Quando arabi ed ebrei Mizrahi sognavano una patria comune

Prima della creazione di Israele nel 1948 alcuni ebrei e arabi vedevano gli altri come ‘fratelli’ e avevano una visione utopica di un futuro condiviso.

Copertina: lavoratori arabi ed ebrei nell’edilizia. (YMCA di Gerusalemme, 1929)

By Ofer Aderet Mar 20, 2017

Novantacinque anni dopo, le opinioni espresse dal politico palestinese Jamal al-Husseini nel suo articolo del 1922 sul quotidiano arabo Al-Sabah farebbero sicuramente sollevare qualche sopracciglio. In “Come to Us”, Husseini esorta i mizrahim (ebrei del Medio Oriente o di origine nordafricana) a formare un fronte unico con gli arabi contro il movimento sionista.

“Ai nostri compatrioti ebrei che hanno compreso gli obiettivi del movimento sionista e il danno che questo provocherà, noi oggi apriamo le braccia e diciamo: Venite da noi! Siamo vostri amici!”, scriveva. “Avete i nostri stessi diritti in Palestina, i nostri stessi doveri… perché, noi e voi, condividiamo la stessa terra d’origine, che ai sionisti piaccia o no.”

Quando il movimento sionista guadagnò forza e tra gli arabi crebbe la paura di essere cacciati dalla Palestina Mandataria britannica, Husseini cercò di fare appello agli ebrei mizrahim, sottolineando la lontananza tra loro e gli ebrei ashkenazim, mettendo in evidenza la vicinanza tra loro e gli arabi palestinesi.

Dopo tutti questi anni, è difficile sapere se la visione di Husseini di un’alleanza arabo-ebraica avrebbe mai avuto una possibilità di essere soddisfatta. Il suo articolo fu destinato ad essere riposto come un polveroso reperto d’archivio che a questo punto suscita una fitta agrodolce di nostalgia, dato tutto lo spargimento di sangue tra ebrei e arabi che si è avuto nel secolo successivo alla sua pubblicazione.

Nel 2017, anno in cui ricorrono il centenario della Dichiarazione Balfour, il 70° anniversario del voto del Piano di Partizione delle Nazioni Unite e il 50° anniversario della Guerra dei sei giorni, la nuova ricerca storica sta cercando di far luce su alcune delle voci messe a tacere e dimenticate che fecero parte del vivace discorso arabo-ebraico nella Palestina Mandataria britannica.

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Arabi ed ebrei insieme in un mercato di Tiberiade (data sconosciuta). Naftali Oppenheim Collection “Bitmuna”

“Queste voci parlavano di un’altra opzione, la strada non presa, incentrata su un’identità ebraico-araba. E’ importante che noi lo riconosciamo, soprattutto in considerazione della realtà frammentata di oggi,” ha detto il mese scorso a Haaretz il Prof. Moshe Naor dell’Università di Haifa. “Vogliamo sottolineare la complessità di questo dibattito e non lasciare che la dicotomia tra ‘arabi’ e ‘ebrei’ sia visualizzata ad un livello così semplice”, ha aggiunto il dottor Abigail Jacobson del Van Leer Institute.

Il loro libro in lingua inglese “Oriental Neighbors: Middle Eastern Jews and Arabs in Mandatory Palestine” (Brandeis University Press) è stato pubblicato lo scorso dicembre. Contiene una grande quantità di esempi di tentativi di dialogo tra arabi ed ebrei mizrahim – sforzi per mettere in evidenza la loro vicinanza etnica, linguistica, culturale e geografica, nonostante le tensioni tra i movimenti sionisti e palestinesi.

Mizrahim mediatori

Gli ebrei mizrahim che vivevano nella Palestina Mandataria britannica – esistita dall’aprile 1920 a maggio 1948 – si dividevano in tre categorie principali: discendenti degli ebrei arrivati dopo l’espulsione dalla Spagna e dal Portogallo, immigrati provenienti da paesi arabi e yemeniti. All’inizio dell’era del mandato, costituivano il 40% della popolazione ebraica. Con l’arrivo di maggiori flussi di aliyah dall’Europa, tale percentuale si ridusse di circa un quarto.

La cooperazione politica, sociale, economica e culturale documentata nel libro illustra come all’epoca alcuni aspirassero a creare un “Nuovo Medio Oriente”, in cui gli ebrei mizrahim avrebbero fatto ricorso alla loro doppia identità di ebrei ed arabi per mediare e fare da ponte tra i due popoli e movimenti.

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Un immigrato bulgaro chiacchiera con un arabo a Jaffa, 1949. Zoltan Kluger/GPO

Uno di questi fu David Avisar, insegnante e scrittore di origine iracheno-ebraica. L’organizzazione che dirigeva, Pionieri d’Oriente (Haultzei Hamizrah), sosteneva che gli ebrei mizrahim avevano sempre vissuto con gli arabi in “fratellanza e amicizia”, e che “gli stranieri stanno seminando discordia tra di noi.”

Nel 1923 Avisar pubblicò un manifesto dal titolo “La questione araba”, in cui trattava le “affinità razziale e culturale tra i due popoli – ebrei e arabi” – e la “possibilità di lavorare alla costruzione di una vita condivisa in Palestina.”

Nel 1929 – anno delle rivolte di Hebron che scossero gli ebrei che vivevano nella Palestina Mandataria britannica – Avisar pubblicò un piano per uno stato binazionale, intitolato “Una proposta per la comprensione e l’accordo con gli arabi di Palestina”. Scriveva che gli ebrei mizrahim avrebbero dovuto rivolgersi direttamente agli arabi, ed era critico nei confronti degli ebrei ashkenazim dell’Europa le cui azioni “erano portate avanti sulle teste di queste masse,” senza considerare “che l’insediamento arabo in Palestina risale a 1.300 anni fa”.

Il suo piano prevedeva la dichiarazione di uno stato unico sulle due rive del fiume Giordano, in cui ebrei e arabi che condividono “razza, credo, storia, lingua e speranza” avrebbero vissuto fianco a fianco.

Una prospettiva come quella di Avisar, che sosteneva la cooperazione culturale e sociale tra ebrei e arabi, avrebbe potuto fare qualcosa per impedire l’escalation di ostilità tra i due popoli?

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Un ciabattino bulgaro, da poco emigrato in Israele, parla con un arabo a Jaffa – 1949. Zoltan Kluger / GPO

“Come storico guardo con diffidenza il lasciarsi trasportare da una nostalgia zuccherosa che potrebbe essere fuorviante”, ha detto Jacobson. “Ma la nostra ricerca indica che qui c’è un’occasione mancata.”

“Alla luce di una nascita del nazionalismo ebraico e arabo, troppo forte e potente, queste voci non avevano alcuna possibilità”, ha detto Naor. “Ma è importante riconoscere il punto di vista che dichiara che al fine di raggiungere la pace, dobbiamo riconoscerci l’un l’altro e rispettarci l’un l’altro.”

Un’altra voce di spicco dell’epoca apparteneva a Eliyahu (Elias) Sasson, che arrivò dalla Siria nella Palestina Mandataria britannica nel 1927 e diresse la divisione araba del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica (e successivamente divenne, ministro e diplomatico). Nel 1928 scrisse: “Una grande responsabilità è sulle spalle degli ebrei sefarditi di lingua araba per la nostra rinascita nazionale”, perché gli ebrei europei “sono estranei alle cose di questa terra e non ne conoscono la lingua.”

Intrigo anti-sionista

Nel 1932 i rappresentanti dei gruppi ebrei-mizrahim si incontrarono a Giaffa per discutere della convocazione di un “vertice arabo-ebraico.” Il giornale ebraico Al-Alam Al-Israeliyi, pubblicato a Beirut, riferì sull’iniziativa e scrisse che gli ebrei delle terre arabe sarebbero potuti arrivare ad un’intesa con gli arabi palestinesi, perché “la loro psicologia, le tradizioni e i costumi non sono sostanzialmente diversi da quelli degli arabi.”

L’iniziativa non riscosse molto interesse tra gli ebrei nella Palestina Mandataria britannica. Tra i pochi che se ne occuparono pubblicamente ci fu il redattore di Haaretz, Moshe Gluckson, che la etichettò come un “intrigo antisionista” e disse che gli arabi stavano cercando di usarla “per rompere il nostro fronte nazionale e giungere ad un accordo con gli ebrei d’oriente contro i loro fratelli ashkenazim“.

L’iniziativa alla fine fu lasciata cadere. Ma c’erano ancora alcune persone non disposte a rinunciare. Un decennio più tardi, nel 1942, lo studioso di Medio Oriente Yosef Yoel Rivlin – padre dell’attuale presidente di Israele, Reuven Rivlin – pubblicò un articolo ottimista sulla rivista Hed Hamizrah. “In Palestina il lavoratore ebreo-mizrahi è relativamente simile nel suo stile di vita al lavoratore arabo. … Sono vicini non solo nel loro linguaggio verbale, ma anche nel linguaggio mentale … nel loro modo di pensare e stile di vita. In un luogo dove c’è una sola lingua … e un unico modo di pensare, c’è ancora qualche possibilità di trovare una soluzione“.

David Abulafia, presidente del Consiglio della Comunità sefardita di Gerusalemme, espresse una posizione simile quattro anni più tardi. “Abbiamo un ruolo speciale nel destino del sionismo per quanto riguarda il coltivare relazioni pacifiche e la comprensione con gli arabi di questa terra”, disse, aggiungendo: “Noi potremo fornire assistenza … importante nel promuovere la cooperazione sulla base di pari relazioni tra i due popoli fratelli“.

Non molto tempo dopo, però, quando le Nazioni Unite votarono il Piano di Partizione e aprirono la strada alla fondazione di Israele, questa speranza svanì. Tutti i bei discorsi di cooperazione e comprensione furono sostituiti da rapporti di tumulti, omicidi e saccheggi contro ebrei nei paesi arabi. Centinaia di migliaia fuggirono dalle loro case per la Palestina Mandataria britannica. E in seguito, durante la guerra d’indipendenza, molti degli arabi locali o fuggirono o furono espulsi.

Da allora sono passati quasi 70 anni. Le voci che propongono un’altra via, che sembrava essere completamente scomparsa, stanno cominciando a riapparire in varie pubblicazioni. L’edizione Sumer 2016 della rivista Zmanim è stata intitolata “Ebrei e arabi nel Medio Oriente.” Nel suo editoriale si fa questa osservazione: “Un esame della storia comune di ebrei e arabi in Medio Oriente non può ignorare guerre e cancellazione di antiche comunità storiche. Ma neppure può prescindere dalla cooperazione e da condivise esperienze soggettive“.

Traduzione Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

fonte: http://www.haaretz.com/life/books/.premium-1.777951

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