Innamorarsi con uno sguardo…

Immagine di copertina: Nabil Anani 26 aprile 2016 · End of Innocence.

Grazie a Edizioni Q è possibile dare uno sguardo al Paese del mare. Questa è la prefazione integrale del libro a cura del traduttore Alessandro Isopi.

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Il LIBRO

Il paese del mare è un romanzo palestinese e, in quanto tale, è profondamente influenzato dagli avvenimenti storico-politici che hanno contrassegnato la storia della Palestina nell’ultimo secolo: la colonizzazione sionista, la creazione dello Stato d’I­sraele e la conseguente cacciata della popolazione palestinese dalle proprie terre.

In arabo: la Nakba, la catastrofe, collocata cronologicamente nel maggio del 1948, ma le cui cause e i cui effetti si continuano a ripercuotere quotidianamente su tutti gli aspetti della vita di ogni singolo palestinese, compreso quello artistico-letterario, tanto da definire i vari sottogeneri della pro­duzione scritta palestinese: letteratura della nakba, della diaspo­ra, della resistenza, dell’intifada e così via. Il romanzo di Ahmad Rafiq Awad è parte della letteratura dei Territori Occupati del periodo della cosiddetta “seconda intifada”, ma si può ricolloca­re in qualsiasi sottogenere, perché comuni sono le tematiche e comune è la risposta a una situazione storico-politica che è sem­pre la medesima da sessanta anni.

Come per tutti gli autori palestinesi, anche per Ahmad Rafiq Awad la storia non solo influenza in modo incisivo la produzio­ne letteraria, ma occupa un posto preponderante all’interno del romanzo. E nel nostro caso il soggetto prediletto non è solo la storia contemporanea, ma anche quella medievale.

Il romanzo si struttura fin da principio come la narrazione di un sogno. Il protagonista Ahmad sogna, quando dovrebbe, in verità, sorvegliare il campo di suo padre, e all’inizio del suo so­gno gli appare subito Abulfida’, cavaliere musulmano che ha le sembianze di un animale fantastico. Il cavaliere alato afferra il protagonista con i suoi artigli e vola con lui sopra la Palestina osservandola com’è oggi e com’era nel passato.

Sogno e fantasia si mescolano alla realtà e alla storia, una storia fatta di guerre, di occupazioni, di esili e di umiliazioni.

Storico e realmente esistito è anche il personaggio che ac­compagna Ahmad in questo suo viaggio per la Palestina, Abul­fida’. Discendente della famiglia Ayyubide, oltre ad essere stato un noto uomo di lettere, fu re di Hama e partecipò all’assedio di Acri nel 1291, che si concluse con la riconquista della città e la fine dell’esperienza crociata nel territorio siro-palestinese. Le vi­cende del condottiero musulmano del ’200 si intrecciano con quelle del giovane Ahmad, la cui vita presenta numerosi tratti autobiografici. Il protagonista e l’autore, peraltro omonimi, sono entrambi scrittori, entrambi vivono a Ramallah ed entram­bi hanno vissuto la loro infanzia in un villaggio nei pressi di Genin insieme alla loro famiglia, una famiglia di profughi del 1948 originaria di Cesarea. Eccetto il nome del villaggio di Qa­drun, nato dalla fantasia dell’autore, tutti i luoghi menzionati nel testo, quali la valle di al-Abhar o Wadi al-Abhar e il monte al-Shumur, sono luoghi dell’infanzia di Awad.

Molti altri episodi richiamano esperienze realmente accadu­te e vissute dall’autore: dalle violenze subite dai soldati israelia­ni, alle vicende legate agli accordi di Oslo, con la nascita del­l’ANP (autorità nazionale palestinese) e le speranze, subito di­silluse, di una possibile svolta.
La vita dell’autore-protagonista si intreccia con quella del cavaliere medievale inserendosi nel contesto della storia della Palestina.
Il sogno favorisce la narrazione, amalgamando vicen­de tanto lontane cronologicamente e creando sbalzi temporali degni della macchina del tempo. Attraverso tale struttura narra­tiva si passa in modo repentino dalla Palestina sotto l’occupa­zione crociata, alla Palestina sotto l’occupazione sionista, dalle battaglie tra cavalieri musulmani e templari, alle umiliazioni in­flitte ai profughi palestinesi.

Vediamo Abulfidà meravigliarsi per la presenza di “nuovi franchi” nella Palestina attuale e ascoltiamo Ahmad interrogare il suo compagno di viaggio sulle vicende di settecento anni prima. Visitiamo la città di Acri oggi, una città decadente i cui abitanti arabi vivono una vita fatta di umiliazioni e soprusi, e poi sorvoliamo Acri nel XIII secolo, vi­vendo la riconquista da parte delle truppe musulmane attraver­so gli occhi di uno dei protagonisti di quella vicenda: il cavalie­re Abulfidà.

Ma non ci sono solo la Palestina e Acri nel sogno di Ahmad: i due protagonisti si ritrovano in Iraq durante l’invasione mon­gola del 1258 e qui osservano la distruzione di Baghdad. Dall’I­raq passano poi in Libano e, in una casa fatiscente del campo profughi di Rashidiyyah, incontrano il vecchio Abu Hassan che racconta loro la vita in Palestina prima del 1948. Nel suo sogno Ahmad incontra persino la Vergine Maria intenta a raccogliere la salvia nei pressi di Nazareth, mentre in altri momenti del ro­manzo si imbatte nella amata jinn Niran, folletto amichevole, compagna di mille avventure e alleata dei soldati musulmani durante la battaglia di Acri.

La narrazione di un sogno che passa da un’epoca a un’altra e da un luogo a un altro, creando un ponte tra avvenimenti tanto lontani e diversi tra loro, favorisce l’apparizione improvvisa di personaggi storici o fantastici. L’immaginazione nel sogno è li­bera e viaggia senza limiti cronologici o logici. Tocca all’autore sistemare avvenimenti così diversi, per amalgamarli e dar loro una lettura specifica.

L’occupazione crociata e quella sionista, accostate e sovrap­poste, diventano quindi due facce della stessa medaglia, risulta­no unite da un sottile filo rosso. I crociati e i sionisti sono simili, per mentalità e provenienza. La fuga della popolazione da Acri nel 1291 rappresenta la fine provvisoria di un ciclo che si riapri­rà nell’Ottocento con l’arrivo delle missioni di coloni europei prima e di ebrei sionisti qualche anno dopo. Il destino della Pa­lestina viene associato poi alla distruzione di Baghdad da parte dei mongoli e richiama le azioni degli americani nell’Iraq di oggi.

La lettura che l’autore fa degli eventi storici lo spinge a lan­ciare un netto atto di accusa nei confronti del mondo occidenta­le percepito come globale, unitario. Nel romanzo di Awad si è di fronte a un Occidente sempre coerente con se stesso, un bloc­co unico che non modifica i suoi obiettivi e il suo comportamen­to anche a distanza di centinaia di anni e, se presenta delle sfu­mature, queste sono dovute al fatto che oggi la situazione è si­curamente peggiore di ieri. Oggi infatti, a differenza dell’epoca delle crociate, la guerra non ha più regole, coinvolge sempre più i civili.

Oggi i palestinesi non affrontano i templari, ma de­vono confrontarsi con criminali spietati che, lontani dal campo di battaglia, fanno di tutto pur di controllare un pezzo di terra importante ai loro scopi, politici, economici o ideologici che sia­no. Non è sotto accusa soltanto l’animo violento e le mire espansionistiche dell’Occidente, ma anche la sua mentalità e le sue idee nel complesso: dalla libertà sessuale all’evoluzionismo, alla pretesa di aver raggiunto il massimo grado possibile di ci­viltà e superiorità scientifica e intellettuale. Una lettura questa ricorrente tra coloro che vivono sull’altra sponda del mediterra­neo e, come l’autore, vivono sulla propria pelle l’ipocrisia di un Occidente che si dice moderato ed esportatore di democrazia, ma che in quelle terre ha esportato solo guerre e oppressione.

L’analisi delle guerre e delle battaglie succedutesi nella re­gione non è però così manichea. L’autore ricorda come distru­zioni e saccheggi di città palestinesi siano stati opera di arabi e musulmani: Acri fu bruciata dalle truppe musulmane, Baybars fece radere al suolo Cesarea e lo stesso Saladino fu artefice della distruzione di numerose città della regione. Se il tutto è giustifi­cato dal fine della riconquista, il protagonista non può essere però felice nel vedere la sua Acri bruciare. D’altronde ci spiega come la violenza diventi il linguaggio preferito di chi l’ha subita ripetutamente e per molto tempo. Lo studio dei fatti storici in­duce quindi l’autore a una profonda riflessione critica fino ad affrontare aspetti di recentissima attualità, quali lo spettro della guerra civile in molti paesi arabi e la divisione del popolo pale­stinese.

Se la storia e l’attualità sono l’asse portante sul quale è co­struito il romanzo, l’altro asse è rappresentato dalla natura e dalla descrizione del territorio. Il titolo ci fornisce immediata­mente quest’indicazione: non “il paese delle guerre” o “dell’oc­cupazione” ma Bilad al-bahr, “il paese del mare”. Il grande mare, il mare di Cesarea, quel mare per il quale il padre di Ahmad va in estasi, trasformandosi in uno sparviero che si get­ta in picchiata verso quella distesa azzurra.

Il mare però “è diventato una leggenda”, una storia da raccontare, un mito lontano. La natura diventa quindi spunto per ricordare la terra perduta, la situazione idilliaca pri­ma della catastrofe. In tal modo del mare di Haifa, di Acri, Giaf­fa e Cesarea non resta che il ricordo, solo un ricordo lontano per migliaia di palestinesi costretti all’esilio. Ma anche per quei po­chi palestinesi che sono potuti tornare a contemplare le proprie terre d’origine, il mare non è più lo stesso, niente è come prima. Tutto è cambiato, compresa la natura circostante. L’occupazione ha stravolto tutto e non solo ha provocato la fuga della popola­zione locale e la distruzione dei villaggi ma, modificando la geografia e il territorio, ha causato persino la fuga degli animali.

La condanna dell’occupazione israeliana diventa la condanna nei confronti di un modello di società che non rispetta né gli uo­mini, né il territorio circostante, scoprendo il velo che copre la natura e soggiogandola ai propri interessi. La condanna del sio­nismo sfocia nel contrasto millenario tra scienza e natura, tra progresso e tradizione. L’occupazione sionista viene quindi a rappresentare lo spirito dell’occidente nei suoi aspetti legati alla modernità, al progresso e all’urbanizzazione: la ruspa, il cemen­to, le autostrade dei coloni che attraversano i villaggi palestine­si, l’architettura aggressiva degli insediamenti ebraici, la nuova toponomastica e l’impianto di colture esogene: tutti questi non sono solo simboli dell’occupazione, ma incarnano una mentali­tà, uno stile di vita che ben si addicono a una società che non ha legami con il territorio.

A tutto ciò i palestinesi contrappongono il proprio retaggio culturale, la propria tradizione, la salvaguar­dia degli usi e costumi popolari. La salvia, gli ulivi, i melograni, la saggezza degli anziani e i loro racconti popolari, il contadino palestinese, il fallah, la kufiyya, gli abiti delle donne con i loro particolari ricami, i trilli di gioia delle donne durante i matrimo­ni e poi i canti popolari e la dabka, la danza che richiama un tempo ancestrale: questi non sono solo i simboli della resistenza palestinese e dell’attaccamento alla tradizione dei propri padri, ma incarnano la volontà dell’uomo di non staccarsi dal proprio passato, la nostalgia per un tempo antico in cui i popoli viveva­no in armonia, a contatto con la natura.

È tutto ciò che “non si trova nei libri sacri o nei libri di sto­ria”, è il turath, la tradizione, l’eredità, il patrimonio cul­turale, tutto ciò che è stato trasmesso dagli avi fino ai nostri giorni, le radici.

Il romanzo di Awad è profondamente intriso del turath pale­stinese, in esso respiriamo la Palestina, la odoriamo e la assapo­riamo: dal profumo del pane cotto nel tabun, ai colori sgargianti dell’upupa – che nei racconti popolari fu un cavaliere al servizio di Salomone -, dall’odore del mare di Cesarea, al sapore della salvia misto al sudore delle madri, da Nazareth descritta come un fiore viola gettato sulla Palestina, fino all’odore della terra che il padre di Ahmad porta con sé al ritorno dalle sue uscite notturne.

La natura cambia le percezioni e i sentimenti dei palestinesi, ma allo stesso tempo è modificata essa stessa dall’immaginario e dalla fantasia popolare. In Palestina “i contadini hanno una storia da raccontare per ogni sasso, ogni grotta e ogni albero”. Danno un nome agli alberi, alle terre, agli animali, alle sorgenti, perfino alle pietre. I nomi peraltro rendono le cose vive, ci armonizzano con il mondo circostante, facendoci sentire parte del cosmo e non centro di esso, aiutandoci a rispettarlo e a conservarlo. E quando vivi accanto agli animali “condividi il mondo con loro, non sei solo; queste creature condividono con te la lettura, la comprensione, l’apprendimento. Saggio è colui che riesce a capire ciò che gli viene suggerito dagli esseri viven­ti”.
E non è solo il dialogo a contraddistinguere il rapporto con la natura: nel romanzo il padre del protagonista subisce una vera e propria metamorfosi trasformandosi in un istrice che, braccato dai cacciatori, insegue l’odore del mare.
Il legame con la natura è quindi legame con la propria terra e con le proprie tradizioni. La comprensione e la lettura che ogni cultura e ogni popolo dà dell’ambiente circostante è l’atto d’amore sottoscritto con il proprio territorio.
Se la storia condanna i palestinesi a un continuo esilio, la geografia, la natura e il territorio li legano in modo indissolubile alle proprie radici, fisiche e ideali, anche quando ormai da ses­santa anni non vivono più a contatto con la propria terra e dei loro villaggi non restano che rovine.
L’autore attraverso queste due tematiche principali lancia quindi i suoi messaggi: da una parte, tramite l’analisi degli eventi storici, scrive un chiaro atto d’accusa nei confronti di chi opprime e occupa il suo paese, dall’altra, con la descrizione del territorio palestinese, delle sue piante, degli esseri che ci vivo­no, scrive un profondo messaggio d’amore nei confronti del proprio paese.

L’autore-protagonista, sogna, sogna la Palestina. E il sogno, richiamando la citazione di Ibn ‘Arabi, è sentimento, è amore e passione.

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