Israele sta costruendo altre 1.000 case in terra palestinese. Dov’è l’indignazione?

Mai nel campo dei diritti umani è stato tanto dovuto da così tanti a così pochi.

Robert Fisk – 23 agosto 2018

FOTO: La costruzione di altre 1.000 proprietà è pianificata dal governo israeliano in Cisgiordania

Nella settimana in cui Uri Avnery, il fustigatore del colonialismo, è morto a Tel Aviv, il governo israeliano ha annunciato un ulteriore allargamento del suo massiccio progetto coloniale nella Cisgiordania occupata. E’ stato avanzato un piano, ha comunicato mercoledì, per altre 1.000 “case” negli “insediamenti” ebraici – la parola che ancora siamo costretti a usare per definire il furto di terra – e l’approvazione finale è stata data per altri 382. Oggi, 600.000 Ebrei israeliani vivono in circa 140 colonie costruite su terreni appartenenti a un altro popolo, i Palestinesi, in Cisgiordania o a Gerusalemme est.

C’è una sorta di normalità in tutto questo, ultimo conflitto coloniale del mondo; una stanchezza riguardo le cifre, una risposta scialba e insignificante alle enormi attività di costruzioni sul territorio palestinese. Tracciare la diffusione dei tetti rossi dalle cime della West Bank, le piscine e i prati e le strade, i supermercati e i frutteti – tutti circondati da acri di filo spinato e ora anche dal Muro grottesco – per noi giornalisti che coprono il Medio Oriente è diventato non tanto un “Storia”, ma una stanca routine, un conteggio, una tabella di furti di terra, una storia da aggiornare con ogni nuovo annuncio di “insediamenti” e la successiva protesta da parte dei Palestinesi ai quali la terra è stata rubata e dalla penosa e corrotta Autorità Palestinese. Lo stesso vale per i piccoli gruppi di sinistra e di attivisti israeliani – B’Tselem, per esempio e Gush Shalom di Avnery – che hanno coraggiosamente continuato a combattere per dire la verità su questa forma unica di aggressione, quando anche Israele smise di ascoltare.

Mai nel campo dei diritti umani è stato tanto dovuto da così tanti, a così pochi. In sette anni il numero di coloni ebrei che vivono in terra palestinese – illegalmente secondo il diritto internazionale – è salito da 80.000 al momento dell’accordo di Oslo nel 1993, a 150.000. Quando ognuno di questi 70.000 nuovi coloni ebrei ha varcato la soglia della sua nuova casa, ha fatto un proibito “passo unilaterale” – per usare il linguaggio di Oslo nell’indicare i continui sequestri di terre. Ma non importava.

L’articolo 49 della Convenzione di Ginevra del Comitato internazionale della Croce Rossa del 1949 è piuttosto specifico:

“La potenza occupante non deve deportare o trasferire parti della sua popolazione civile nel territorio che occupa”.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’assemblea generale, il CICR e la Corte internazionale di giustizia concordarono che l’articolo 49 fosse applicato ai territori occupati da Israele. Anche questo, non importava.

L’allargamento delle colonie in Cisgiordania è stato pubblicamente dichiarato da Israele non solo come un ritorno alla terra biblica, ma anche come una punizione per i Palestinesi. Nel 2012 il governo israeliano dichiarò esplicitamente che  l’ annuncio di 3.000 nuove case di “coloni” in Cisgiordania era una risposta alla decisione delle Nazioni Unite di concedere alla Palestina lo status di osservatore non membro. Questa settimana Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliano il cui linguaggio ha spesso messo in imbarazzo i suoi colleghi di destra, ha detto che saranno costruite 400 unità abitative ebraiche come risposta all’omicidio di un civile israeliano da parte di un palestinese nella colonia di Adamo.

Nessuno contesta la violenza dei gruppi palestinesi – né che l’orrendo Muro che ha annesso ancora più terra palestinese abbia impedito ai kamikaze di entrare in quello che chiamiamo “Israele vero”  (la West Bank è presumibilmente “Israele improprio”). In effetti il ​​Muro e le colonie sono diventati una parte concomitante dell’occupazione. Lo studioso di Cambridge Yonatan Mendel ha fornito una spiegazione del fenomeno che toglie il respiro per la sua semplicità e onestà:

“Un singolo insediamento segnò solo l’inizio di un progetto “sicurezza”: non era sufficiente di per sé. La logica richiedeva la costruzione di più insediamenti attorno ad esso. Quindi, al fine di garantire i blocchi di insediamenti di nuova costituzione, tra loro era necessaria una rete di strade sicura. Ma al fine di rendere sicure le strade, occorreva costruire più insediamenti lungo di esse. Il che non significa dimenticare il Muro, che serve per proteggere gli israeliani dai Palestinesi, oltre a proteggere le pattuglie dell’esercito che proteggono le recinzioni intorno agli insediamenti, che proteggono le strade che complessivamente, in modo singolare, proteggono i cittadini israeliani che vivono a Haifa , Tel Aviv e Beer Sheba. “

Questo piano generale in evoluzione, ha scritto Mendel, che “termina con strati su strati di sicurezza per garantire la sicurezza, ignora il fatto cruciale che i coloni e gli insediamenti sono la causa principale delle minacce alla sicurezza e un forte incitamento ai Palestinesi. In altre parole, l’imperativo della sicurezza è una delle maggiori minacce alla sicurezza di Israele “.

Se quest’analisi quasi burlesca impedisce al giornalismo di svolgere il suo compito principale, ovvero spiegare i fatti in modo comprensibile – dal momento che la versione ufficiale israeliana e americana della colonizzazione è così diversa dalla realtà – la risposta del governo statunitense all’atto illegale di espropriazione ha solo aumentato la nostra riluttanza a confrontarci con la verità.

Uri-Avnery

Prendiamo le pusillanimi dichiarazioni dell’allora segretario di stato Madeleine Albright durante un tour in Medio Oriente nel 1997. Albright esortò Israele ad “astenersi da atti unilaterali”, tra cui “ciò che i Palestinesi percepiscono come l’espansione provocatoria degli insediamenti, la confisca delle terre, le demolizioni di case e la confisca degli ID ”. Le colonie, il furto e la confisca di proprietà e la requisizione di documenti, nel lessico di Albright erano diventati semplicemente “ciò che i Palestinesi percepiscono come provocatorio”. Non giudicò queste azioni, internazionalmente illegali e moralmente vergognose, come crudeli e malvagie, per non dire provocatorie? Come avrebbe potuto, quando Ariel Sharon stesso nel 2001 avrebbe descritto i “coloni” come “una componente di qualità della società israeliana”?

E così ci trovammo di fronte al linguaggio speciale della colonizzazione: “avvenimenti sul campo”, una frase coniata dagli Israeliani, “nuove realtà sul terreno”, scrisse George W. Bush nella sua infame lettera del 2004 a Sharon, “insediamenti”, “quartieri”, “periferie”, “centri abitati” – tutti in una Cisgiordania che secondo un divieto dell’ex segretario di stato americano Colin Powell, non doveva più essere definita come “territori occupati” ma piuttosto: “territori contesi”. E se gli Israeliani non erano presenti in territori “occupati” – ma solo in territori “contesi” – sicuramente le Convenzioni di Ginevra non dovevano essere applicate. E così via.

In quei territori contesi, naturalmente, ci furono “attacchi terroristici” quando i Palestinesi assalirono gli Israeliani – ma “scontri mortali” quando gli Israeliani spararono ai Palestinesi. Il muro non era un muro ma una “barriera” o “recinto”, o “barriera di sicurezza” o “recinto di sicurezza” o “barriera di separazione”. L’arresto della colonizzazione sarebbe diventato un “congelamento”, una “moratoria” o, il mio preferito, una “pausa”.

Quindi perché, il semplice lettore o spettatore potrebbe chiederci, noi abbiamo riportato questa roba senza senso: gli Arabi hanno usato violenza contro un innocente “insediamento” su un terreno “contestato” e delimitato da un recinto, qualcosa che normalmente è usato per definire il confine tra giardini e campi? Sicuramente tutto ciò – quartieri, recinzioni, dispute – potrebbe essere risolto con una tazza di tè o ricorrendo agli avvocati? Abbiamo desemantizzato questo terribile conflitto. Persino Barack Obama, nel suo panegirico al Cairo nove anni fa, parlò di “dislocamento” e della “dislocazione” dei Palestinesi, piuttosto che di espropriazione ed esilio; come se si fossero svegliati una mattina, avessero controllato il tempo e deciso di visitare la spiaggia di Gaza o godersi un fine settimana in Libano, senza però poter poi tornare a casa.

Le statistiche – noiose, monotone e davvero familiari – sono disponibili per tutti coloro che desiderano sapere. E oggi la cifra è di 600.000 coloni ebrei in Cisgiordania e Gerusalemme Est – e in Cisgiordania, naturalmente, altre 1.000 famiglie in viaggio. Tutti partecipano a ciò che secondo Avnery è un progetto suicida che creerà uno Stato israeliano di apartheid, perché se una minoranza di Ebrei dovesse dominare una maggioranza emarginata di Arabi – attualmente corrispondente a 2,75 milioni di persone – quello sarà il risultato.

Tornando ad Avnery, suppongo.

Sei anni fa mi disse che le cose sembravano “piuttosto scoraggianti”. Ancora di più lo erano nella settimana della sua morte, temo. Era infuriato con Netanyahu, Trump, il consigliere del presidente e genero Jared Kushner e Lieberman. A proposito, non sosteneva la campagna di boicottaggio, ma nel 2012 disse: “Credo ci sarà una pausa e un cambiamento completo lungo la strada, qualcosa come la caduta del muro di Berlino, che il giorno prima nessuno si aspettava. “E amava ripetere l’espressione più famigerata di Donald Rumsfeld: ” Le cose accadono! ”

In questo momento, non sono sicuro di essere d’accordo.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org

Fonti: https://www.independent.co.uk/voices/israel-settlement-expansion-1000-new-homes-palestinian-land-robert-fisk-wheres-the-outrage-a8504471.html

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