modo in cui l’occupazione in quei lunghi periodi dal 1967 è stata implementata. O se la si pensa alla maniera di B’Tselem di estendere la nozione di apartheid a quello che chiamano tutto il territorio dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, vale a dire la Palestina storica come emerse dall’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. Oppure il terzo modo, che è quello che preferisco, che è quello di allargarsi oltre la nozione di B’Tselem per incorporare i rifugiati e gli esiliati involontari nella propria comprensione di ciò che è l’apartheid.

Permettetemi anche di dire che il rapporto B’Tselem è molto utile per analizzare il motivo per cui giungono alla conclusione che le politiche e le pratiche di Israele hanno le caratteristiche dell’apartheid che possono essere sia paragonate al Sudafrica, ma anche da esso distinte. Il nocciolo della nozione di apartheid, come crimine internazionale al momento attuale, sono le strutture di dominio che implicano la vittimizzazione di un popolo, etnia o razza subordinati, e la supremazia di un popolo o razza dominante. In altre parole, la divisione è basata su una qualche forma di identità categoriale.

Ciò che indica il rapporto B’Tselem sono quattro ambiti in cui si fa affidamento su questo tipo di identità razziale discriminatoria. Prima di tutto, per quanto riguarda l’immigrazione, solo gli ebrei hanno un diritto illimitato, per quanto esile sia il loro legame con Israele o anche con l’ebraismo, di immigrare, che c’è un diritto al ritorno. E al contrario, che i palestinesi e in genere i non ebrei non hanno alcun diritto di immigrazione se non quello che può essere concesso in circostanze eccezionali dal Ministro degli Interni o dal comandante militare in Cisgiordania.

Secondo, la terra è stata sottratta ai palestinesi a un ritmo costante sin dalla guerra del 1948. Attualmente fino al 90% della terra sotto il controllo israeliano appartiene agli ebrei e meno del 3% della terra è ora di proprietà di palestinesi. Oltre a ciò c’è che la residenza palestinese viene manipolata in modo tale da confiscare la terra dei palestinesi che per un motivo o per l’altro sono assenti per un periodo di tempo o hanno violato le norme che regolano l’uso della terra.

Una terza caratteristica, che è principalmente associata all’occupazione, sono le restrizioni alla libertà di movimento palestinese che sono molto severe e che hanno reso la vita dei palestinesi molto stressante: tutti i tipi di posti di blocco che sono costantemente presenti o improvvisati, i cosiddetti checkpoint volanti. E, il blocco e l’isolamento di Gaza, in cui non ci sono posti di blocco interni ma c’è una restrizione rigorosa per entrare o uscire da Gaza.

Infine, le restrizioni alla partecipazione palestinese alla normale vita politica di Israele o alle elezioni che i palestinesi amministrano o dovrebbero amministrare nei Territori Occupati ma con cui Israele interferisce per assicurarsi che i risultati non mettano in discussione il suo modo di governare. Al momento dovevano esserci le elezioni del 22 maggio, ma Israele ha preso la posizione che i palestinesi a Gerusalemme Est, che sono circa 350.000, non avranno diritto a votare alle elezioni perché Gerusalemme Est è ora formalmente parte di Gerusalemme, che  fa parte del territorio sovrano di Israele.

L’Autorità Palestinese ha ribattuto con l’opinione che, a meno che i palestinesi a Gerusalemme Est possano votare, non si terranno le elezioni. Alcuni ritengono che sia solo una scusa di Mahmoud Abbas per evitare le elezioni che non si sono tenute negli ultimi 15 anni. Le elezioni palestinesi sono state annullate. Non sappiamo quale sia il vero motivo, ma sappiamo che queste quattro caratteristiche delle politiche e delle pratiche di Israele hanno costituito una forma di frammentazione discriminatoria che ha reso la vita dei palestinesi pervasa e gravata dalla miseria.

Penso che l’ultima cosa che farei sarebbe richiamare l’attenzione sulla fine del rapporto di B’Tselem, che dice che non si deve rinunciare alla lotta per i diritti umani. Ma spetta anche a coloro che si impegnano in quella lotta dire che deve esserci una fine. Dobbiamo prima dire di no. Nella loro lingua, dobbiamo prima dire no all’apartheid. Che, in altre parole, finché persiste questa struttura di apartheid, non c’è percorso verso una pace sostenibile che riconosca i diritti fondamentali dei palestinesi.

Credo che sia un risultato molto importante. Che questa struttura, comunque la si chiami, che si chiami apartheid o meno, è un ostacolo decisivo alla realizzazione di una forma pacifica di convivenza tra questi due popoli. E a meno che quel regime di apartheid non venga smantellato nel modo in cui lo è stato il regime segregazionista in Sudafrica, sotto la pressione non tanto dei governi quanto della combinazione di solidarietà globale, una campagna sostenuta all’epoca dalle Nazioni Unite e sforzi di resistenza da parte degli oppositori in Sudafrica e nei paesi vicini. In altre parole, sono state solo la resistenza e la solidarietà globale che hanno portato l’élite sudafricana a rivedere le proprie priorità in modo da compiere finalmente la scelta che John Dugard ha definito un miracolo di transizione pacifica verso una forma multirazziale di costituzionalismo.

Penso che non sia un miracolo, ma un modo in cui le pressioni accumulate della politica simbolica derivanti dalla legge e dalla morale, creano uno status di paria per un paese che pratica l’apartheid in modo tale da costringere davvero quella classe dirigente a riflettere se vogliono esistere in opposizione ai sentimenti morali e giuridici del mondo e subirne le conseguenze che ne derivano o se vogliono vivere in una società pacifica basata sull’uguaglianza e sulla giustizia per le persone indipendentemente dalla loro identità razziale o religiosa.

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale presso l’Università Albert G. Milbank di Princeton. Attualmente è presidente di Diritto Internazionale presso la Facoltà di Legge dell’Università Queen Mary di Londra. Nel 2008, è succeduto a John Dugard come Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati, incarico che ha ricoperto fino al 2014. È autore di numerosi libri, tra cui “Israel-Palestine on Record: How The New York Times Misreports Conflict in the Middle East” (Israele-Palestina Agli Atti: Come il New York Times Riporta il Conflitto in Medio Oriente), di cui è stato coautore con Howard Friel; e “Palestine: The Legitimacy of Hope” (Palestina: la legittimità della speranza). Il suo libro di memorie politico, “Public Intellectual: The Life of a Citizen Pilgrim” (Un Comune Intellettuale: La Vita di Un Cittadino Errante), è stato pubblicato a marzo.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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