Il cinema israeliano sta cercando, senza successo, di raccontare il terrorismo ebraico.

Quattro recenti film esplorano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma nel considerare i loro soggetti casi ”eccezionali” , non riescono a raggiungere le radici della  loro ideologia.

Fonte: Versión española

Natasha Roth-Rowland (*) – 15 aprile 2020

Considerata l’accelerazione avvenuta negli ultimi anni della normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra in Israele, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di scoprire come la politica israeliana abbia ereditato le sue attuali tendenze.

Negli stessi anni sono apparsi quattro pellicole sull’argomento:

  • L’Incitamento, un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin;
  • Il Profeta, che ripercorre la carriera del rabbino Meir Kahane mentre predica  il suo messaggio di violenza ebraica dalle strade di New York alle sale della Knesset;
  • The Settlers, che racconta la storia del movimento dei coloni
  • The Jewish Underground, sull’omonimo gruppo terroristico.

L’incitamento, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa ricostruzione dell’atmosfera durante il periodo  dei colloqui di  Oslo. Si concentra principalmente sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più profeticamente, a Rabin. La telecamera si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: un graffito che incita contro il primo ministro, un poster in stile “wanted”  che lo definisce “L’assassino”  e che lo raffigura con l’icona di obiettivo disegnata sulla testa e cartelli esibiti in rabbiose manifestazioni che lo  rappresentano con una kefiah o in un’uniforme delle SS.

Amir viene ripreso anche al funerale di Baruch Goldstein, che nel febbraio 1994 sparò e uccise 29 palestinesi nella moschea Ibrahimi a Hebron. Lì sente un rabbino discutere dell’applicabilità di una condanna a morte religiosa contro Rabin,  con il presupposto che il primo ministro aveva messo a repentaglio gli ebrei negoziando un compromesso territoriale. Amir  si imbatte altre simili discussioni nelle prime fasi del film. Da qui, dovremmo presumere, fu un passo normale per lui decidere che sarebbe stato l’esecutore di quella condanna a morte.

Ci sono altre premonizioni. La madre di Amir, per esempio, dice alla ragazza   che suo figlio  vorrebbe come fidanzata che il suo nome di battesimo, Yigal, significa “redentore” e che è convinta che riscatterà “il suo popolo”. Afferma che suo figlio è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la ragazza lo rifiuta. In un’altra scena familiare, una delle più potenti del film, il padre di Amir, sentendo parlare dei piani di suo figlio, gli urla: «Ci vorranno generazioni … generazioni! per guarire una tale ferita “.

L’incitamento affronta anche il background di Amir , figlio di immigrati yemeniti. Una serie di tensioni sopite si  diramano all’interno della sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliti ashkenaziti, le discussioni tra lei – un falco – e suo padre, che spera negli accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando si ritrova all’interno di una riunione di famiglia, un cenno all’emarginazione di Amir nella società israeliana come ebreo Mizrahi.

Tuttavia, il film mostra poco di questa dinamica all’interno del mondo religioso-sionista. Qui i rabbini che incitano contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, dopo l’omicidio, parti dell’establishment religioso-sionista cercarono di smarcarsi dalla responsabilità dell’omicidio, indicando l’origine Mizrah dell’ebreo Amir come prova del suo status di straniero.

La polizia israeliana cerca di impedire ai manifestanti di destra che protestano contro gli Accordi di Oslo di salire sull’auto del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, Gerusalemme, 5 ottobre 1995. (Flash90)

Il fatto che sappiamo come finisce la storia non ne allevia la tensione. Piuttosto, già dal primo fotogramma il film è ossessionato dal disastro che incombe. L’utilizzo  di filmati d’archivio accresce il senso di premonizione, specialmente durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo filmati sgranati della vita reale di Amir , visibile nella sua maglietta blu in attesa accanto alla macchina di Rabin, intervallati da immagini ravvicinate di lui che parla amichevole alle guardie di sicurezza di Rabin. È,  pensano, uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “L’Incitamento” conferma chiaramente come l’estremismo abbia  messo radici ai vertici della politica israeliana, un estremismo incarnato dalla figura di Benjamin Netanyahu e dal gruppo di rabbini religiosi-sionisti che misero una taglia sulla testa di Rabin. Zilberman inserisce le riprese della presenza di Netanyahu alle manifestazioni anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la  sua famigerata presenza su un balcone che si affaccia su Piazza Sion, a Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedevano gridando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma considerato  che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e dato il momento politico in cui il suo lavoro esce nelle sale, la sua sembra un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi  sui legami più profondi tra i religiosi sionisti e le élite politiche in Israele. Ancor più negligente è il fatto che il film  non tratti il perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito a incitare all’omicidio di Rabin, fu eletto capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione deriva in parte dalla quasi totale assenza di palestinesi nel film. Certo, L’incitamento è una storia sul mondo etnicamente segregato della destra religiosa israeliana e sulla frenesia inesplorata che l’ha afflitta dagli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come un tuffo profondo nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto rivelatore può essere un tale progetto se non si coinvolge l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è, in effetti, l’obiettivo principale dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi compagni credevano che fosse un burattino dei palestinesi e, quindi, una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questo divario, il film ha forse detto di più sul momento storico  attuale di quanto intendesse: “L’incitamento” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dalla rivelazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump del suo “affare del secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha costruito con piani dettagliati un futuro palestinese senza consultare coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

THE PROPHET Israeli Documentaries Competition

L’estrema destra israeliana è al microscopio anche in  The Prophet, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario datato 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, fondatore negli anni ’60 della Jewish Defense League a New York e  che negli anni 80 fu unico rappresentante del suo partito, Kach, all’interno della Knesset. Rivisita alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dal bombardamento del 1970 agli uffici dell’Aeroflot di New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, per incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il Paese.

Nel corso del film, Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che lo scorso anno partecipò al triplo round delle elezioni israeliane e i cui leader sono tutti ex seguaci di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dall’intera biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Marzel afferma che qualsiasi altra opzione è una fantasia: “O è democratica o è ebraica. Non può essere entrambe”. Tale mentalità, risponde l’esperto legale Moshe Negbi, conferma la dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo cui il sionismo è razzismo.

Questo scambio, realizzato attraverso interviste anziché dialoghi, mette in luce uno  dei due difetti delfilm. Sembra infatti guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra l’avere uno stato etnico particolaristico e una democrazia, per  poi distoglie di nuovo lo sguardo respingendole semplicemente come un’idea inimmaginabile espressa dagli estremisti.

Palestinesi piangono la morte del bambino Ali Saad Dawabshe, ucciso dai coloni israeliani in un incendio doloso, Douma, Cisgiordania, 31 luglio 2015. (Oren Ziv / Activestills.org

È un peccato, perché il film di Fields va oltre L’incitamento, sottolineando come il razzismo sistemico e lo sciovinismo abbiano un impatto sulla società e sulla politica israeliane. Verso la fine il film  ripercorre una serie di attacchi terroristici ebraici: il massacro di Goldstein, l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir, l’attentato dinamitardo alla casa dei Dawabshe a Douma, per poi passare abilmente alla Knesset, mostrando politici dei Likud che insultano i palestinesi,  per poi terminare  con l’approvazione della legge ebraica sullo stato-nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, un festival di bandiere e di fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit e ha fatto sforzi per conquistare i suoi elettori, qui Fields colpisce nel segno. Ma l’arco documentario e la  l’assenza della storia pre-Kahane dà l’impressione che chi ha messo in moto la putrefazione sia un singolo demagogo razzista, piuttosto che denunciare la profonda xenofobia e la paranoia razzista che sono  state parte del carattere dello Stato dal primo giorno.

L’altra grande omissione dal documentario è la sua incapacità di intervistare una donna o anche solo un palestinese. (Una donna appare  in un’intervista in  immagini di archivio che Rubin include nel film). Considerato quanto la purezza etnica e il genere (e le connessioni tra loro) siano per l’ideologia kahanista e per  l’ideologia israeliana di estrema destra in generale questioni fondamentali, questa è un’assenza sorprendente. Fondamentalmente lascia che la storia  sia raccontata solo da coloro che ne sono al centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci  di chi è ai margini dell’estrema destra e delle loro vittime.

Dei quattro film, The Jewish Underground è forse il più riuscito nel dimostrare che l’accettazione dei violenti  estremisti di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Tuttavia,  anch’esso inciampa sulla parità di genere dei suoi intervistati: la prima ora non include nessuna donna come soggetto. L’unica apparizione di una donna, alla fine di un’intervista con uno dei leader del gruppo, è una figura sfocata,  di spalle , in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce,  a suo modo, a trattare i temi presentati come se fossero un’eccezione. Si concentrano tutti su gruppi o individui che si capisce essere estranei all’opinione pubblica israeliana e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti stessi della società israeliana. Nonostante tutte le terribili rivelazioni sulla visione del mondo violenta e sciovinista di questi uomini, il loro approccio si avvicina al modo in cui queste figure vengono considerate nella più ampia discussione  israeliana: come uomini del mucchio, che aspettano ai margini per poi balzare sulla scena per cercare di rovinare Israele.

Mostrando come esempi Kahane, Amir e il mondo sotterraneo ebraico, senza affrontare seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica, puntando  sempre l’orologio a partire dal 1967 e non dal 1948, questi film smettono di essere la chiara resa dei conti che intendevano essere. In tal senso, riflettono invece la singolare attenzione odierna su Netanyahu come quasi unica fonte di tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un impegno pressoché nullo su ciò che la “democrazia” israeliana comprendeva prima di salire al potere.

Va bene vedere Kahane e i suoi seguaci urlare “Arabi fuori!”, vedere  Miri Regev dire a Balad MK Haneen Zoabi dal seggio della Knesset : “Torna a Gaza, traditore;” vedere le proteste dei parlamentari  del Partito della lista comune guidata dai palestinesi, espulsi poi dalla sala plenaria della Knesset mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato nazione. Ma senza riconoscere che lo stato ha, in un modo o nell’altro, detto “Arabi fuori!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “uomini neri”, né respingeranno il caos che provocano.

 

(*)Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia all’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive dell’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. In precedenza ha trascorso diversi anni come scrittrice, montatrice e traduttrice in Israele-Palestina, e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul blog London Review of Books, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo in “Rowland” quando cercò rifugio nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected by WP Anti Spam